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Archeologia arborea:

la "vite maritata"

Le viti maritate di Sagraia (video)
La "vite maritata" nella storia
La persistenza nel tempo
Il perché della durata
La "vite maritata" ad Umbertide
La "vite maritata" negli archivi
Approfondimento viticultura da Ottavi Ottavio - 1885

a cura di Francesco Deplanu

(giugno 2020)

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Nella zona collinare dove si trova la tomba etrusca di Sagraia, tra Preggio ed Umbertide, esistono ancora alcuni esempi di  “vite maritata”. Coltivazione che caratterizzò per lunghissimo tempo la modalità di coltivazione della vite e determinò l'aspetto del paesaggio delle nostre zone.

Video :  ultime viti maritate in località Contini, San Bartolomeo dei Fossi (Umbertide).

La vite maritata ha una storia di circa 3000 anni; l’utilizzo della vite con l’acero campestre come tutore vivo, era funzionale ad una economia di sussistenza, unica possibile nel mondo preromano, ma che nelle nostre zone continuò sostanzialmente a dominare e si fuse, a partire del XVI secolo, con il sistema di  conduzione indiretta della terra, strutturatosi poi in mezzadria. L'acero con la vite ad esso "maritata" spesso venne disposto in serie all’interno dei campi coltivati a costituire l’“alberata”, caratterizzando il nostro mondo rurale fin dopo la seconda guerra mondiale. Sistema agricolo funzionale ad una agricoltura che si rivolgeva più all'autoconsumo che al mercato, per questo l'uso promiscuo dei campi, viti ed arativo, e alla policoltura.

 

Dal dopoguerra l'utilizzo della vite marita è scomparso e con esso è svanito quel caratteristico paesaggio ordinato del nostro paesaggio rurale. 

 

La vite (Vitis Vinifera L.) è un arbusto lianoso che per meglio coltivarla venne fatta crescere su un supporto vivo, ha una lunghissima storia di utilizzo, dunque, che si è interrotta solo nel sec. XX, a fronte di una visione di sfruttamento economico del terreno più redditizia. Infatti ad Umbertide e nell’Umbria del nord non furono nemmeno l’arrivo delle malattie specifiche delle vigne del ‘900, come la “fillossera”, o quelle dei loro supporti, come per gli olmi del nord Italia, che riuscirono ad “estirpare” questo tipo di coltivazione. Molto probabilmente, infatti, la distanza tra le piante nella tipica cultura promiscua favorì anche la loro protezione dalle malattie o agenti infestanti.

Prima vite maritata in località Contini

Fig. 1:  prima vite maritata individuata in  Località Contini, San Bartolomeo dei Fossi (Umbertide). Foto di Francesco Deplanu

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A portare al loro espianto o alla sostituzione con vigneti, o sistemi di altra struttura, furono le necessità, già visibili ad inizio ‘900, di un miglioramento della produzione e di un uso del terreno agricolo sempre più rivolto al mercato. 

La fine della mezzadria, poi, comportò la definitiva perdita di questo tipo di coltivazione e quasi del ricordo stesso della lunghissima presenza della “vite maritata”.

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Fig. 2: seconda  vite maritata individuata in  Località Contini, San Bartolomeo dei Fossi (Umbertide). Foto di Francesco Deplanu

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La  "vite maritata" nella storia

 

Questo tipo di coltivazione riguardava i territori anticamente abitati dagli etruschi o, più a nord, dai celti. Per questo motivo questa modalità di coltura, e cultura, è detta anche “vite etrusca” o “vite etrusco-celtica”. La si trovava soprattutto in Liguria (dove sembra che sia iniziata), Toscana, Umbria, parte della Campania, Emilia, Veneto; esempi di coltivazione simile, inoltre, dovuti al cercare di dare una soluzione al medesimo problema della maturazione dell'uva e alla miglior resistenza della vite, si trovano poi in alcune parti d’Europa.

 

Nel tempo l’associazione della vite ad un supporto alberato venne nominata in maniera differente.  In lingua etrusca veniva chiamato “àitason”, “arbustum” in latino, che poi si distinse in “arbustum gallicum” termine per designare una serie collegata di piante maritate, definita poi “piantata”, e  “arbustum italicum” per indicare la pianta isolata con la vite, uso agricolo successivamente definito da noi “alberata” . 

 

I termini “alberata” e “piantata” sono entrati in voga, invece, alla metà del XVII sec. con Vincenzo Tanara nell’opera “Economia del cittadino in villa” del 1644. 

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Fig. 3: terza  vite maritata individuata in  Località Contini, San Bartolomeo dei Fossi (Umbertide). Foto di Francesco Deplanu

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A partire dal I sec. d.C., infine, anche grazie ai poeti Catullo ed Ovidio, iniziò la metafora dell’amore utilizzando l’immagine della vite e del suo supporto, che portò alla definizione attuale di “vite maritata”.

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La persistenza nel tempo

 

Certamente nell’epoca etrusca le possibilità delle tecniche agricole non consigliavano una modalità diversa di coltivazione in climi più freddi ed umidi rispetto a quelli più a sud , zone dove i greci, invece, avevano portato la modalità di coltivazione a terra della vite.

Emilio Sereni, in “Storia del paesaggio agrario italiano“ (1961), per primo spiegò grazie anche all’etimologia come furono gli Etruschi ad introdurre nella zona padana la vite maritata e come poi, i “galli” ne appresero la coltivazione. Coerentemente con la sua ipotesi si spiegano anche le persistenze delle vite maritate a piante di alto fusto fin dove arrivò la dominazione etrusca, ovvero in Campania.

La persistenza della coltivazione, comunque, continuò a lungo nei secoli in molte zone. Difatti questa tipologia di produzione continuò sia nel periodo romano, sebbene altre tecniche per la viticoltura raggiunsero una considerevole evoluzione, che nel lungo periodo medievale, oltre che nel periodo della produzione mezzadrile. 

 

Maritare la vite ad un supporto vivente però, ad un certo punto, dopo decine di secoli, divenne non conveniente.  Con una conduzione dell’agricoltura che stava abbandonando il sistema mezzadrile, economicamente di sussistenza, per passare ad uno di mercato, avvenne il passaggio anche a modalità di coltivazioni con supporto fisso (o “morto”), o a coltivazioni specializzate, come il vigneto, e non più promiscue. 

 

Oltre al motivo produttivo legato all’elemento economico, che portò ad uscire da una agricoltura di sussistenza, va puntualizzato che  la vite maritata in tempi moderni sicuramente presentava degli svantaggi: si doveva lavorare molto di più per la potatura di quello che si poteva fare sul sistema a filari; la chioma del tutore faceva maturare l’uva più tardi;  infine era sicuramente maggiore la scomodità durante la raccolta, considerando l’altezza del tutore vivo. 

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Fig. 4: quarta  vite maritata individuata in  Località Contini, San Bartolomeo dei Fossi (Umbertide). Foto di Francesco Deplanu

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Ma perché durò così a lungo questo tipo di coltivazione ? 

 

Va ricordato che sebbene la chioma dell'albero tutore rallentasse la maturazione, proteggeva allo stesso tempo dalle intemperie i frutti della vite. Le sue foglie servivano da foraggio. Sui rami dell’acero, spesso potato a “candelabro”, per favorire la raccolta successiva, si potevano anche conservare il materiale tagliato durante le potature (si vedano a questo proposito le foto del “Museo del Vino” della Fondazione Lungarotti, citato nelle fonti). Era insomma un esempio di consociazione produttiva. Oltre a produrre uva si ottenevano foglie da utilizzare come foraggio, legna da ardere, materiale per legare le viti e anche per intrecciare cesti  e poi… bottiglie e damigiane.

Infatti una coltura di sopravvivenza, caratterizzante le nostre zone per lunghissimo tempo, preferiva un uso promiscuo del terreno. Inoltre va considerato che una volta costruito il “matrimonio”, per decenni l’aspetto della cura della vite e del tutore poteva essere lasciato in secondo ordine; questa era proprio una caratteristica favorevole alla gestione dei lavori nella policoltura legata alla mezzadria. 

Con un tutore adatto, come il nostro “acero campestre”, questa coltivazione sembrò la migliore, soprattutto per terreni collinari e con poco suolo. L’acero ha un lento accrescimento, ed inoltre ha radici poco profonde e non entrava così in competizione con quelle della vite. Questi elementi permisero il successo di tale sistema di coltivazione. 

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Fig. 5: Aceri in  Località Contini, San Bartolomeo dei Fossi (Umbertide). Foto di Francesco Deplanu

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Nel 1885 in un testo di “viticoltura” Ottavi Ottavi, professore di scienze agrarie, analizzò dal punto di vista tecnico come veniva ancora coltivata la “vite maritata”, indicandone, però, allo stesso tempo il motivo della futura scomparsa. 

Ottavi fu attento a specificare come lui, rispetto agli agronomi a lui contemporanei che spingevano per una produzione esclusivamente specializzata della vite, aveva “concesso” uno spazio del suo manuale “tecnico-pratico” a questa tipologia di coltivazione. Questo perché riconosceva i numerosi vantaggi di tale metodo per certi tipi di zone: “a differenza d'altri autori di viticoltura, dedichiamo un capitolo alla coltura della vite maritata ad alberi.  Ne condanniamo come essi il principio; ammettiamo però che in certe piane essa possa tollerarsi, che in taluni casi non si possa difendere diversamente la vite dai geli, e che qualche vitigno vi sia che mal sopporta la potatura dei sistemi a viti basse, […] ammettiamo infine che molti per ora non possano o non vogliano trasformare. Ecco ragioni bastanti perchè ci abbiamo ad occupare di questo tema, e studiare i modi di rendere meno intermittente, più abbondante e più scelto il prodotto delle viti maritate ad alberi.

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Così veniamo a conoscenza, tra i vari supporti vivi utilizzati, dei vantaggi del nostro “acero campestre”: “Ci paiono adunque piuttosto consigliabili quegli alberi il cui sistema radicale è pochissimo esteso e che poco possono sfruttare il terreno. 

In questa condizione trovansi il ciliegio selvatico e  l’acero che fu chiamato dal Gasparin un palo vivente. L'acero campestre (acer campestre) è molto meno sviluppato ne l’ altezza che non gli altri (acer pseudoplatanus e acer platanoides), ha lento accrescimento, si accontenta di terreni aridi e vien su anche dalla semente. Ad eccezione dei terreni tufacei esso prospera ovunque. Le pianticelle  sono atte a porsi a dimora dopo 4 o 5 anni. L'acero ha radici brevi e poco profonde e facilmente si presta ad essere potato in diverse foggie.”. 

Riportiamo, per chi è interessato, una appendice in fondo al testo più estesa delle riflessioni e spiegazioni di Ottavi relative al suo capitolo XXIV: “Le vite maritate e i pergolati”.

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La “vite maritata” ad Umbertide prima della scomparsa

 

Come si è detto gli ultimi grandi esemplari di “vite etrusca”, o “maritata” restano visibili nella collina sopra la tomba di Sagraia, ma se si guardano con attenzione le immagini che ci sono arrivate del ‘900 della nostra città, si vede le campagna umbertidese con la dominante struttura ad “alberata” fin a ridosso delle case. 

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Immagine 4: Particolare di un’immagine dell’Archivio Comunale di Umbertide. Panorama di Umbertide negli anni ’30 del ‘900 dall’ex Convento. Si notano in primo piano le piante disposta ad “alberata”, molto probabilmente aceri campestri alternati a seminativo.

Questa coltivazione è visibile anche nelle immagini del  periodo più buio della nostra storia, il bombardamento del 1944, dove nelle foto, che mostrano la nube delle esplosioni nel centro della città, si notano sia le alberate che alcuni festoni di collegamenti tra alberi tutori come avveniva nella più strutturata “piantata”, spesso presente con l’alberata ma lungo i bordi della strada per non ostacolare i lavori agricoli nei campi.

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Immagine 5: Particolare di un’immagine presa subito dopo il bombardamento del 25 aprile 1944, da “Mario Tosti: “Il nostro calvario” - Ed. Petruzzi – Città di Castello, 2005, p. 213.

Come si può ben vedere nello scatto successivo, mentre la nube si sposta portata dal vento, la tipologia di coltivazione dominante era ancora la vite maritata all’acero, ma i tempi erano già cambiati e si può notare la compresenza anche di vite a filari legati a supporti fissi e non vivi.

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Immagine 6: Particolare di un’immagine presa subito dopo il bombardamento del 25 aprile 1944, da “Mario Tosti: “Il nostro calvario” - Ed. Petruzzi – Città di Castello, 2005, p. 213.

La foto venne scattata nella zona dell’attuale via Fratta all’incrocio con via Martiri dei Lager. Nella mappa dell’Istituto Geografico Militare (IGM), realizzata sul rilievo del 1941, Tavoletta di “Umbertide” (qui legata a quella di “Niccone”, perché la città era divisa in due diverse “tavolette”, scala 1:25.000) abbiamo contrassegnato con una “X” il probabile luogo degli scatti, con la freccia rossa abbiamo indicato la zona del quartiere di San Giovanni, che si vede ancora rappresentato tutto intero prima della distruzione a causa del bombardamento; con il cerchietto rosso, infine, abbiamo evidenziato il simbolo della coltivazione della vite, che quando si presenta alternato al simbolo dei “cerchietti” indica la cultura “promiscua della vite”.

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Immagine 7: Stralcio di “Tavolette” 1:25.000 unite per presentare la città che era “tagliata” in due. 1)”Niccone”, Foglio 122 I, N.E. 2) “Umbertide": Foglio 122 I, N.E. della Carta d’Italia (rilievo del 1941). La sovrapposizione è stata scartata preferendo lasciare tutte due le rappresentazione nell’area di margine delle due “tavolette”.

Sempre dal libro di Mario Tosti, “Il nostro calvario” p. 260, si notano dei particolari ingrandendo le foto come questo a Coldipozzo dove si vede l’acero e la vite legata  prima dell’apparato dei rami fatti crescere con la potatura “a candelabro". Nelle foto successiva riportata sul libro si può vedere sullo sfondo di una foto ricordo il paesaggio dell’alberata. Nello stesso periodo della fotografia la cultura promiscua della vite alternata a campi coltivati, è ben visibile  in località “Col di Pozzo”: è infatti riportata nella Tavoletta 1:25.000 Foglio 122 I, N.E. della Carta d’Italia, ed è visibile nello stralcio riportato sotto (vedi immagine n. 10) nell’angolo alto a destra, anche se nello stralcio riportato è parzialmente tagliato il toponimo “col di Poz…” .

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Immagine 8: Particolare nello sfondo di una foto stattata a Coldipozzo nel 1944, da “Mario Tosti: “Il nostro calvario” - Ed. Petruzzi – Città di Castello, 2005, p. 260.

I simboli della coltura promiscua della vite “abbracciavano” completamente la città, come tutte pianure dell’Umbria. Ancora negli anni ’60 nella zona a nord di Umbertide, sotto l’attuale cimitero della città, si poteva benissimo vedere una distesa di aceri campestri, disposti ad “alberata” , caratterizzanti il paesaggio. 

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Immagine 9: Foto dall’archivio Guardabassi. Marzo 1960.

Anche se non si riesce a vedere, a causa della qualità della foto, la presenza della vite collegate agli aceri campestre, questa si constata sempre dalle “tavolette” dell’IGM riportate sotto, sempre rilievo 1941, che indicano tutta la zona sottostante il cimitero (“Petrella sopra", “Petrella sotto", “Lame”, “Fornace", “Molinello" e “C. S. Croce”) coltivata a “coltura promiscua” della vite.

Infine anche ammettendo la possibilità che in quel momento, 20 anni dopo la rilevazione dell'IGM, la coltivazione della vite non fosse più portata avanti, gli aceri campestri, disposti a fila, continuavano a caratterizzare completamente il paesaggio agrario.

 

Nel 1964 venne sancita la fine “economica” della mezzadria (qua si può approfondire), rapidamente scomparve l’alberata anche nella zona umbertidese, sempre più relegata a zone marginali, collinari ed in pendenza. 

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Immagine 10: Stralcio di “Tavolette” 1:25.000 unite per presentare la città che era “tagliata” in due. 1)”Niccone”, Foglio 122 I, N.E. 2) “Umbertide": Foglio 122 I, N.E. della Carta d’Italia (rilievo del 1941). La sovrapposizione è stata scartata preferendo lasciare tutte due le rappresentazione nell’area di margine delle due “tavolette”.

Ricercare le notizie sulla “vite maritata” in età moderna e contemporanea.

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Succesivamente alla diffusione della coltura della vite maritata a supporti vivi nelle culture preromane, durante il periodo romano si aggiunse una specializzazione della coltura della vite maggiore, in accordo con l’uso di massa dell’utilizzo della bevanda. Nel periodo successivo al crollo dell’Impero Romano d’Occidente sicuramente la coltura della vite arretrò in quantità di terreno coltivato ma restò ben presente, perché cardine del rituale religioso cristiano. Nei secoli successivi alla peste trecentesca, con l’aumento della popolazione e la ripresa dei commerci, iniziò una lenta ripresa della produzione della vite che, soprattutto per la coltura promiscua si “sposò” con la conduzione indiretta della terra, quella che diventò al nostra “mezzadria”.

Sappiamo per il lungo periodo fino all’età moderna della sua esistenza da resti archeologici di tipo arboreo (semi ecc….) e soprattutto dalle fonti letterarie e iconografiche dell’arte italiana che la coltura a “vite maritata” era ricorrente nella nostra penisola. Ad esempio, già in età moderna, la vite è ben visibile nel “Mosè ebbro" di Jacopo Clementi realizzato nei primi del 1600. Qua si può notare la presenza della vite “avvinghiata” al tutore vivo sullo sfondo del tema centrale. Sono numerose le rappresentazione iconografiche che possono servire da fonti storiche, ma se si cercano in maniera più accurate le informazioni, sia per la quantità che per il luogo di uso di questo tipo di coltivazione, sorgono diversi problemi.

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Immagine 11: “Mosè ebbro" di Jacopo Clementi. Immagine da https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Drunkness_of_Noah_by_Jacopo_Chimenti.jpg

Quanto infatti era estesa realmente la coltivazione della vite in forma promiscua nelle nostre zone? 

 

Per quanto riguarda i secoli XVI e XVII le fonti scritte, archivistiche, conosciute per il nostro territorio sembrano veramente inesistenti.

Forse il problema, però, è solo ritornare negli archivi alla ricerca di indicazioni specifiche, o rileggere le fonti a disposizione per il territorio umbertidese alla ricerca di termini relativi alle coltivazioni della vite, facendo attenzione per il XVI e XVII sec., ad esempio, più che a ricercare il termine “vinea”, che indica un vigneto, a quelli di “pergulae” o “pergolato”. Termini questi ultimi che indicano sicuramente l’arativo alternato alla coltura della vite. In effetti leggendo la tesi di Anna Boldrini “L’architettura rurale nell’Alta Valle del Tevere: Umbertide secolo XVI” del 1991, si trova in un inventario del 1572 del “Libro dove sono descritti tutti li beni stabili dell’Abbazia di San Salvatore e delle chiese ad esse vicine” (nota. 13, pag 51) compare il riferimento alla coltura promiscua (“pergolato”) della vite in riferimento a due torre colombaie di forma particolare, rotonde, di cui una in località colle San Savino, caratterizzata come “un pezzo de terra… lavorativo pergolato con arbori da frutta serque e olmi con un palombaro tondo… voc. il campo del palombaro”. Sottolineamo, inoltre, che la “vulgata” sulla tipologia delle torri colombaie in Umbria, relegava le sole torri colombaie forma rotonda alla zona dello spoletino. Questo rafforza la nostra convinzione che gli studi sul nostro territorio in questo vasto ambito del mondo rurale sono insufficienti. 

Sul finire del Settecento i termini da ricercare alla ricerca della “vite maritata” sono differenti. Si possono trovare in quelli che sono i documenti delle “aziende” agricole del tempo, spesso dei possedimenti nobiliari, come i “brogliacci di campagna”. 

Qua è “arativo pergolato”, ad esempio, che indica un terreno con coltura promiscua della vite alternata a seminativi, che va ricercato.

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Esempi di come è possibile reperire simili informazioni su sulla cultura della vite li possiamo ritrovare "guardando" lungo il territorio di uno degli affluenti del Tevere, di sinistra questa volta, proprio sopra Umbertide, ovvero nelle strette valli del bacino imbrifero del Carpina (Carpina e Carpinella). Precisamente nei documenti della Contea dei Della Porta, Contea che si estendeva dai piedi di Montone fin verso Pietralunga. Qua nel “Brogliardo di campagna della Contea delle Carpine”, del 1782, spesso si ritrova, nonostante l’altitudine media crescente ed il terreno “gengato” (“genga” tennero dilavato dal suolo dove emergono le “marne e le arenarie” sottostanti) non sia favorevole all’agricoltura, la dicitura del “arativo pergolato”. Termine che possiamo identificare con la presenza di vite maritata a supporto vivo. Si noti nell’immagine i terreni (n.14 e seguenti) presso i famosi “Tre ponti”, sotto Montone, precisamente in località il Molinaccio e vicine di proprietà del Sig. Natal Migliorati: “arativo pergolato”… “arativo con pergole”, “arato parte pergolato”.

 

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immagine Brogliardo delle carpini 1882 p

Immagine 13: Particolari da “.S.G., Fondo Della Porta, Titolo II, G 27/15. “Il Brogliardo di Campagna della Contea delle Carpine”, 1782, in Tesi di Laurea inedita di F. Deplanu, “Evoluzione di un paesaggio alto collinare dell’Umbria settentrionale: l’importanza dell’azienda Della Porta nel territorio della Contea delle Carpini dal ‘700 ad oggi”, a.a. 2002/2003.

Ad inizio dell’ottocento le fonti cominciano a diventare più strutturate e anche per noi fortunatamente più fruibili. Nel Catasto Gregoriano di Fratta, presente online, questa volta si può ricercare il termine “seminativo vitato”, che si distingue dal “seminativo”, ma anche dal vero e proprio vigneto che, con molta probabilità, viene indicato con “vigna” o “vigna cespugliosa”… con l’aggiunta spesso di una caratteristica della varietà coltivata: “dolce”. Il Catasto, realizzato tra il 1815 e 1835, era dotato di un “Brogliardo” con indicazioni del proprietario, del luogo, della caratteristica principale e dell’estensione e valore del fondo o proprietà.

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Immagine 14: “Brogliardo di Fratta” del “Catasto Gregoriano”: Fratta, 1915-35. Progetto Imago: 

http://www.cflr.beniculturali.it/Gregoriano/mappe.php?fbclid=IwAR3SPsbhE0yDSOzPk5MrT3LVf77oKvYwwqFhUhZzDbdA4DHi4DWrz-9JHdA

Qua, ad esempio, nelle particelle n. 700 e 701, 704, 705, 706, 708, 709, quasi tutte di proprietà di Bruni Domenico a “Pian di Bottine”, abbiamo le notizie e, grazie alla mappa del Catasto, la rappresentazione "geometrico-particellare" delle reali coltivazioni. Le particelle più ampie erano coltivate a “coltura promiscua”, ovvero a “seminativo vitato” e quelle più vicine alla riva del Tevere, più produttive ma piccole e strette, coltivate in maniera più specializzata a “vigna cespugliosa dolce”.

 

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Immagine 15: estratto dal “Catasto Gregoriano”: Fratta, 1915-35. progetto Imago:

 http://www.cflr.beniculturali.it/Gregoriano/mappe.php?fbclid=IwAR3SPsbhE0yDSOzPk5MrT3LVf77oKvYwwqFhUhZzDbdA4DHi4DWrz-9JHdA

Di certo la coltivazione “vite maritata “nel resto della nostra Umbria era già notevole. In diversi e puntuali studi del mondo agricolo nelle vicine Marche ricorre spesso un termine per indicare un'“alberata” con gli alberi disposti a scacchiera nel campo tra le zone arative, ovvero “alberata folignata” ad attestare l’esistenza tipica di questa tipologia di uso del terreno agricolo nel sud dell’Umbria. 

 

Ci auguriamo che questo iniziale tentativo di ricostruzione che abbiamo presentato,  possa essere utile per porre l’attenzione sulla necessità di ricerche più approfondite per tutti gli aspetti di archeologia arborea o storia delle strutture produttive del nostro territorio. Aspetti che hanno caratterizzato in profondità modi di vita ed ancora il paesaggio che ci circonda. Per questo motivo aggiungiamo qua sotto, dopo le "Fonti", un “approfondimento scelto” dal testo di Ottavi Ottavio, “VITICOLTURA TEORICO-PRATICA”,  CASALE, TIPOGRAFIA DI CARLO CASSONE, 1885 (pp. 750-760) sulla specifica coltivazione promiscua della vite con quel “palo vivente” che era l’acero campestre, tipica anche della zona umbertidese.

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Fonti: 

 

Testi: 

 

- Carlo Vernelli, "La coltivazione della vite in un’area mezzadrile", in Rivista “Proposte e ricerche”, nr. 60, 2008, pp. 153-174.

 

- Tesi di Laurea inedita “Evoluzione di un paesaggio alto collinare dell’Umbria settentrionale: l’importanza dell’azienda Della Porta nel territorio della Contea delle Carpini dal ‘700 ad oggi”,  di Francesco Deplanu, Anno Accademico 2002/2003, Università degli Studi di Perugia. 

 

- Tesi di Laurea inedita "L'architettura rurale nell'alta Valle del Tevere: Umbertide nel secolo XVI” di Anna Maria Boldrini, Anno Accademico 1990-91, Università degli Studi di Perugia. 

 

- Ottavi Ottavio, “VITICOLTURA TEORICO-PRATICA”,  CASALE, TIPOGRAFIA DI CARLO CASSONE, 1885.

 

 

 

Catasti e Brogliardi: 

 

- Catasto Gregoriano: “Fratta”, in “Perugia” visibile online: http://www.cflr.beniculturali.it/Gregoriano/mappe.php?fbclid=IwAR3SPsbhE0yDSOzPk5MrT3LVf77oKvYwwqFhUhZzDbdA4DHi4DWrz-9JHdA

 

- “Fratta”, in “Perugia” visibile online: http://www.cflr.beniculturali.it/Gregoriano/mappe.php?fbclid=IwAR3SPsbhE0yDSOzPk5MrT3LVf77oKvYwwqFhUhZzDbdA4DHi4DWrz-9JHdA

 

 

-“Il Brogliardo di Campagna della Contea delle Carpine”, 1782, A. S.G., Fondo Della Porta, Titolo II, G 27/15.

 

 

 

Risorse Web:

 

- Maria Antonietta Aceto, “La rappresentazione della vite maritata. Alcune recenti identificazione”, in “Rivista Terra di Lavoro”, anno XI, n°1, aprile 2016 (visibile anche in: https://www.ascaserta.beniculturali.it/rivista-di-terra-di-lavoro/numeri-pubblicati/anno-xi/anno-xi-n1-aprile-2016)

 

- https://www.beni-culturali.eu/opere_d_arte/scheda/-ebbrezza-di-noe-chimenti-jacopo-detto-empoli-1551-1640-09-00021770/400252

 

- http://www.biologiavegetale.unina.it/delpinoa_files/48_71-92.pdf

 

- http://www.biologiavegetale.unina.it/delpinoa_files/44_53-63.pdf

 

- https://www.guadoalmelo.it/il-vino-e-gli-etruschi-ii-la-vite-maritata-tremila-e-piu-anni-di-viticoltura-ed-arte/

 

- http://www.rmoa.unina.it/2697/1/Gambari.pdf

 

- https://ilvinoracconta.net/2017/01/08/la-vitivinicoltura-umbra-una-storia-appena-iniziata/

 

 

 

Immagini: - Particolari di immagini prese da Mario Tosti: “Il nostro calvario” - Ed. Petruzzi – Città di Castello, 2005 (pp. 213 e 260).

 

- “Tavoletta” 1:25.000 IGM, rilievo 1941, “Niccone”, Foglio 122 I, N.E. della Carta d’Italia

 

- “Tavoletta” 1:25.000, IGM, rilievo 1941, “Umbertide": Foglio 122 I, N.E. della Carta d’Italia

 

 

- Immagini foto storica panorama di Umbertide da ex convento:  Archivio Storico Fotografico del Comune di Umbertide

 

- Immagine “Mosè ebbro”:  https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Drunkness_of_Noah_by_Jacopo_Chimenti.jpg

 

 

 

- Video, foto non indicate diversamente e montaggio: Francesco Deplanu. 

 

 

 

Approfondimenti consigliati di pagine museali del mondo “rurale” in Umbria:

 

- https://archeologiaarborea.com/

 

- https://www.muvit.it/viticoltura/

 

APPROFONDIMENTO

 

Approfondimento ripreso da Ottavi Ottavio, “VITICOLTURA TEORICO-PRATICA”,  CASALE, TIPOGRAFIA DI CARLO CASSONE, 1885 (pp. 750-760).

 

[…] “LE VITI MARITATE AD ALBERI ED I PERGOLATI 

 

Esistono adunque molti inflessibili sostenitori della specializzazione, i quali ad ogni costo vorrebbero separata la vite da ogni coltura: esistono al contrario altri, che il Marconi (2) chiama opportunisti, i quali 

combattono a tutt' oltranza affinchè l’unione o la consociazione sia mantenuta ed estesa. Fra questi noi, pur avvertendo però che le nostre simpatie sono per gli specializzatori, vogliamo esser conciliativi. A questo scopo, a differenza d'altri autori di viticoltura, dedichiamo un capitolo alla coltura della vite maritata ad alberi. 

Ne condanniamo come essi il principio; ammettiamo però che in certe piane essa possa tollerarsi, che in taluni casi non si possa difendere diversamente la vite dai geli, e che qualche vitigno vi sia che mal sopporta la potatura dei sistemi a viti basse, come già avvertimmo a pag. 616; ammettiamo infine che molti per ora non possano o non vogliano trasformare. Ecco ragioni bastanti perchè ci abbiamo ad occupare di questo tema, e studiare i modi di rendere meno intermittente, più abbondante e più scelto il prodotto delle viti maritate ad alberi. 

 

 

CAPITOLO XXIV 

 

Le viti maritate ad alberi ed i pergolati, 

 

§ 1 . Scelta dell' albero. — Gli alberi che s' adoprano come sostegno vivo delle viti sono aceri, noci, ciliegi, frassini, gelsi, pioppi, ulivi ed altri molti, fruttiferi o no. Tra questi i meno convenienti sono: il noce, perchè fa troppa ombra, ed infatti nel Veneto lo si va man mano abbandonando, mentre prima vi era comunissimo; l'olmo il quale in terre compatte, argillose si sostituisce al pioppo: ma esso ha un sistema radicale troppo sviluppato; il frassino e il rovere per la medesima ragione. L'ulivo ha una ramificazione ampia, foglie numerose e persistenti, e richiede poi cure e nutrimento, per cui mentre sarebbe di danno alla vite ne soffrirebbe non poco dal canto suo. In terreni paludosi alcuni maritano la vite al pioppo, al salice, le 

quali piante possono sopportare il terreno umido; non lo può per altro la vite, la quale ben presto vi intristisce. Gli alberi da frutta non ci paiono convenienti, quantunque consigliati dal sommo Ridolfi 

nelle sue Lezioni orali, perchè « produrranno poco, diceva egli, ma pur sarà qualche cosa, mentre i sostegni infecondi non fanno che estenuare la terra inutilmente. » Senonchè, salvo il rispetto al grande maestro, noi osserviamo che i nostri comuni alberi da frutta, peri, meli, susini, mandorli estenuano troppo il terreno, ed essendo troppo fronzuti avrebbero bisogno di forti e pericolose potature. 

 

pp. 750-752 […]

 

Ci paiono adunque piuttosto consigliabili quegli alberi il cui sistema radicale è pochissimo esteso e che poco possono sfruttare il terreno. In questa condizione trovansi il ciliegio selvatico e  l’acero che fu 

chiamato dal Gasparin un palo vivente. L'acero campestre (acer campestre) è molto meno sviluppato ne l’ altezza che non gli altri (acer pseudoplatanus e acer platanoides), ha lento accrescimento, si accontenta di terreni aridi e vien su anche dalla semente. Ad eccezione dei terreni tufacei esso prospera ovunque. Le pianticelle sono atte a porsi a dimora dopo 4 o 5 anni. L'acero ha radici brevi e poco profonde e facilmente si presta ad essere potato in diverse foggie. 

 

L'acero campestre riceve diversi nomi, secondo le provincie in cui viene coltivato come sostegno vivo delle viti: loppo, chioppo, fìstucchio, testucchio, stucchio e anche pioppo. Il pioppo dei contadini toscani non è dunque il Populus comune, anzi è noto che in varie parti della Toscana i contadini sogliono dare il nome di pioppo o chioppo a qualunque sostegno vivo delle viti. 

 

 

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pp. 755 […]

 

§ 4. Cure nei primi anni. — Si rimpiazzano gli alberi e le viti che la siccità avesse già fatto soccombere, si mettono alcuni pali o frasche attorno alle viti stesse acciò i nuovi tralci vi si possano arrampicare. Se il piantamento fu fatto con barbatelle esse, appena piantate, si tagliano a 2 gemme sopra terra per avere bei 

getti, e si deve subito cominciare a zappar loro intorno la terra almeno 2 volte durante la state. Si nettano gli alberi dai polloni che spuntano sul tronco. Ciò sin dal 1° anno. Al terzo si potano le viti a due gemme e si vanga e zappa l'interfilare facendo così la guerra alle malerbe. Questo interfilare, che nel Veneto vien chiamato bina, vuol essere assolutamente sgombro per non portar sino dai primi anni un grave colpo alla vitalità della vite. Lasciando sgombri quei due o tre metri che formano l' interfilare si possono avere al 

quarto anno le viti già così robuste da poterle propagginare e potarle con una gemma almeno fuori terra, alla distanza di mezzo metro dall'albero. 

 

E cosi al quinto si può giungere a possedere tralci d'una discreta lunghezza i quali vengono assicurati al tronco dell 1 albero (figura 280). 

 

Anche l'albero frattanto ha bisogno di cure, come sarebbero la potatura, la mondatura dei ramettini esili, accorciando anche i ghiottoni, si deve cercare infine di dare all'insieme dei rami la forma d'un vaso regolare. La forma di vaso o di bicchiere, o di paniere come dicesi in Toscana, molto aperto nel mezzo, si raggiunge verso il sesto o settimo anno. Gli alberi vanno ripuliti annualmente dai piccoli getti inutili, e siccome questa ripulitura rigorosa fa acquistare alle branche una forma bitorzoluta si rimedia a ciò « lasciando all'apice d'ogni branca un paio di germogli, i quali attirando verso loro l'attività della vita della pianta, evitano in certo modo l'uscita di un maggior numero di gemme sulle branche, e mantengono in più miti proporzioni quelle forme bitorzolute sulle branche stesse (1). » 

 

Le viti si continuano a potare sempre a due o tre gemme sino a che dimostrino di aver acquistato una certa vigoria, e diano getti della lunghezza almeno d'un metro. Non si abbia troppa premura a tagliar via tutti i polloni laterali che spuntano sulla vite nel corso dell'anno. È necessario che il succo della vite non vada tutto ad allungar l'asta, ma la rinforzi anche per cui questi polloni o si rispettano o spuntano solo a quattro o cinque foglie. 

 

Giunta la vite all'altezza dell'albero la si dispone ed acconcia alle 1' Emilia, 1' Umbria, la Terra di lavoro e le altre che adottano questo  sistema di educar le viti.”

 

Pp. 760 […]

 

§ 7. Economia nei sostegni. — Dobbiamo ora accennare 

ad alcune economie che si potrebbero fare nei varii sistemi di educar la vite alta. E noto che quali sussidiarli agli alberi vivi, molti hanno poi anche pali di salice, d'acacia, e di pioppo ai quali vanno a metter capo e s'appoggiano le trecce o ghirlande dei tralci a frutto. In certi sistemi (Mantovano, Bolognese) la razionale  distribuzione di queste trecce esige cinque, sei spesso più di dieci pali per ogni albero. Ora non si potrebbe sostituire ai costosissimi pali il fìl di ferro? Il sig. TI. liberti nel Giornale d'Agricoltura, Industria e Commercio, si dichiara per esperienza propria e dietro facili calcoli economici, favorevole assai a questa modificazione. La quale oltre all'essere più economica dà luogo ad una distribuzione di tralci perfetta, potendo legare lungo il filo tutti i tralci isolati e non avvolti in trecce come si fa nel caso della tiratura a pali. Si otterrebbe infine una vegetazione più abbondante, perchè più libera, più aerata, più esposta alla luce e al calore. 

 

Un'altra modificazione è proposta dal Prof. Viglietto, il quale a stento ammette la vite maritata ad alberi e anche nelle condizioni in cui è necessario tenere la vite molto alta vorrebbe che il numero di alberi vivi fosse il più piccolo possibile. « Un albero fruttifero rigoglioso — egli dice — ogni 8 o 10 metri, e nell’ intermezzo 

dei pali di basso costo, legati da tre o più fili di ferro in senso longitudinale al filare, possono generalmente sostituire il numero esorbitante di vivi coi quali imboschiamo le nostre vigne. » E conchiude: « Siamo dunque intesi: vigna esclusiva ed allevamento sul secco, od almeno preponderanza di questo mezzo di sostegno. » 

 

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Fonti:

 

Immagini dall’opera originale (p. 755 e 757):

 https://archive.org/details/viticolturateori00unse/page/n3/mode/2up 

 

Testo completo, reperibile online a partire dal seguente indirizzo

https://archive.org/stream/viticolturateori00unse/viticolturateori00unse_djvu.txt

Aggiornamento agosto 2022

La vite maritata a Sagraia: nuove indicazioni di presenza nel tempo

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Come avviene nella ricerca storica, un approfondimento di diverso tipo può mettere in luce indicazioni per  altri argomenti. E' il caso della presenza nel tempo della vite maritata a sostegno vivo nella zona della tomba di Sagraia. Sistemando il materiale edito per l'articolo "Amerigo Contini: l’aviazione nelle guerre mondiali e la scoperta della Tomba di Sagraia", ci si è presentata una fonte iconografica significativa realizzata dallo stesso scopritore della tomba, un anno dopo, ovvero nel 1920, che ci indica la presenza della vite in loco (dove persiste tutt'ora anche se con esemplari abbandonati come si può vedere nel video iniziale): lo schizzo estratto da “Atti delle Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Anno 1922, Serie V, Notizie degli scavi di antichità, Vol XIX, Roma, 1922. ". L'allora aviatore ed architetto (poi generale) Amerigo Contini disegna sopra la tomba una parte di terreno rappresentata con la coltura promiscua della vite, precisamente si vede bene l'inizio di quattro "filari" di vite maritata a supporto vivo.

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Immagine estratta da “Atti delle Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Anno 1922, Serie V, Notizie degli scavi di antichità, Vol XIX, Roma, 1922. Pagina 110-116/532.

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La precisione e la cura di Amerigo Contini, proprietario dei terreni, mette in evidenza la presenza di questo tipo di coltivazione

Fonti: 

  • “Atti delle Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Anno 1922, Serie V, Notizie degli scavi di antichità, Vol XIX, Roma, 1922. Pagina 110-116/532

Aggiornamento presenza vite maritata nel 1920
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