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LA FRATTA DEL QUATTROCENTO

 

 

 

 

a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

Notizie generali, le strade e la Rocca

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Fratta del Quattrocento è per lo Stato della Chiesa, specialmente nell'ultima parte del secolo, un punto di vitale importanza strategica. Posta al confine con i possedimenti fiorentini, funge da baluardo settentrionale per la difesa di Perugia.

La zona urbana è formata da tre nuclei ben definiti. Il primo, costituito dal centro cittadino racchiuso nelle mura castellane e diviso in terzieri: "della Greppa", la parte tra l'attuale via Cibo e il Tevere, dalla Piaggiola fino al ponte verso San Francesco; "Superiore" detto anche "della Campana" (dalla campana posta sulla torre in cima alla Piaggiola), dalle mura a nord, quindi dalla Rocca, verso il centro fino alla chiesa di San Giovanni; il terzo, "Inferiore" o di "Porta Nuova", che dal centro raggiungeva le mura verso sud, lungo il corso della Reggia fino alla porta di uscita del ponte sul Tevere.

Il secondo nucleo, del "Borgo Superiore", posto al di fuori delle mura settentrionali, oltre la porta della campana e la discesa dell'attuale Piaggiola, era divisibile in due parti. Una veniva detta il "Mercatale", l'odierna piazza Marconi, il piazzale del sagrato della chiesa di Sant'Erasmo; la zona poi si spingeva verso la chiesa di Sant'Andrea (dove sorgerà nel 1877 il vecchio ospedale) fino alle fornaci. L’altra parte era il "Castel Nuovo", comprendeva l’attuale Boccaiolo (via Bovicelli) e la zona vicina, ove si trovava anche la chiesa di Santa Maria dei Meriti.

II terzo nucleo, anch'esso fuori delle mura, detto "Borgo Inferiore", era situato a sud di Fratta, oltre la Reggia e prospiciente il Tevere (attuale piazza San Francesco). Cuore di questa zona era il "sodo dei frati" o "pratale", lo spiazzo su cui si affacciavano la chiesa e il convento di San Francesco, la chiesetta di Santa Maria (poi detta Santa Croce), possesso dell'omonima confraternita di Disciplinati. Nel borgo c'erano numerose officine di fabbri ed anche un mulino di proprietà del vescovo di Gubbio.

Fratta godeva di libertà di fiera; erano fiorenti le arti della merceria e spezieria, il commercio del cuoio, del "bambage", del vino, degli artefatti in ferro, della ceramica.

Esisteva un discreto servizio postale che utilizzava cursori, corrieri, fanti di procaccio e "cavallai" di posta i quali potevano effettuare un buon lavoro in quanto il paese non era molto distante dalle grandi vie di comunicazione.

L’istruzione era a cura della comunità di Fratta, ai cui rappresentanti i genitori si rivolgevano per iscrivere i ragazzi, pagando la retta del maestro. La spesa era relativa al numero e al tipo delle materie di insegnamento: latino, aritmetica, religione e geografia. Nel 1486 la magistratura locale fa un invito all'istruzione aperto anche ai non possidenti.

Esistevano sette ospedali, annessi alle chiese, per i poveri, i pellegrini e i malati non abbienti; ben dodici luoghi di culto, fra chiese e cappelle.

A Fratta, nel Quattrocento, viveva una comunità ebraica di una ventina di persone, qui insediata fin dal secolo precedente.

 

Le strade di comunicazione

Nel Quattrocento la nostra Fratta era fuori dai grandi percorsi viari dello Stato Romano che partivano da Roma nei secoli XVI e XVIII, e se erano così allora, all'inizio del Quattrocento non erano certo più numerose e meglio percorribili.

Comunque verso nord partiva una sola strada di grande comunicazione, che dopo il lago di Bracciano (Baccano) si ramificava in due bretelle:

- una proseguiva in direzione di Firenze, via Bolsena, Siena, San Casciano;

- l'altra strada si dirigeva verso Fano, via Terni, Foligno, Nocera, Cagli. Quest'ultima aveva una diramazione da Foligno e da qui iniziava una strada che passava per Perugia, il lago Trasimeno, la Val di Chiana, la valle dell'Arno centrale, fino a raggiungere anch'essa Firenze.

Erano percorse dalla maggior parte della gente allora in movimento: eserciti, cavalcate, grandi carri a quattro ruote dei mercanti, pellegrini, religiosi, cortei di principi, cardinali, governatori che si spostavano da una città all'altra, mendicanti, uomini dei servizi di posta che correvano a piedi o a cavallo di stazione in stazione. Fratta si trovava in posizione isolata e non vedeva molto di questo transito se non saltuariamente e, comunque, in misura molto ridotta.

Il nostro castello aveva bisogno di comunicazione con la città di Perugia e ciò era possibile attraverso la pianura del Tevere. La città dominante svolgeva un'attività di tutela dei mulini sul Tevere (Ponte Felcino, Ponte Pattoli ed altri), per cui questi dovevano essere senz'altro allacciati a Perugia con una strada carrabile.

Considerato questo e anche che Fratta era il castello del confine nord di Perugia, dunque tenuto sempre militarmente approntato, è facile capire che dovesse esserci una via da Fratta a Ponte Pattoli, a Perugia.

Oltre questa strada (che sarà detta poi “del piano”), Fratta era unita a Perugia anche da un percorso montano, non carrabile, per soli pedoni e cavalli in quanto l'asprezza dei luoghi (diverse salite) ne sconsigliavano il passaggio, specie d'inverno, ai carri piccoli. Iniziava oltre il ponte sul Tevere, sulla sinistra (odierna strada per la Badia di Montecorona).

​Dopo circa trecento metri lasciava, sulla destra, la stradetta che saliva a Romeggio (bivio visibile anche oggi) e proseguiva diritta. Passava sotto e nei pressi dell'odierno Palazzo del Sole (abitazione Ramaccioni), poi si inerpicava, come ai giorni nostri, verso la base di Monte Acuto.

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Alla Villa di Monte Acuto svoltava a sinistra, lungo la base del monte, passava a lato della casa-torre di osservazione (ancora esistente - gruppo di casa Ferranti), passava a lato dell'ospedale di Galera (in piedi ma disabitato) ed arrivava al pianoro di Galera (apprezzabile come complesso abbandonato) ed arrivava alla casaforte di confine con Perugia (non utilizzata).

Da qui scendeva alla Nese, passando a lato di quell'ospedale (lebbrosario?) e proseguiva per la Villa di Pantano e Cenerente, da dove iniziava la salita finale per Perugia.

Altra strada era quella di Montone, ma non volendo transitare per quel territorio, si poteva percorrere la via che portava al torrente Niccone, subito dopo il ponte del Tevere. Dal Niccone, passato il fiume sulla barca oltre Montecastelli, ci si ritrovava sulla via tracciata da Città di Castello, in pianura ed abbastanza transitabile. Infine c'era la strada per la Toscana, alla foce del Niccone sul Tevere.

In proporzione al grande traffico nazionale, molto limitato appariva il transito nelle nostre zone ma, considerata l'importanza commerciale di Fratta, c'era comunque sempre un movimento di persone e merci che ne aiutava molto gli abitanti, alla ricerca delle soluzioni dei loro problemi quotidiani.

 

Lavori alla Rocca

La Rocca di Fratta fu voluta nell'anno 1374 e disegnata, molto probabilmente, dall'architetto Matteo Gattapone da Gubbio. Venne posta ad est delle mura castellane, unico tratto sprovvisto di forti, sia per aumentare la difesa del castello dalla parte di Perugia, sia per allungare meglio lo sguardo su tutta la pianura del Tevere verso Montecorona.

La Rocca consisteva, all'inizio, in un semplice parallelepipedo esterno alla cinta che, nella zona sud, aveva un'alta torre sopraelevata di una quarantina di metri dal prato sottostante. Questo volume fu costruito nel primo ciclo dei lavori, dal 1375 al 1384, mentre il completamento, come voleva il disegno originario, avvenne con un ulteriore intervento tra il 1385 e il 1386, quando fu unita alle mura castellane. Così la Rocca si presenta all'inizio del Quattrocento. Ha i lati contrapposti lunghi dodici metri e quelli perpendicolari, sette. Per il passaggio delle persone è collegata al castello di Fratta da una porta (visibile ed agibile anche oggi) munita di ponte levatoio che faceva perno sul forte, cadeva sulle mura castellane sostenuto da una sola trave e passava sopra un tetto realizzato nella seconda fase dei lavori (1385-86). Nel punto di battuta era stato costruito, interno al borgo, un piccolo edificio merlato detto "chiostro" in cui c'era un posto di guardia, essendo questa zona militare sorvegliata per impedire l'accesso anche agli abitanti di Fratta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Rocca aveva poi un'altra entrata fornita di ponte levatoio. Conduceva all'esterno del castello, verso il prato sottostante. Era la "porta del soccorso", elemento comune a tutti i forti e le rocche. Serviva, in tempo di guerra, a far rientrare qualche soldato rimasto fuori o in altri casi straordinari. Questo secondo ponte levatoio era sostenuto da una sola trave il cui vano è ancora esistente e visibile dalla zona sottostante. Poggiava sopra un alto muro di pietra, rimasto fino alla metà dell'Ottocento. Fra il muro e la torre passava il letto naturale del torrente Reggia. Da qui iniziava la strada, in forte discesa, verso il prato sottostante. Il tutto era chiamato "calzo de fuora".

Nel gennaio 1405 fu costruita la grande volta in muratura che univa (e unisce tuttora ) la Rocca alle mura castellane, al posto del tetto sotto il ponte levatoio. Fu pure innalzato il tratto di mura castellane prospiciente alla piazza del Comune (ora piazza Fortebracci), elevato di circa tre metri e munito di feritoie. Fu tolto il ponte levatoio ovest e restò solo quello "del soccorso", in funzione fino alla fine del Settecento. Nel 1495 la Fratta era occupata dai fuorusciti perugini della famiglia Degli Oddi. Erano combattuti dai Baglioni che portarono qui l'assedio fino a che, l' 11 settembre 1495, Fratta si arrese alle forze di Perugia. La città dominante, riavuto il nostro castello, pensò bene di restaurarlo e di aumentarne le difese militari, affinché potesse resistere ad altri eventuali attacchi. Dal 1495 al 1499 vennero eretti i torrioni laterali circolari merlati, uno a nord e uno a sud, e la Rocca assunse l'aspetto attuale.

Per la costruzione dei torrioni si dovette abbattere il "chiostro" ed un tratto di mura (per costruire il torrione nord), mentre sul lato della piazza del Comune venne aperta una nuova porta d'ingresso.

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Foto della Rocca di Fabio Mariotti (quella antica dall'Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)

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Fonti:

- Calendario di Umbertide 2004 – Ed. Comune di Umbertide – 2004

- Renato Codovini: Storia di Umbertide - Il Secolo XV. Dattiloscritto inedito, 1992

- A. Guerrini: Storia della terra di Fratta ora Umbertide dalle sue origini fino all'anno 1845 -

Tipografia Tiberina, Umbertide, 1883

- M.G. Moretti: Salute e spezierie alla Fratta (Sec. XV - XX): Breve introduzione alla mostra,

Umbertide, Biblioteca Comunale, 27 settembre - 12 ottobre 2002. Dream Service, Umbertide, 2002

- P. Vispi: Il soggiorno e l'opera di Pico della Mirandola ad Umbertide - Ed. Comune di Umbertide, 1996

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L'economia e la libertà di fiera

 

​L’economia del territorio di Fratta nel XV secolo è basata su una modesta attività agricola e su una fiorente attività artigianale. Già nei primi del Quattrocento assistiamo a timidi insediamenti stabili in campagna di lavoratori agricoli che si recano a lavorare terre alquanto distanti dal borgo. Terre via via "rancate", cioè messe a coltura. Ma i tempi sono ancora insicuri, la pericolosità direttamente proporzionale alla distanza dalle mura del castello. II passaggio di eserciti che razziavano il bestiame e le colture, insieme a bande di malviventi rendevamo molto rischiosa la coltivazione della campagna. I lavoratori agricoli, quindi, non potevano produrre grosse quantità dei vari generi. Solamente due secoli dopo, in pieno Seicento, la coltura del grano aveva ancora una rendita di tre o quattro parti contro una di seme seminato.

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L’attività artigianale nel castello di Fratta era, invece, più progredita e produttiva, regolata anche negli statuti del 1362. Era un'economia prevalentemente corporativa, a compartimenti stagni, con ogni Arte strettamente osservante di quelle regole che si era data con il proprio ordinamento, comprensivo anche delle pene per i trasgressori. Ma era l'aspetto religioso il collante che univa i componenti.

La produttività degli artigiani era soltanto sufficiente ai loro immediati bisogni, ma a volte poteva superare il limite dello stretto necessario e dar loro qualche soddisfazione in più.

Notevoli risultati davano le fornaci di laterizio che producevano materiali da costruzione. Altre piccole attività, con laboratorio e bottega annessi, sfornavano vasellame di terracotta d'ogni genere, necessario alla vita quotidiana della famiglia del borgo e di quella contadina.

Vari molini da cereali e da olio, avvalendosi della forza motrice dell'acqua dei fiumi e dei torrenti, occupavano un discreto numero di persone. C'era poi la lavorazione dei panni di lana, per mezzo della gualchiera e la rifinitura di prodotti in metallo che per l'affilatura usava ruote in pietra, anch'esse mosse dall'acqua. Tutti questi meccanismi si trovavano all'interno dei maggiori mulini ed utilizzavano la stessa acqua che muoveva le grandi macine dei cereali.

 

La gualchiera. L’arte dei panni di lana

Anche in Fratta si esercitava l'arte della lana, seppur per un

prodotto minore che doveva soddisfare soltanto i bisogni

del luogo. Il panno lavorato serviva per cucire i vestiti di

uso comune, indossati dalla maggior parte degli abitanti,

quasi tutti poveri.

La lavorazione era possibile in quanto nei maggiori mulini

c'era sempre la "gualchiera", meccanismo fornito di grosse

"martelle" di legno che, mosse dall'acqua della diga,

battevano la lana opportunamente trattata (acqua bollente

e un qualche collante). Probabilmente, si trattava di

una postazione per ogni mulino, locata a terzi per più anni.

In un atto notarile del 12 novembre 1464 si parla del

“Mulino dei Calvi” con la gualchiera ad esso annessa che

serviva a "gualcare i panni di lana": si trovava in aderenza

a questo molino, era affittata tre anni. La notizia dell'esistenza,

vicino a Fratta, di tale gualchiera, e fuso per cui serviva, sono

le notizie più antiche sull'argomento.

 

L’insieme delle altre Arti fabbricava gli oggetti necessari alla vita della collettività; erano fabbri, falegnami, magnani, pittori, sarti, panacuocoli (fornai), indoratori.

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Tutte persone che oggi chiameremmo operatori economici ed avevano molto spesso un grande limite nella difficoltà di reperire i capitali necessari. Non essendoci ancora istituti di credito come intendiamo oggi, dovevano far ricorso, in caso di necessità, al prestito dei "banchi" degli ebrei. A Fratta ce n'erano una ventina ed alcuni di questi esercitavano appunto l'attività di banchieri. Sebbene avversati dalla popolazione e dalla legislazione della città di Perugia valida anche in Fratta, riuscivano sempre a svolgere il loro lavoro in senso positivo e la stessa comunità perugina faceva ricorso alla "prestanza" ebrea in caso di bisogno. Obbligati a portare un disco giallo sui vestiti, esclusi dai pubblici uffici, era negata agli ebrei anche la possibilità di acquistare beni immobili, di fabbricare carte da gioco e dadi. Non restava loro che dedicarsi ai prestiti su interesse e lo studio della medicina.

 

Il commercio del cuoio

Era molto praticato nella nostra Fratta, come nell'alta valle del Tevere e nel Perugino.

II grande commercio del cuoio aveva la sede principale, per il centro Italia, nelle città di Pisa e di Ancona. Pisa lo importava dalla Spagna (da Cordova, pelli cordovane), dalla Francia meridionale e dal Maghreb (Tunisia, Algeria e Marocco). Ancona lo importava invece dalla cosiddetta Morea (Medio Oriente), dalle isole dell'Egeo e dai Paesi rivieraschi del Mar Nero.

Da queste due città poi, a mezzo di grandi carri a quattro ruote, il cuoio arrivava a Perugia (via lago Trasimeno e via Fabriano). Qui si riforniva Fratta in limitate quantità, incrementate dalla stessa merce proveniente da Città di Castello, i cui mercanti erano direttamente collegati con le "strade del cuoio" marchigiane.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il commercio del "bambage"

Anche il bambage (o bambagio) arrivava dai Paesi del medio oriente (Turchia, Cipro, Siria, Egitto), con le navi fino ad Ancona; poi i mercanti lo introducevano nel territorio perugino. Con il bambage, sottoprodotto del cotone, si fabbricavano veli da donna per la testa, per il collo e per le spalle.

Coloro che trattavano tale prodotto erano detti "bambagiari" e facevano parte dell'Arte omonima. Avevano botteghe per commerciare sia il bambage puro che i suoi derivati, quali ad esempio le passamanerie, vendute dai merciai.

 

 

L’Arte della merceria

All'Arte della merceria erano iscritti coloro che commerciavano in generi relativi soprattutto all'abbigliamento: filati per cucire (vengono nominati "refe"), gomitoli e matasse, fazzoletti (per la testa, il collo, le spalle), veletti (per cappelli), "camicie", calze di lana, cappelli, nastri d'ogni tipo, spille, orecchini, aghi (fatti a mano) e quant'altro relativo al vestire. Non troviamo fazzoletti per il naso (ancora da inventare), maglie (si confezionavano in casa, sul telaio domestico), giacche, pastrani e mantelli (li cuciva il sarto).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Non esistevano però botteghe specializzate in un unico tipo di merce. Era facile quindi trovare, in quella del merciaio, stoffe, paludamenti (per l'addobbo di chiese, tendaggi per la casa), ma anche cera, candele, "facole", radici saponarie.

 

L’Arte della "spetiaria"

Chi esercitava l'Arte della spetiaria aveva una bottega, chiamata anche aromataria, dove vendeva i generi che anche oggi chiamiamo spezie, ma con una gamma più vasta, essendo maggiore l'uso di tali generi. Molti servivano per la farmacopea. In queste botteghe, comunque, molti prodotti esulavano dal campo speziario, comprendendo i generi più disparati, anticipando i bazar ed i moderni supermercati.

 

I calzolai

C'erano, nel Quattrocento, in Fratta, diversi calzolai (calceolarius) iscritti alla relativa Arte e semplici ciabattini. L’attività dei calzolai consisteva nel costruire e vendere le scarpe, per cui avevano bisogno di comprare cuoio, pellami ed attrezzi d'uso.

Il ciabattino (sutor), più semplicemente, si adattava ad accomodare le calzature, senza entrare nel commercio delle stesse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell'archivio storico comunale esiste un contratto del 4 settembre 1448 con il quale il padre affida il figlio di minore età ad un calzolaio per imparare il mestiere. Il ragazzo doveva andare a vivere in casa del calzolaio il quale, a sua volta, si impegnava a formarlo e a dargli vitto e alloggio. Il ragazzo è Mariotto, figlio di Domenico di Ercolano da Pietramelina; il calzolaio è Nardo di Francesco, di Fratta.

Domenico di Ercolano si impegna a far restare Mariotto per un anno presso Nardo di Francesco e di non mandarlo da altri calzolai. Garantisce che Mariotto sarà sempre sottomesso e obbediente come deve comportarsi ogni buon discepolo.

Nardo, di sua parte, si obbliga ad istruirlo nell'arte della calzoleria, a dargli un salario di tre fiorini e mezzo per tutto l'anno, oltre il vitto e l'alloggio.

 

Le monete

Nel Quattrocento, nell'Italia centrale si usavano, per i grandi importi, monete d'oro, fiorini e ducati, insieme ai loro sottomultipli e alle tante monete dei vari Stati esistenti.

Il fiorino veniva rapportato ai bolognini (moneta bolognese di piccolo taglio). Se era integro (cioè di giusto peso, non limato per appropriarsi di una parte del suo oro come spesso accadeva), valeva quaranta bolognini. Se invece aveva un peso inferiore a quello di conio, veniva considerato in proporzione a quanto mancava. Il fiorino era anche quotato in "soldi": cento se integro.

Il fiorino fiorentino veniva a volte ragguagliato alla lira perugina. Verso la metà del secolo c'è parità tra le due monete. Troviamo infatti, nel 1464, una somma di undicimila fiorini che, qualche riga sotto dello stesso documento, diventano undicimila lire.

​Il "soldo" (sottomultiplo del fiorino) viene rapportato talora al "denaro" (moneta perugina sottomultipla della lira).

​Abbiamo infine un'altra misura monetaria, la "libra". Ce ne volevano cinque per un fiorino.

A Fratta si adoperavano indistintamente sia i fiorini, sia i ducati (ma anche altre monete). In un atto notarile, "la pena" da darsi a chi non sta ai patti viene stabilita in "100 ducati d'oro", nonostante in Fratta prevalesse l'uso dei conteggi in fiorini. Nel 1471 troviamo il "carlino", di basso valore, di origine napoletana. Valeva dodici baiocchi. Sempre in quest'anno esiste anche il "ducato d'oro largo": ha il valore di un fiorino e 75 baiocchi circa. . . .

 

Libertà di fiera

Mercati settimanali e fiere si svolgevano a Fratta fin dal XIV secolo, regolamentati dagli Statuti del 1362. Nel 1400 sembra esserci solo la fiera di Sant'Erasmo, che si svolgeva il 2 giugno, giorno della festa del santo, davanti all'antica e omonima pieve, nell'odierna piazza Marconi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come negli altri castelli e ville del territorio, era soggetta ad una tassazione imposta da Perugia (città dominante), che poi la comunità di Fratta riversava sui commercianti intervenuti, recuperando così la somma versata.

La tassa della fiera comportava per i mercanti un certo onere, imponeva loro di fare una scelta sul venire o meno a Fratta, a seconda del vantaggio. In pratica, condizionava l'affluenza della gente a queste manifestazioni.

In considerazione di ciò, la comunità di Fratta cercò di liberare la fiera dalla "gabella", allo scopo di aumentare il concorso di venditori, quindi avere la maggior quantità e varietà di merci, prezzi più bassi (legge della concorrenza), in definitiva un vantaggio per la popolazione, oltre maggior guadagno per osti, marescalchi, "carradori", botteghe in genere.

Il risultato venne raggiunto a partire dal 1441, quando ne fece richiesta a Perugia. L’approvazione arrivò dal cardinale Firmano (Domenico da Fermo), delegato apostolico per l'Umbria e la relativa concessione, detta "privilegio", riguardava la fiera annuale del 2 giugno, probabilmente l'unica del secolo.

Fratta non doveva più pagare la tassa come le altre comunità dello Stato Romano e di riflesso non chiese più nulla ai commercianti. La concessione venne rilasciata per due giorni consecutivi, tanto durava la fiera di Sant'Erasmo dal 1441.

Nel 1444, il 31 ottobre, lo stesso cardinale Domenico da Fermo ribadisce la concessione (che doveva essere rinnovata annualmente) e permette di allungare la fiera a quattro giorni consecutivi: dal primo (vigilia della festa del Santo) al 4 giugno, decisione che il Comune accettò di buon grado.

Il 30 ottobre 1445, papa Eugenio IV conferma il "privilegio" specificando che 1'esenzione è "tam entrando quam in exeundo", sia all'entrata in Fratta, sia all'uscita a fine manifestazione e riguarda tutte le persone che intervengono con le bestie e con le merci ("cum eorum animalibus et mercantiis").

Il provvedimento rimane esteso anche agli abitanti di Fratta che prendessero parte a questa fiera che in quei quattro giorni “solemniter celebratur”.

Fratta fu informata del provvedimento del Papa dal cardinale legato di Perugia, Domenico da Fermo.

Nel XVI secolo, invece, la durata dell'evento fu portata ad otto ed anche dieci giorni.

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Foto di Fabio Mariotti (quella del calzolaio dall'Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)

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Fonti:

- Calendario di Umbertide 2004 – Ed. Comune di Umbertide – 2004

- Renato Codovini: Storia di Umbertide - Il Secolo XV. Dattiloscritto inedito, 1992

- A. Guerrini: Storia della terra di Fratta ora Umbertide dalle sue origini fino all'anno 1845 -

Tipografia Tiberina, Umbertide, 1883

- M.G. Moretti: Salute e spezierie alla Fratta (Sec. XV - XX): Breve introduzione alla mostra,

Umbertide, Biblioteca Comunale, 27 settembre - 12 ottobre 2002. Dream Service, Umbertide, 2002

- P. Vispi: Il soggiorno e l'opera di Pico della Mirandola ad Umbertide - Ed. Comune di Umbertide, 1996

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La comunità ebraica

 

Il progressivo formarsi di una piccola comunità ebraica alla Fratta probabilmente risale verso la fine del XII secolo, allorché una forte corrente migratoria di mercanti israeliti da Roma tende a diffondersi dapprima nelle città umbre, per poi espandersi verso tutto il nord Italia.

C'erano grossi insediamenti e una consolidata tradizione ebraica a Perugia, Città di Castello e Gubbio. A Perugia, nel rione di Porta Sant'Angelo al quale si era aggregata la comunità ebraica di Fratta, c'era una delle due sinagoghe della città e si contavano il maggior numero di abitazioni israelite. 

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Il periodo però non è tranquillo per il mondo israelitico italiano.

Agli inizi del 1485, infatti, giunge anche in Umbria Bernardino da Feltre, che aveva imperversato nel nord Italia per ottenere la soppressione dei banchi ebrei a favore dei nascenti Monti di Pietà. Egli predica, fortemente spalleggiato dall'Ordine dei Minori, una violenta crociata antisraelitica che ottiene buoni successi. Da quel periodo comincia ad assottigliarsi a Gubbio la presenza degli ebrei. Anche Perugia e Fratta non furono immuni da forme di intolleranza, che però non raggiunsero gli eccessi registrati altrove. La comunità ebraica frattigiana, per quanto piccola (una ventina di persone), doveva avere una certa importanza economica. Già nel 1398, infatti, un certo Beniamino di Aleuccio della Fratta esercitava l’attività di banchiere a Mantova.

Vi sono presenze documentate di ebrei umbertidesi dopo la metà del 1400. Abitava a Fratta, ad esempio, un ragguardevole banchiere, Dattilo di Salomone: di lui esistono testimonianze di una cospicua attività e sappiamo che in giudizio veniva rappresentato dal fratello Manuele. Il suo nome e quello della sua famiglia ricorrono più volte nella storia perugina come il gruppo finanziario di maggiore importanza. Probabilmente parenti con il finanziere Dattilo, e anche loro abitanti in Fratta, erano Salomone, Elia e Davide "Dactoli". Quest'ultimo firma, anche a nome dei fratelli, una petizione alla magistratura perugina nel 1483.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Altra attività, oltre quella bancaria, nella quale molti ebrei godevano di grande considerazione, era l'arte medica. Nella Fratta della seconda metà del Quattrocento vi esercitarono in due. Il primo fu Manuele da Monticolo. Abitava in una casa in affitto nel Terziere Superiore (zona della Rocca) e la sua presenza è documentata dal 1477. Fra il 1484 e il 1486 c'è in Fratta Manuele di Angelo, da Padova. Questi in precedenza aveva esercitato a Montone e qui aveva abitato in una lussuosa dimora, di proprietà dei monaci di Camporeggiano, posta accanto al palazzo del conte Carlo Fortebracci, signore del posto. Di questo secondo medico rimangono testimonianze sia nell'archivio comunale di Umbertide sia in quello di Gubbio.

L’attività di alcuni ebrei a Fratta era quindi a un livello ragguardevole. Ma se coloro che influenzavano la vita sociale cittadina godevano di libertà e considerazione, probabilmente non tutti avevano vita facile. C'era infatti una forte attività denigratoria contro di loro da parte dei frati minori francescani. La legislazione romana, applicata dalla Magistratura di Perugia, aveva imposto loro, già dal secolo precedente, un contrassegno sugli abiti. Consisteva in un tondo di stoffa gialla del diametro di una quindicina di centimetri che dovevano cucire sul davanti per farsi riconoscere e differenziarsi dai cristiani. Le donne, invece, dovevano essere contraddistinte da un certo tipo di veletta in testa e portare orecchini a cerchio.

Tutti sapevano che era bene mostrarsi il meno possibile, ma in occasione di funerali, per arrivare al luogo della sepoltura, dovevano attraversare alcune strade scegliendole tra le meno frequentate e comunque evitando il centro del paese. Ma anche qui trovavano spesso "cristiani" che li aspettavano per dileggiarli e gettar loro addosso pietre. Questa manifestazione, detta "la sassaiola", in uso a Perugia già all'inizio del secolo (a Fratta non esiste certezza in merito), proseguirà per tutto quello successivo.

 

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Fonti:

Calendario di Umbertide 2004 – Ed. Comune di Umbertide – 2004

Renato Codovini: Storia di Umbertide - Il Secolo XV. Dattiloscritto inedito, 1992

A. Guerrini: Storia della terra di Fratta ora Umbertide dalle sue origini fino all'anno 1845 - Tipografia Tiberina, Umbertide, 1883

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Gli ospedali, la peste e le guerre

 

Nel Quattrocento troviamo in Fratta sette ospedali. Appartengono a chiese o confraternite e sono tutti di piccole dimensioni, due o tre ambienti in modeste case, spesso incorporati alle chiese stesse. Di solito vi prestano la loro opera i padri Agostiniani, uno o due frati. Qui vengono ricoverati i malati poveri del paese e i viaggiatori che hanno bisogno di cure durante il passaggio a Fratta.

 

Sant'Antonio

Si trovava in Castel Nuovo, in fondo alla Piaggiola. Ne abbiamo notizia nel 1400 e nel 1404. Nel 1411 si unì all'ospedale di Santa Maria Nuova, sito anch'esso in Castel Nuovo. Aveva alcuni beni, due appezzamenti di terreno lavorativo in Villa Galera (Monte Acuto), ai vocaboli Vignale e Fossato e possedeva anche una terra al vocabolo Seripole, al confine col torrente Reggia.

 

Santa Maria

Situato anch'esso in fondo alla Piaggiola, era legalmente "unito" alla chiesa di "Pieve di Santa Maria di Castel Nuovo", almeno fin dall'anno 1397. Confinava da un lato con "le cose della chiesa" (un orto: ) e dall'altro con il "foveo" della Comunità, il fossato lungo le mura castellane (zona palazzo Baglioni).

 

Santa Maria e Sant'Antonio

Si fondono nel 1411. Nel 1423 decidono di iscrivere le loro proprietà al catasto di Perugia. La registrazione viene fatta da Giovanni Corbelli di Fratta, rettore e governatore degli ospedali, tramite un suo procuratore, Francesco di Simone. Possiedono una casa nel Borgo Superiore di Castel Nuovo e quattro appezzamenti di terreno nel comune di Montone, al vocabolo Buschi.

 

Santa Croce

E' situato nel Borgo Inferiore, nell'odierna via Soli. Risale alla prima metà del Trecento. Appartiene all'omonima confraternita che ha una quarantina di proprietà immobiliari. E' così grande il numero dei beni, che mette in difficoltà anche l'ufficio del catasto di Perugia allorché Bartolomeo di ser Nicola, procuratore della confraternita, si reca a registrarne alcuni. L’ufficiale del catasto si vede costretto a riportare l'elenco in un nuovo libro, appositamente iniziato, in quanto nel foglio riferito alla confraternita non c'era più posto.

 

Fraternita del Corpo di Cristo o del Buon Gesù

Era anche questo nel Borgo Inferiore, aderente al lato sud della chiesa di San Bernardino, non ancora costruita all'inizio del secolo. Ne abbiamo notizia nel 1448 quando, il 15 aprile, i frati di San Francesco cedono una loro casa vicina al chiostro del convento ai Disciplinati della Fraternita di Cristo. Fra le clausole, i compratori sono obbligati a "edificare un ospedale per i poveri di Cristo". Nel 1477 l'ospedale riceve un lascito di 5 fiorini per acquistare dei letti.

 

San Giovanni

Entro le mura castellane, nel Terziere di Porta Nuova, a confine della chiesa di San Giovanni (odierna via Mancini).

Il 4 giugno 1455 il vescovo di Gubbio, Antonio Severi, tratta con la comunità di Fratta la cessione di un rimbocco posto fra la chiesa di San Giovanni e la casa dell'ospedale. Le sei persone nominate dal Comune per trattare la questione cedono tale pezzo di via al Vescovado a patto che serva "per i poveri dell'ospedale" e che nel termine dei sei anni il lavoro di ampliamento sia compiuto. Si trattava quindi di unire, con una nuova costruzione, la casa dell'ospedale alla chiesa di San Giovanni, in modo da ingrandire l'ospedale.

 

Sant'Erasmo

Si trovava nel Borgo Superiore, nella zona centrale detta il "Mercatale", aderente alla chiesa omonima. L’edificio è tuttora visibile nella sua interezza, anche se adibito ad abitazione. Era tenuto dai frati di Sant'Agostino, che facevano da infermieri. Aveva dei terreni in proprietà ed era il più grande ospedale di Fratta.

 

I medici

 

Nel Quattrocento, in Fratta esiste la figura del medico generico, detto "fisico" e quella del chirurgo, il "cerusico". Uno di questi svolgeva la funzione di medico "condotto", assunto dalla comunità che ne stabiliva diritti e doveri in un contratto notarile dal quale risultavano i casi nei quali poteva farsi pagare dai clienti e le visite ai molti poveri che doveva effettuare gratuitamente. Nell'eventualità in cui il medico aveva a che fare con una malattia molto grave o allora sconosciuta, poteva ricorrere alla clausola "pro corpore mortuo": per contratto non si assumeva responsabilità se l'ammalato moriva. In altri casi prospettava alla famiglia del malato (pagante) due somme alternative: se il congiunto guariva, avrebbe avuto la somma maggiore; se invece la cura non aveva effetto e il paziente passava a miglior vita, si sarebbe accontentato della somma minore.

In questo secolo lavorano in Fratta soltanto medici ebrei. Uno di questi, maestro Manuele da Monticolo (Bolzano), operò in Fratta dal 1447. Negli anni 1484 e 1485 opera un altro "fisico" ebreo, Manuele da Pavia. Nel 1485 arriva l'israelita Emanuele di Angelo, da Padova, che abitava a Perugia. Forse ci si chiederà come mai le comunità assumessero medici ebrei. Perchè venivano pagati la metà di un medico cristiano. Il salario infatti era di 25 fiorini l’anno per un ebreo, 50 o 60 per un cristiano. Era la conseguenza dell'ostracismo dello Stato Romano verso gli ebrei e non delle differenti capacità professionali dei medici. Gli ebrei valevano come i cristiani, quando non erano addirittura più abili e più preparati.

 

 

La peste

La peste, presente di continuo a brevi intervalli, era la peggiore malattia che potesse capitare in questo secolo. Abbiamo poche notizie relative al nostro paese, ma siccome il contagio colpiva vaste zone, quando l'epidemia si manifestava a Città di Castello e a Perugia, sicuramente Fratta non ne era immune. Nel 1438, ad esempio, un farmacista di Fratta scrive un elenco di medicamenti da usarsi contro la peste, tra i quali, principalmente, 1'aceto.

Nel 1400 la peste colpisce l'Italia centrale, soprattutto la Toscana. A Perugia e nel contado morirono 35mila (!) persone e migliaia di decessi si contarono anche a Città di Castello. Stando così le cose, pure a Fratta ci saranno stati molti contagi e conseguentemente parecchie vittime.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1411 e nel 1417 la peste imperversa di nuovo. Nell'ultimo anno colpisce particolarmente Anghiari. Nel 1429 tornò a Perugia e in tutto il suo territorio, Fratta compresa. A seguito di questo la Magistratura perugina ordinò per la prima volta di controllare la salubrità delle carni in vendita nelle "beccherie". Nel 1435 scoppiò l'epidemia a Città di Castello, da marzo a novembre, ed alla fine perirono mille tifernati.

Nel 1438 peste a Fratta, dove il nostro bravo farmacista descrive i rimedi che secondo lui avrebbero evitato la malattia. Un'altra ondata di contagio arrivò dieci anni più tardi e nel 1463 il morbo colpì ancora duramente Città di Castello.

L’anno dopo la peste invase tutto il territorio di Perugia e il 14 settembre 1464 a Montone il Consiglio decide di "ricorrere ai santi del Paradiso per esserne liberati". Sei anni dopo, però, il feudo di Braccio Fortebracci sarà di nuovo sotto il contagio.

Dal 1467 al 1476 1a peste torna ad intervalli regolari nell'intero Perugino.

Nel 1478 abbiamo la notizia della peste a Fratta. Città di Castello non ne fu immune e contò cinquecento morti. L’anno successivo, a ottobre, ricominciò la pestilenza. Colpì in particolare Gubbio e Perugia. Durò tre anni e nella sola città di Sant'Ubaldo morirono quattromila persone.

Nel luglio del 1468 scoppiò ancora a Perugia. Qui dimorava Pico della Mirandola che fu costretto ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Fratta dove, in quel il momento, il morbo non si era manifestato.

Questa tremenda epidemia tormentò la nostra zona e l'Italia intera ancora per molti secoli, senza che alcuna cura potesse aiutare le popolazioni.

L’aceto ed altre sostanze di sapore aspro, considerate i rimedi più efficaci (anche in un grande trattato del 1610 presente nella biblioteca Vaticana), con i quali si lavavano gli abiti, i cibi e ci si cospargeva il corpo, servivano solo, purtroppo, a rendere ancor più dura la vita del tempo.

 

Le guerre

 

Ladislao, re di Napoli, sconvolgeva i territori dell'Italia centrale, intenzionato a conquistarne buona parte. II 25 giugno 1408 entra in Perugia. I Fiorentini ed il Papa tentano di contrastarlo con ogni mezzo e i Toscani chiamano Lodovico d'Angiò (incoronato re di Napoli dal Papa) per contrapporlo a Ladislao. Lodovico entrò negli stati della Chiesa con Malatesta da Pesaro, Angiolo della Pergola e Braccio Fortebracci. Quest'ultimo, prima di unirsi al d'Angiò, si era portato a Città di Castello e nei pressi di Fratta aveva sconfitto Giulio Cesare da Capua, capitano del re Ladislao, forte di duemila cavalieri. Nel 1411 Braccio Fortebracci tornò in Umbria, sorprese Montone e Fratta seminando distruzione e spavento, si diresse poi verso Perugia, che conquistò nel 1416, due anni dopo la morte di Ladislao. Scomparso Martino V nel 1431, Niccolò Fortebracci, nipote di Braccio, giunse a Città di Castello e in pochi giorni s'impadronì di gran parte dell'alta valle del Tevere. I perugini tentarono con ogni mezzo di dissuaderlo, ma alla fine tutto risultò vano. Più efficace si rivelò l'annuncio dell'arrivo di un esercito inviato dai Fiorentini ed altri alleati, tra i quali i conti di Montefeltro: oltre quattromila cavalli e molti fanti stavano dirigendosi verso il territorio tifernate, ma Niccolò Fortebracci non ne attese l'arrivo ritirando le forze a Montone, dove provvide a organizzare la difesa. E quando il 18 luglio 1431 seppe che i Fiorentini erano rientrati in Toscana, uscì da Montone, piombò sui castelli vicini conquistandoli. Il 12 agosto giunse alla Fratta Niccolò Piccinino con centocinquanta cavalli, diretto in Romagna; l'anno seguente arriveranno tremila fanti e cavalieri al comando di Francesco Sforza, in lotta con Niccolò Fortebracci, e notevoli danni provocheranno agli abitanti. Successivamente si aggiungeranno i soldati di Francesco Piccinino e dell'arcivescovo di Napoli governatore di Perugia, i quali, in contrasto tra loro, transiteranno per il territorio di Fratta e apporteranno lutti e violenze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fratta vide giungere nel suo territorio, nel 1475, una gran moltitudine di persone per una sommossa scoppiata nel territorio tifernate. Nel 1479 si riaccese violenta la lotta tra Perugia e Fiorentini ed il nostro territorio subì ingenti danni. Molti castelli vennero distrutti, gli abitanti crudelmente uccisi. Capitano dell'esercito fiorentino era Niccolò Vitelli, scomunicato dal Papa.

Dal 1488, alle lotte tra popolani (raspanti) e nobili (beccherini) a Perugia se ne aggiunsero altre, coinvolte le famiglie Baglioni e Degli Oddi, con disastrose conseguenze per tutti. I Degli Oddi furono cacciati, ma tentarono di procurarsi alleati e soldati, specialmente nel Ducato di Urbino, per rientrare in città. La venuta in Italia di Carlo VIII e la politica del Papa offrirono loro l'occasione per tentare di recuperare Perugia. I luoghi di rifugio dei fuorusciti erano tre: il territorio dei duchi di Urbino, parenti di alcuni Papi, di Siena e Fratta, dove volsero inizialmente le armi i Baglioni, informati che in questa zona avevano trovato asilo i Degli Oddi. Era l’anno 1495: all'abbazia di San Salvatore di Monte Acuto (Montecorona) giunsero Guido ed Astorre Baglioni con mille fanti e duecento cavalli; si riorganizzarono in fretta, andando a piazzare le artiglierie nei pressi della chiesetta di San Pietro di Romeggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ai primi colpi, gli uomini del Baglioni si resero conto che i proietti facevano più danno alle case che alle mura di Fratta, essendo queste a terrapieno. D'altra parte numerose erano le sortite degli assediati che quotidianamente riuscivano a ricevere aiuti da Assisi, Urbino, Matelica, Siena, Foligno e da altre terre amiche. I Folignati, intanto, si erano fatti promotori della formazione di un esercito che, verso la fine di agosto, al comando di Niccolò e Sforza Degli Oddi, si stava dirigendo alla Fratta. I Baglioni, conosciuta l'iniziativa, abbandonarono l'assedio di Fratta e ritornarono a Perugia, inseguiti dai nemici fino a Corciano. La battaglia fu combattuta il 4 settembre 1495 con vittoria dei Baglioni. Fratta, una settimana dopo, temendo rappresaglie per aver dato ospitalità ai Degli Oddi, tornò a sottomettersi ai Perugini.

 

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Fonti:

Calendario di Umbertide 2004 – Ed. Comune di Umbertide – 2004

Renato Codovini: Storia di Umbertide - Il Secolo XV. Dattiloscritto inedito, 1992

A. Guerrini: Storia della terra di Fratta ora Umbertide dalle sue origini fino all'anno 1845 - Tipografia Tiberina, Umbertide, 1883

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PICO DELLA MIRANDOLA A FRATTA

Arrivò nell’antico borgo fortificato nell’estate 1486

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

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Giovanni Pico della Mirandola e Fratta: un connubio che dette risultati fecondi. Il grande umanista, originario appunto di Mirandola, in provincia di Modena, celebre per le capacità intellettuali e la prodigiosa memoria, arrivò nell'estate del 1486, spinto da un'epidemia di peste scoppiata a Perugia dove si era rifugiato in seguito alla burrascosa vicenda amorosa con la moglie di Giuliano di Mariotto de' Medici, fiorentino.

II borgo fortificato di Fratta offriva garanzie di un buon isolamento sanitario dal contagio, essendo completamente circondato dalle acque ed avendo soltanto due ingressi (la porta del torrione decagonale all'inizio del ponte sul Tevere e la porta della Campana), dai quali era facile controllare ogni persona che entrasse. A Fratta trovò un ambiente

sereno, tranquillo nonostante gli echi delle lotte politiche tra

Perugia, il Papato, Firenze e Città di Castello.    

Non è fuori luogo pensare che alloggiasse in una qualche casa del

Terziere Superiore, a contatto con la folta e ricca comunità israelitica locale.

Opportunità unica per uno studioso di cultura e di lingua ebraica.

Di pari passo, Pico migliorò le proprie conoscenze anche in aramaico

ed arabo per approfondire quelli che chiamava i tesori delle letterature

orientali: Zoroastro, gli Oracoli dei Maghi, gli scritti di Esra e Melchiar.

Rapporti molto intensi con quel mondo, quantunque anche a Fratta

spirassero i venti della crociata antisemitica promossa dal frate minore

Bernardino da Feltre.

Sono dello stesso periodo "Commento alla canzone d'amore" di Girolamo

Benivieni, "Elogio della pace" e lettere a personaggi di chiara fama: Taddeo

Ugolini, Marsilio Ficino, Domenico Benivieni.

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Alcune lettere scritte da Pico durante la sua permanenza a Fratta si traducono in uno spaccato della vita sociale del tempo.

Intanto, completa l"'Oratio de dignitate hominis", considerata il manifesto del Rinascimento.

Secondo fico, la dignità dell'uomo è nell'assoluta libertà di scelta, nell'essere aperto a qualsiasi possibilità di vita. Nessuno ha una "natura" predeterminata da leggi, stretta entro limiti precisi. Libero "fabbro" di se stesso, a differenza delle altre creature, l'uomo può scegliere tra decadere al rango dei bruti o sollevarsi al divino, attuando in sé, ancora mortale, la congiunzione del finito e dell'infinito.

Concezione "rivoluzionaria", nata all'ombra della Rocca e maturata da fonti eterogenee quali Platone, Aristotele, Ermete Trismegisto, Tommaso d'Aquino, la Cabala.

Poco prima della morte, avvenuta nel 1494 a soli 31 anni, Pico della Mirandola si accostò alla predicazione di Girolamo Savonarola, alla cui difesa si dedicò appassionatamente, scrivendo due opere rivolte alle autorità ecclesiastiche ed una lettera intesa a sollevare l'opinione pubblica. Tutto inutile: il 23 maggio 1498 fra' Savonarola venne condannato ed arso a Firenze, accusato di eresia.

Il soggiorno di Pico a Fratta fu quindi fecondo. E c'è da essere orgogliosi che abbia scritto proprio qui il manifesto del Rinascimento e la più alta celebrazione della centralità e libertà dell'uomo nel suo rapporto con Dio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Testi presi direttamente dal volume di Pietro Vispi

“Il soggiorno e l’opera di G. Pico della Mirandola ad Umbertide”

 

Dalla prefazione (o meglio non prefazione, come la definisce l’autore Gianni Codovini)

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“All’Autore (e non solo)

Innanzitutto un grazie per averci restituito un pagina veramente alta della nostra Fratta, nonché per averci consegnato un rigoroso esempio di ricerca storica e un coerente metodo di lavoro, che sembra derivato non solo dai suoi profondi studi teologici e giuridici, ma anche mutuato da una persona - Renato Codovini - alla quale la città di Umbertide, ed io stesso in primis, dobbiamo gratitudine e stima, tanto per il suo essere l'inarrivabile fonte archivistica locale quanto per il suo meticoloso e discreto modo di orientare giovani studiosi ed esperti ricercatori nello studio storico e documentario. Non credo di allontanarmi dal vero, o perlomeno di non far violenza alla volontà dell'Autore se affermo che, Don Pietro Vispi, con l'abituale sensibilità intellettuale che conosciamo ed apprezziamo, riconosce il debito metodologico nei confronti di Renato Codovini in quella affettuosa e bella dedica in calce al libro che, credo, tutti condividano.

Nel congedarmi dall'Autore e dal Lettore, consegno una mia impressione generale che vado sempre più confermando, che è quella poi di un intellettuale a me caro, Benedetto Croce: «ogni vera storia è storia contemporanea»(1). Condizione prima ed essenziale della storia - scrive Croce - è che il fatto, che si prende a narrare, vibri nell'animo dello storico. Ne consegue che ogni storia «se è davvero storia se cioè ha un senso e non suoni come discorso a vuoto», è contemporanea, sia che prenda in esame eventi remoti sia che consideri fatti vicini o presenti. Tale la morale generale che ho rafforzato leggendo il prezioso libro di Pietro Vispi.”

 

Umbertide, settembre 1995

Umbertide, Tishri 5756.

 

                                                                                                                                                                                            Gianni Codovini

 

Note:

1. Vds. B. Croce, “Teoria e Storia”; Laterza, Bari, 1976, pp. 1-5, ma anche “La storia come pensiero e azione”, Laterza, Bari; 1938, pp. 170-172.

 

Il soggiorno a Perugia ed in Fratta

 

“Il periodo di tempo che riguarda il soggiorno perugino e poi a Fratta è in verità molto breve, ma, se rapportato alla brevissima vita del conte, e soprattutto poi a quanto e come in questo breve lasso egli abbia prodotto, potremmo quasi dire che sia stato uno dei più importanti vissuti da Pico.

Come già detto nelle brevi note biografiche, nella primavera del 1486 Pico è di ritorno da Parigi e, dopo aver sostato qualche tempo a Firenze, volendo, pare, dirigersi alla volta di Roma, allorché fu in Arezzo, il 10 di maggio, si trovò invischiato nella non chiara faccenda del rapimento di Margherita, moglie di Mariotto de' Medici. Come sappiamo, l'intervento del Magnifico mise fuori dai guai Pico, che, o per già deciso programma, o per altra ragione a noi sconosciuta, si ritira a Perugia.

Nasce abbastanza spontanea la domanda: come mai Perugia? Una risposta potrebbe essere data guardando bene gli interessi di Pico contemporanei all'avvenimento.

Giovanni aveva finora studiato con estrema profondità la filosofia specialmente aristotelica e averroistica, ma proprio questo studio “chiariva al Pico l'urgenza di risolvere il problema dei rapporti fra le sempre più ardite sue dottrine e la religione cattolica, quale è insegnata dalla Chiesa di Roma. Sotto l'incalzare di questo problema, anche i suoi studi orientali prendono un indirizzo nuovo. Finora sotto la guida di Elia, aveva soprattutto studiato il pensiero arabo nel suo più grande esponente: Averroè. Ora si volge verso pensatori che abbiano fatto oggetto di riflessione l'esperienza religiosa e, partito da Maimonide, si addentra nel campo del pensiero ebraico finché, affascinato dalle più esuberanti correnti mistiche, nelle immaginose interpretazioni simboliche dei testi scritturali crede di aver trovato una soluzione ai suoi problemi e una via di uscita per le sue difficoltà"(1).

Così egli comincia a studiare la Cabbala(2), utilizzando questa non tanto dal punto di vista dottrinario, quanto invece come metodo esegetico scritturale.

La confidenza con i testi dell'ebraismo era nata già a Padova attraverso l'iniziazione avuta dal del Medigo e continuò poi a Firenze, diventando vera attrazione, in seguito all'amicizia sorta col Mitridate; anzi, abbiamo certa notizia dell'organizzazione, proprio in casa di Pico, di convegni di ebrei per discutere i rapporti di interconnessione filosofica fra ebraismo e cristianesimo. I due maestri però non proponevano a Giovanni la stessa ottica; l'uno, Elia, israelita ortodosso, conosceva la Cabbala ma la rigettava come sapere spurio, l'altro, convertito al cristianesimo, era invece un fervente cabbalista. La differenza tra i due fu la causa di una reciproca inimicizia che durò tutta la vita; Pico comunque non interruppe i rapporti né con l'uno né con l'altro.

Il giovane conte resta dunque affascinato “dalla dottrina misteriosa, che Elia e Mitridate gli espongono; con notevole spesa egli si procura quei libri che legge con indefessa fatica; il risultato di tali letture è che Pico trova addirittura nei documenti della cabbala , oltre a dottrine filosofiche degne di Pitagora e di Platone, la conferma piena dei fondamentali misteri del cristianesimo, tanto osteggiati dagli ebrei intransigenti”(3).

Perugia, per quanto diremo nel capitolo seguente, era il luogo adatto ed ideale per la conoscenza e l'approfondimento dei testi cabalistici, luogo con una forte e colta comunità israelitica, centro di produzione di codici e città qualificata da uno Studio di ormai antico prestigio.

Del soggiorno perugino abbiamo molte testimonianze ricavabili dagli scritti di Pico, di Elia(4), del Ficino, e proprio a Perugia Giovanni fu raggiunto da Elia del Medigo; un ricco e fecondo colloquio intercorse tra i due, ma fu presto interrotto: nel luglio a Perugia scoppia un'epidemia di peste che consiglia l'allontanamento dalla città.

Il rifugio, da Pico, fu trovato in Fratta. Noi non sappiamo i motivi precisi della scelta, ma forse, proprio la presenza nel piccolo centro di una qualificata comunità ebraica, oltre il tranquillo isolamento anche sanitario, che il munito nucleo urbano poteva offrire, non dovrebbero essere stati argomenti ignorati da Pico.

Va poi sottolineato un particolare che, per quanto accidentale, ci ha molto incuriosito: nell' Oratio, allorché Pico afferma che la cabbala stessa diviene strumento di confutazione per gli ebrei... “integralisti”, egli ci dice di aver convinto alla dottrina trinitaria cristiana un coltissimo israelita, esperto di cabbala, di nome Dattilo(5). Sappiamo noi per certo, e lo illustreremo nel capitoletto apposito, che di sicuro uno dei massimi esponenti della comunità ebraica perugina, originario ed abitante di Fratta, era, all'epoca di Pico, proprio un certo Dattilo di Salomone, facoltoso banchiere. È solo sicuramente una pura coincidenza, quella appena descritta, e da questa non vogliamo certamente trarre conclusioni indimostrabili; essa tuttavia è causa di legittime suggestive fantasie.

Due parole vogliamo spenderle a chiusura di questa parte per dimostrare come la Fratta, nella quale Pico si trattiene, sia l'attuale Umbertide.

È vera la constatazione che di “Fracta” o “Fratta” la toponomastica del perugino ne annovera più di una: Fracta Filiorum Azzonis (Collazzone), Fracta Filiorum Fusci (Castiglion Fosco), Fratta di Guido (F. Todina), Fratta Cornia (nei pressi di Lisciano Niccone), ecc., però, nessuna mai viene citata in alcun documento senza la specificazione patronimica. L'unica Fratta, per antonomasia, in quanto anche centro senza dubbio più ragguardevole degli altri, e massima fortezza perugina, è Fracta Filiorum Uberti, che nella seconda metà dell'ottocento muterà il proprio nome in quello di Umbertide. Già dal 1145, in un diploma di Eugenio III, pubblicato negli annali camaldolesi(6) - e sempre in seguito, così come del resto fa lo stesso Pico e come sempre si riscontra nella cartografia ufficiale pontificia - Fracta Filiorum Uberti viene indicata col solo termine di "Fratta" o Fracta" senza il timore di cadere in equivoci di interpretazione o di definizione toponomastica.

Giunge pertanto Pico nella nostra regione, desideroso di studi, di approfondimenti personali, di serenità, in previsione del grande progetto romano. Egli trova una realtà ambientale ed umana che certamente gli aggrada e lo stimola se qui rimane fino all'immediata vigilia della, purtroppo mai sostenuta, disputa.”

                                                                                                                                                                                  Pietro Vispi

Note:

1. E. Garin, Giovanni Pico della Mirandola, Vita e Dottrina, Firenze, 1937, p. 27.

2. La Cabbala, o Cabala, significa “tradizione”, e divenne una delle componenti culturali del Rinascimento. Essa non è di facile definizione, consiste sostanzialmente in una forma di misticismo giudaico tuttora non molto studiato. Tale misticismo ebbe buona diffusione nel Rinascimento, e specialmente nel mondo cristiano fu utilizzato come metodo di esegesi biblica. La chiesa è sempre risultata diffidente nei confronti della cabbala tanto che dalla controriforma in qua essa venne vietata, così come tutti i testi di origine ebraica.

3. G. Di Napoli, op. cit., 55.

4. Cfr. Heliae Hebrei Cretensis, questio de ente et essentia et uno. Venetiis, 1546, fol. 142/r (volume contenente Super octos libros Aristotelis…, di Giovanni di Jandun)

5. Cfr. Oratio…, Trad. di E. Garin, fol. 139/r., Firenze, 1942.

 

 

Foto di Fabio Mariotti

Disegno di Adriano Bottaccioli

 

 

Fonti:

- Calendario di Umbertide 2004 – Ed. Comune di Umbertide – 2004

- Renato Codovini: Storia di Umbertide - Il Secolo XV. Dattiloscritto inedito, 1992

- Pietro Vispi: Il soggiorno e l’opera di G. Pico della Mirandola ad Umbertide – Ed. Comune di Umbertide - 1996

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La Rocca nel 1912 ed oggi. Nella foto più antica si può vedere il torrione laterale ancora coperto e le facciate della case diverse da oggi
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La zona dove si pensa esistesse la gualchiera
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1911. Il calzolaio a Montecorona
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                                   L'Abbazia di Montecorona                                                                                                          La chiesa di Romeggio
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Disegno di A. Bottaccioli (Calendario di Umbertide 2004)
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Disegno di A. Bottaccioli (Calendario di Umbertide 2004)

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