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Personaggi Storici 
dall'ottocento all'antichità

In questa sottosezione proponiamo le biografie di alcuni personaggi che hanno avuto un ruolo nella storia della città nel periodo dall'ottocento all'antichità.

Pietro Burelli

 

 

 

 

Pietro Burelli

Ingegnere militare al servizio della Serenissima

 

a cura di Fabio Mariotti

Pietro Burelli - Galleria dei personaggi

 

 

Pietro Burelli, figlio di Tommaso “distinto letterato”, nacque a Fratta nel 1584. Fin da giovanissimo mise in mostra un grande talento e una spiccata attitudine verso le scienze matematiche. Lo storico Antonio Guerini, nella sua opera “Storia della terra di Fratta, ora Umbertide - 1883” racconta che “l’architettura civile e militare fu di preferenza la sua precipua passione onde, per aprirsi un campo più splendido sulle vie dell’onore, si diede totalmente alla carriera delle armi”. Per questo andò in Spagna, allora impegnata in una cruenta guerra con i turchi, dove arrivò fino al grado di capitano. Divenne particolarmente abile nella realizzazione di fortificazioni di campagna che resistevano all’assalto di cavalleria e fanteria. Per questo motivo, tornato in Italia, si mise al servizio della Serenissima Repubblica Veneziana, raccomandato al Doge Niccolò Donatuti dal Provveditore Generale in Terra Ferma Benedetto Moro, con una provvigione molto ricca di 800 scudi all’anno. In questa su attività in terra veneta intraprese il restauro e la ristrutturazione dei baluardi di Palmanova e del grandioso progetto della fortezza di Verona, città nella quale, sorpreso da una grave infermità, morì nel 1642 all’età di 58 anni.

 

Articolo pubblicato nel numero di Dicembre 2019 di “Informazione Locale”.

Il 18 dicembre 1960, 59 anni fa, l’amministrazione comunale intitolò una via a Pietro Burelli. Chi era questo personaggio ritenuto degno del titolo di una via e quanti umbertidesi oggi conoscono la sua storia?

 

Per approfondire la storia di Pietro Burelli, di cui trattò nella sua opera il Guerini, è stata fondamentale la ricerca storica del Col. Pilota dott. Giuseppe Cozzari presso l’archivio storico della città di Venezia, con la preziosa collaborazione dello storico Renato Codovini per la trascizione dei testi. Oltre ad alcune lettere che testimoniano l’iter per l’assunzione del nostro antenato come ingegnere militare esperto in fortificazioni difensive, il Cozzari ha ritrovato anche un manoscritto originale che illustra in maniera dettagliata, anche con precise immagini, il funzionamento di una nuova arma da guerra, il “Trabucco”, ideata dal Burelli.

Fonti: Fabio Mariotti. La documentazione è stata ritrovata nell’archivio storico del Comune di Venezia dal dottor Giuseppe Cozzari e trascritta dal volgare dallo storico Renato Codovini.

 

DOMENICO BRUNI

Grande cantante lirico

 

a cura di Fabio Mariotti

Domenico Bruni
Domenico Bruni.JPEG

Nacque a Fratta il 28 febbraio 1758, da Pietro, capo-maestro muratore e da Francesca Brischi. Già in tenera età manifestò buona disposizione al canto. Il padre di Domenico apparteneva alla Compagnia della S. Croce. E' probabile quindi che il giovane abbia appreso i primi rudimenti della musica nella scuola della Compagnia, a partire dal 1764. L'esordio di Bruni alla Fratta, con voce da soprano, è del 1772, all'età di 14 anni.

All'età di 15 anni, secondo una crudele usanza di quel tempo, adottata spesso dalle famiglie povere che avevano figli particolarmente dotati nel canto, Domenico fu evirato. Questo fece di lui uno dei più importanti cantanti evirati del tempo. La sua prima esibizione in un grande teatro, 1'Alibert di Roma, risale al 1776. Dal 1780 al 1787 cantò in alcuni dei più importanti teatri italiani e la sua fama incominciò a varcare i confini nazionali. Nel 1787 fu chiamato alla corte di Caterina II di Russia, dove arrivò dopo un lungo e avventuroso viaggio e dove restò fino al 1790.

Gli anni più importanti della sua carriera vanno dal 1791 al 1796. In questo periodo fu chiamato anche a Londra dove si esibì, nel 1793.

Il debutto da cantante professionista nella sua città è datato 8 settembre 1795, nel corso della Festa della Madonna della Reggia, probabilmente nella Collegiata.

Conclusa la carriera, Bruni tornò nel 1797 alla Fratta dove, in considerazione della fama raggiunta e nonostante la contrarietà dei ricchi notabili del posto che non volevano accettarlo tra di loro, fu eletto Priore della Confraternita di San Bernardino. Tale importante incarico gli venne affidato nuovamente dal 1805 al 1807, mentre nel 1804 e dal 1816 a1 1818 fu nominato Depositario (oggi diremmo cassiere) della stessa Confraternita. I rapporti con la Compagnia della S.S. Concezione risalgono al 1795. Nel 1814 fu eletto Priore, mentre nel 1812 e dal 1819 al 1821, anno della sua morte, fu nominato Depositario.

I profondi legami di Bruni con le Confraternite locali sono dimostrati anche dal testamento, dove chiese che il suo corpo venisse seppellito nella chiesa di San Bernardino e lasciò alla Confraternita un legato annuale di 10 scudi.

Il nome di Domenico Bruni è anche indissolubilmente legato al Teatro. Il 4 agosto 1808, infatti, fu nominato presidente dell'Accademia dei Riuniti. Nel corso di quella riunione fu chiesta al comune la possibilità di utilizzare tutto il fabbricato dove era posta la sala-teatro al fine di realizzarvi un teatro vero e proprio, quello che ancora oggi si chiama Teatro dei Riuniti, i cui lavori furono ultimati nel 1814.

 

Fonti:

 

- Nicola Lucarelli: “Domenico Bruni (1758 – 1821) – Biografia di un cantante evirato”

- Ed. Comune di Umbertide, 1992

 

- Testo pubblicato nel “Calendario di Umbertide 1998” - Ed. Comune di Umbertide, 1998

Copertina libro Domenico Bruni.jpg
Zelmirina Agnolucci

ZELMIRINA AGNOLUCCI

Apprezzata cantante lirica

 

 

CANTO’ PER LO ZAR DI RUSSIA NICOLA II

 

di Amedeo Massetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Portava il nome della nonna, Zelmirina, la nonna materna Zelmira Savelli(1), moglie di Gabriele Santini, il cui omonimo nipote sarebbe diventato direttore d’orchestra di fama internazionale(2). La madre, Maria Santini, quinta dei sette figli di Gabriele e Zelmira, nata nel 1848(3), aveva sposato Francesco Agnolucci,1851, grande violinista giovanissimo direttore, dal 1871 al 1875, della scuola

comunale di musica di Umbertide, insegnante di tanti ragazzi. Dirigerà, stimatissimo, anche molte filarmoniche e bande musicali in varie città d’Italia.

Zelmirina era nata ad Umbertide nel 1879. Aveva respirato le note fin da bambina ascoltando le dolci melodie suonate dal babbo nella loro grande casa di campagna. Aveva studiato canto, diplomandosi come soprano con Pietro Mascagni al conservatorio “G. Rossini” di Pesaro(4), dove andava due volte al mese con la carrozza trainata da cavalli.

La prima esibizione a teatro ad Umbertide

La troviamo per la prima volta la sera del 4 aprile 1898 al “Teatro dei Signori Riuniti” in uno spettacolo di una certa importanza che meritò gli onori delle cronache(5). Il tutto era organizzato “a beneficio della cantante Emilia Giannuzzi, priva della vista”, di passaggio per Umbertide, che si esibì davanti ad un pubblico numeroso ed appassionato. Il teatro infatti, nonostante piovesse da molti giorni ed il tempo scoraggiasse le uscite serali, era gremito, “i palchetti traboccavano di rappresentanti del sesso gentile”. Ciò a dispetto di un’umida serata di quaresima, di un lunedì che dava inizio alla Settimana Santa. Ma la Giannuzzi era una brava soprano e accanto a lei cantavano

gli umbertidesi Zelmirina Agnolucci, occasionalmente nel ruolo di contralto, “ammiratissima”, e Giulio Santini, noto e apprezzato baritono(6). Li accompagnava al pianoforte un grande musicista locale, Massimo Martinelli, direttore del Concerto municipale, sempre presente in manifestazioni musicali di rilievo. Zelmirina si era esibita più volte al teatro Morlacchi di Perugia come soprano drammatico, iniziando una carriera impegnativa che le aveva già procurato varie soddisfazioni(7). Aveva poi iniziato la carriera artistica cantando in compagnie di livello nazionale. Memorabile la sua Mimì nella “Bohème” al prestigioso “Coccia” di Novara(8) durante il Carnevale 1899(9) e applauditissima l’interpretazione, nello stesso teatro, del “Trillo del diavolo” di Stanislao Falchi(10), negli splendidi costumi di scena.

 

La tournée in Russia

Ma la prima tournée rilevante della sua vita fu quella che intraprese agli inizi del Novecento:

l’avrebbe portata a San Pietroburgo, a cantare per lo Zar Nicola II. La ragazza, ventunenne,

era partita insieme al padre Francesco Agnolucci, dopo aver firmato un contratto con

l’impresario per esibizioni in varie città nella lunga strada verso la capitale dell’impero russo.

La troviamo in questo avventuroso viaggio artistico, nel marzo 1900, al Grand Theatre di Vilna(11)

dove canta nella “Cavalleria Rusticana” insieme a Luisa De Sirianna, Carolina Zawner, Federico

Percopo (tenore), Giuseppe Pimazzoni e Ignazio Pompa(12). La tappa successiva fu il Teatro

Nazionale di Riga(13), nel maggio 1900, insieme a Ernesto Pettinari e ancora con il baritono

Ignazio Pompa(14).

Grande successo al Teatro Imperiale di San Pietroburgo

Ma l’esibizione più importante fu al Teatro Imperiale di San Pietroburgo, dove sedeva tra il pubblico lo Zar Nicola II(15). Fu un grande successo e la giovane soprano colpì per la bravura e bellezza Wassili Elisiewch Lithewsky, consigliere di stato nobile dello Zar (galavà), governatore di Vitebsk, ora città della Bielorussia. Durante il soggiorno di Zelmira a San Pietroburgo ci fu un’intensa frequentazione tra i due che sfociò nella richiesta di matrimonio da parte del nobile russo. Il padre della ragazza acconsentì, e dovette corrispondere all’impresario una grossa somma a risarcimento degli impegni che Zelmira avrebbe dovuto assolvere al ritorno.

 

 

 

 

 

Il matrimonio con il nobile russo Wassili E. Lithewsky

Le nozze furono celebrate a Vitebsk dopo non poche difficoltà: Wassili passò perfino alcuni giorni rinchiuso in una fortezza militare per non aver chiesto allo Zar il permesso di sposarsi, come era prescritto per gli ufficiali; ma l’impeto di unirsi in matrimonio con la giovane soprano gli aveva fatto dimenticare ogni procedura del suo ruolo. Wassili era nato a Ekaterinodar(16), sul Mar Nero, nel 1860 e aveva quasi vent’anni più della ragazza, un quarantenne carismatico e affascinante. La coppia si stabilì nella città governata dal marito ed iniziò una vita felice insieme.

Presto nacquero due figli: Boris nel1901 ed Elena nel 1904. Wassili era così innamorato da costruire un teatro nel loro sontuoso palazzo di Vitebsk dove la moglie organizzava spettacoli in cui si esibiva nei ruoli di cantante. Una grande sala attigua raccoglieva un esemplare di ogni strumento musicale esistente all’epoca: arredamento incomparabile, prezioso, voluto da Wassili, dal suo amore per Zelmira, dalla sua sensibilità artistica(17).

Francesco Agnolucci rimase qualche tempo in Russia vicino alla figlia, poi tornò in Italia. Morirà nel 1917 nella sua casa al Rio, a confine tra il comune di Montone e quello di Umbertide, all’età di 66 anni(18).

 

Il ritorno in Italia con il marito e i due figli

Nel 1914 Zelmirina partì con Wassili per l’Italia per far conoscere al marito ed ai figli la madre Maria e la famiglia Agnolucci. I Lithewsky si trattennero alcuni mesi ma Wassili, scoppiata la Prima Guerra Mondiale, essendo ufficiale dello Zar, dovette tornare in Russia; la moglie ed i figli rimasero in patria; Boris ed Elena compirono i loro studi in Italia. “Restate qui” – aveva detto loro Wassili – “quando finirà la guerra vi verrò a riprendere”.

 

Dopo la Rivoluzione Russa Wassili fu costretto a nascondersi

Ma nell’ottobre del 1917, in pieno conflitto mondiale, scoppiò in Russia la rivoluzione bolscevica. Tutte le classi della nobiltà furono legalmente abolite. Wassili dovette nascondersi per scampare all’arresto e fu costretto a vivere a lungo in clandestinità, aiutato dai suoi stessi contadini. I suoi parenti erano stati uccisi con esecuzioni sommarie, senza processo, comprese le due sorelle Barbara ed Alessandra, compagne di collegio di Elena del Montenegro, divenuta poi sposa di Vittorio Emanuele III di Savoia.

Solo nove anni dopo, nel novembre 1926, il “generale Lithewsky” riuscì a mettersi in contatto col ministero degli esteri italiano attraverso i canali diplomatici ufficiali. Tramite il consolato di Odessa, nell’attuale Ucraina, ottenne un passaporto con relativo visto; per un attimo il buio parve diradarsi ma l’operazione non andò a buon fine e l’ex ufficiale dello zar dovette tornare a nascondersi. Nel 1929 riuscì a spedire alla famiglia una sua foto, indirizzata con affetto alla “cara Lolina”, la figlia Elena. In Italia, nel 1918, causa la grande “influenza spagnola” che uccise 20 milioni di persone in tutto il mondo, era morto il primogenito Boris, a soli diciassette anni. La perdita del figlio aveva sconvolto Zelmirina.

Wassili Lithewsky passò in Russia momenti durissimi: per quasi dieci anni i suoi congiunti in Italia non avevano potuto ricevere notizie. Tra enormi difficoltà girò clandestinamente in varie parti del territorio, fuggendo nei deserti dell’Asia Centrale, sostenuto solo dalla volontà di rivedere i propricari.

Nei primi anni Trenta del Novecento, placatosi un po’ il clima, iniziarono le ricerche della famiglia: il genero, dottor Carlo Alberto Angelini, marito di Elena, conosceva bene e contattò l’ambasciatore italiano a Mosca, Bernardo Attolico; chiese anche l’intervento della Croce Rossa. Si attivò nella ricerca perfino l’ingegner Adolfo Ghisalberti, nipote di Maria Santini(19).

Finalmente si riuscì a trovarlo nel deserto del Gobi, in Mongolia, e ad organizzare il rientro: nell’estate del 1932 Wassili poté partire per l’Italia. Carlo Alberto Angelini andò a prenderlo al porto di Genova. Il suo fisico era molto debilitato: più volte fu necessario sorreggerlo durante i trasferimenti del viaggio.

 

Dopo innumerevoli peripezie il ritorno in famiglia

Quando il consigliere dello zar giunse ad Umbertide, diretto alla casa di campagna al Rio, viso scavato, pizzo bianco, occhi a mandorla, molte persone notarono il ricco abito da nobile russo che conferiva alla sua figura alta e maestosa un alone di fascino e mistero.

Zelmirina, pur nella gioia, subì un grosso choc all’arrivo del marito che aveva dovuto lasciare tanto tempo prima. La secondogenita, Elena, che lo rivedeva dopo 15 anni, per il trauma smise di allattare la figlia Viola(20).

Wassili si stabilì finalmente nella grande casa della famiglia Agnolucci. Fumatore accanito, dormiva con il lume di una candela sul comodino perché svegliandosi aveva il bisogno impellente di accendere una sigaretta. Ma l’anziano aristocratico non potrà godere a lungo del calore della famiglia ritrovata perché morì di enfisema polmonare solo tre mesi dopo(21).

 

La morte di Zelmirina il 5 luglio 1944

Zelmirina, piegata dalle avversità della vita, sofferente in gioventù(22) di una forma virale di encefalite letargica(23), si ammalò del morbo di Parkinson e passò gli ultimi anni nella sofferenza. Fu assistita amorevolmente nella malattia dal genero, Carlo Alberto Angelini, medico, marito della figlia Elena. Morì il 5 luglio 1944, giorno della Liberazione di Umbertide(24), invocando l’adorato figlio Boris, al “Palazzo della Tramontana”, l’attuale villa di proprietà Cozzari lungo la strada che porta a Migianella(25), allora proprietà Agnolucci.

 

30 settembre 2013

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonti:

Ricerca storica di Amedeo Massetti

 

Pubblicato nel mese di marzo del 2014 sul n.52 di “Pagine Altotiberine” a cura dell’Associazione Storica dell’Alta Valle del Tevere.

 

Testo ridotto pubblicato sul "Calendario di Umbertide 2015" – Ed. Comune di Umbertide 2015

 

 

Note al testo:

1 Zelmira, nata a Umbertide nel 1820, apparteneva alla famiglia possidente dei Savelli, abitante in via Stella; era sorella di Giuseppe Savelli, più volte sindaco di Umbertide dal 1863 al 1880, e di don Flaviano, canonico e arciprete della Collegiata di S. Maria della Reggia. Zelmira Savelli morirà nel 1875.

2 Gabriele Santini era nato il 20 gennaio 1886; il padre era Pio Santini, la madre Carmela Nolaschi. Studiò al Conservatorio “F. Morlacchi” violoncello e pianoforte e più tardi passò al Conservatorio G.B. Martini di Bologna dove compì gli studi di composizione con G. Minguzzi e P. Micci. Iniziò la carriera di direttore d’orchestra già nel 1904 e si dedicò quasi esclusivamente al genere operistico. Dopo un primo periodo al Teatro Costanzi di Roma (ora Teatro dell’Opera), venne ingaggiato da vari teatri dell’America Latina. Rimase per otto stagioni al Teatro Colòn di Buenos Aires e successivamente al Teatro Municipal di Rio de Janeiro, al Lyric Opera di Chicago e al Teatro Manhattan di New York. Dal 1925 al 1929 fu chiamato al teatro Alla Scala di Milano come assistente del maestro Arturo Toscanini. Tornò

quindi all’Opera di Roma dove rimase stabilmente fino al 1933 e dal 1944 al 1947 svolse qui l’incarico di direttore

artistico. Nel 1951 diresse la compagnia del S. Carlo di Napoli nella tournée a Parigi, per le celebrazioni del cinquantenario verdiano. Diresse varie stagioni al Teatro alla Scala di Milano nel 1946 e dal 1960 al 1964, anno della sua morte (Da N. LUCARELLI, Gabriele Santini, illustre umbertidese, in “Umbertide Cronache”, Periodico bimestrale del Comune di Umbertide, n. 1-2002, p. 42).

3 A. MASSETTI, Due secoli in marcia, Umbertide e la banda, Città di Castello, Petruzzi, 2008, p. 139.

4 Testimonianza della nipote Fiore Angelini.

5 L’Unione Liberale, 5 aprile 1998, p. 2.

6 Nella seconda metà del secolo XIX si impose all’attenzione del modo lirico la voce baritonale di Giulio Santini. Nel 1872 era stato scritturato come primo baritono al teatro di Fermo. Da qui si trasferì a Sansepolcro e nel 1874 cantò al Teatro Nuovo di Firenze come primo baritono assoluto, dove raccolse strepitosi successi. Durante il suo lungo soggiorno in questa città, si esibì anche nella Sala Bellincioni, in via delle Belle Donne. Al concerto, eseguito il 30 gennaio 1875, Santini partecipò in incognito, forse per ragioni imposte dal suo rapporto col Teatro nuovo. Lasciata Firenze, si esibì a lungo prima a Siena, poi a Perugia, dove eseguì 12 rappresentazioni de “La Favorita” di Donizetti. A febbraio del 1879, Santini cantò al teatro di Città di Castello nella “Luisa Miller” di Verdi. Le notizie su di lui

terminano con il 1880, anno in cui fu scritturato dal Teatro di Arezzo. In tutta la sua carriera ebbe dagli impresari attestati di stima e di profondo apprezzamento per le sue prestazioni professionali. (R. CODOVINI – R. SCIURPA, Umbertide nel secolo XIX, Città di Castello, GESP, 2001, p. 307).

7 Testimonianza della nipote Fiore Angelini.

8 Il teatro “Coccia” di Novara, uno dei maggiori teatri di tradizione italiani, fu inaugurato il 21 gennaio 1888 con l’opera “Gli Ugonotti” di Giacomo Meyarbeer, diretta da Arturo Tscanini. E’ intitolato a Carlo Coccia, maestro di cappella del Capitolo del duomo di Novara.

9 Documenti ora in possesso della nipote Viola Angelini.

10 Stanislao Falchi, nato a Terni il 29 gennaio 1851, fu allievo di C. Maggi e S. Meluzzi, che lo avviarono allo studio della composizione. Per poter raggiungere una preparazione più approfondita, si trasferì a Roma, dove gli studi musicali conoscevano una vivace ripresa nel clima di rinnovamento culturale degli anni successivi all'Unità d'Italia. Nel 1877 fu inaugurato il liceo musicale di S. Cecilia, articolato in numerosi corsi: il Falchi ricevette l'incarico di insegnante di canto corale e nel 1882 di canto normale, nomine che gli conferirono un particolare prestigio. Sarà poi direttore di canto corale in varie scuole di Roma dal 1883, coronando una splendida carriera didattica; avrà la cattedra di contrappunto, fuga e composizione nel 1890 nel conservatorio di S. Cecilia (Dizionario Biografico degli Italiani Treccani).

11 L’attuale Vilnius, allora città russa, ora dello stato della Lituania.

12 Il baritono Ignazio Pompa, nato a Roma nel 1860, studiò sia a Milano sia nella sua città. Il successo non tardò a

venire. Ultratrentenne, entrò in varie Compagnie teatrali, dalla Compagnia Castellano a Labruna, Granzini, Dazig e cantò in importanti teatri europei, da Parigi a Le Havre, da Ostenda a Liegi, a Poltava. Cantò inoltre a Smirne, Atene, Costantinopoli, Il Cairo, Alessandria d’Egitto. La sua presenza nei teatri russi e ucraini, da Smolensk, dove si sposò nel 1899, a Wilnius, da San Pietroburgo a Minsk, Kursk, Jekaterinoslav, Teodosia, Molitopoli, Kerck, e altre città russe e ucraine, si fece notare con successo. Morì a Londra nel 1909 (www.museoparigino.org).

13 Riga, allora città russa, oggi è la capitale dello stato baltico della Lettonia.

14 Ibidem.

15 L’attuale Teatro Mariinskij, di San Pietroburgo. Deve il suo nome alla principessa Maria Aleksandrovna e in passato ha avuto, in epoca sovietica, il nome di Teatro Kirov, (in onore di Sergej Kirov ) e Accademia Nazionale dell'Opera e del Balletto e, in epoca zarista, Teatro Imperiale di San Pietroburgo.

16 La città, dal dicembre 1920, è stata ribattezzata Krasnodar.

17 Testimonianza della nipote Viola Angelini.

18 E’ sepolto nella cappella Savelli, nell’emiciclo sinistro del cimitero di Umbertide. Sulla sua lapide c’è la seguente

critta: Dedicò l'arte sua bella l'illibata operosa sua vita alla moglie ai figli che con infinito riverente amore venerano la lacrimata memoria.

19 Testimonianza della figlia Paola Ghisalberti.

20 Testimonianza della nipote Viola Angelini.

21 Anche Wassili Lithwsky è sepolto nel cimitero di Umbertide, nella cappella Savelli.

22 Il marito era sparito nel caos della rivoluzione russa e non erano riusciti neppure più a scriversi.

23 Il padre delle signore Fiore e Viola, Carlo Alberto Angelini, medico, ebbe contatti anche con la Regina Elena che

aveva promosso e finanziato studi su questa malattia.

24 Il 5 luglio 1944 Umberttde fu liberata dai soldati dell’ 8ª armata britannica.

25 La villa a sinistra di chi sale verso Migianella, cui si accede lungo un sentiero delimitato da pini marittimi. Negli anni ‘30 apparteneva alla famiglia Agnolucci.

 

 

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La cantante con il figlio Boris
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Lo Zar Nicola II
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Zelmirina con il marito Wassili
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La cantante  con alcuni degli abiti usati in scena

FILIPPO ALBERTI

Letterato e poeta

 

a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nacque il 26 marzo 1548 alla Fratta, da Luca Antonio Alberti e da Ippolita Petrogalli. Passò l'infanzia e l'adolescenza in severi studi e poco più che ventenne fu eletto "coadiutore" del cancelliere del comune di Perugia.

Ben presto acquistò fama di valente poeta. Le sue rime ebbero, mentre era ancora in vita, due diverse edizioni e molte di esse videro la luce in pregevoli raccolte di altri importanti ed illustri letterati dell'epoca, fra le quali anche i pregevoli "nove sonetti", scritti dal Nostro per la "Conversione di Santa Maria Maddalena".

Scrisse varie opere molto lodate: un libro di poesie l'intitolato "Rime di Filippo Alberti" stampato in Roma ed in Venezia; una bella canzone sopra la cicala; una tragedia intitolata "Cestio Macedonico" il cui protagonista fu un tale Cestio cittadino perugino, il quale avendo combattuto coi Romani nella

guerra di Macedoni ed in quella essendosi segnalato per generose azioni, meritò il soprannome di Macedonico.

Non tutte le sue opere furono pubblicate e molte sono andate disperse - anche se ne abbiamo notizie e titoli - in seguito alla sua lunga infermità e alla sua morte.

Filippo Alberti fu tenuto in gran conto da personaggi del tempo quali Alfonso d'Este, duca di Ferrara, i cardinali Bonifacio Bevilacqua e Domenico Pinelli ed il marchese Ascanio della Cornia. Lo tennero in onore letterati come l'illustre umanista Marco Antonio Bonciari, Scipione Tolomei, Cesare Crispolti senior, Giovan Battista Lauri, Cesare Caporali, Claudio Contuli e Cesare Alessi. Ma il principale vanto per 1'Alberti fu l'amicizia che gli professò Torquato Tasso; amicizia fondata sulla stima che il grande poeta aveva per il letterato di Fratta. L'Alberti ci parla della conoscenza con il Tasso fatta a Ferrara, coltivata attraverso un'affettuosa corrispondenza con il nostro Filippo cui dedicò anche un sonetto, e non disdegnò di chiedergli consigli sulla "Gerusalemme Liberata" e, avutili, di seguirli.

L'Alberti era anche un buon prosatore (ci sono in proposito elogi di uomini illustri, tuttora inediti, conservati nella biblioteca Augusta di Perugia). Alcuni di questi lavori non furono portati a compimento, altri rimasero inediti sia per l'invidia dei potenti del tempo, come confermano il Lauri e 1'Oldoino, sia per la sua malferma salute.

I pregi letterari e l'amore che portava a Fratta e a Perugia ci fanno credere che sarebbe stato molto interessante avere un volume delle sue "Memorie istoriche di Perugia", andate perdute, da lui scritte quando era governatore della città del Grifo il romano Carlo Conti, colui che sotto papa Clemente VIII "fu tentato di far la Chiesa di Perugia archipiscopale". Gli studi non allontanarono 1'Alberti dai pubblici uffici ed egli, che nel 1573 era stato eletto "Coadiutore" del cancelliere del comune di Perugia, fu chiamato ad assumere la direzione della cancelleria priorale, ufficio al quale venivano assegnati sempre uomini insigni per prudenza e per dottrina.

Gli amici ed ammiratori dovettero piangerne la morte quando ancora non era vecchio. Aveva 64 anni allorché si ritirò a vivere a Fratta e lì terminò i suoi giorni, il 12 settembre 1612. E' sepolto nella chiesa di San Domenico a Perugia.

La strada dove era situata la sua casa, in pieno centro storico, porta oggi il nome di "via Alberti".

 

Alcune poesie di Filippo Alberti

Si risolve di più non amare

Dissi, ch'eri il mio bene

E la mia vita, Orsella

Più che il sol vaga, e bella.

Hor mi disdico, e 'l canto

Rivolgo a i biasmi, a l'ire

T'amai, t'odio altrettanto.

E fuor d'affanni, e pene

Ecco, ch'io pur son mio

A Dio, perfida, a Dio.

 

Tratta che le donne di Perugia, passata una                                                                                                                                      certa età, dovessero vestire di nero

Ahi sciocco è ben chi crede

Che Donna in veste nera

Possa parer men bella, e meno altera.

l negro il bel non toglie,

E torta Legge è quella

Che solo altrui concede

Color, che sempre annuntia o morti, o doglie,

Tuona, e saetta il Ciel quando è più fosco,

Negra serpe ha più tosco.

 

Presagio della bellezza di una fanciulla

Pomo acerbetto sei

Vaga fanciulla, e da begli occhi fuore

Sol verginelle gratie spiri ancora;

Ma già Cupìdo aguzza i dardi rei,

Già in man la face ha tolto,

Per accenderla poi nel tuo bel volto.

 

 

Fonti:

Calendario storico di Umbertide 2002 – Ed. Comune di Umbertide – 2002

Arcangelo Chelli - “Gli uomini illustri di Umbertide” – Ed. Tipografia Tiberina - 1888

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Via Alberti
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Ernesto Freguglia

ERNESTO FREGUGLIA

 

La storia di un pittore umbertidese d’adozione

 

 

di Amedeo Massetti

Filippo Alberti
Ernesto Freguglia (1875). Il Foro boario, oggi Piazza del Mercato

Il grande quadro a olio con i buoi, che spicca sulla parete dell’ufficio del sindaco, fu dipinto nel 1875 da Ernesto Freguglia. Noto pittore a quel tempo, ma sconosciuto oggi ad Umbertide.

Eppure Freguglia nella nostra città ci visse venticinque anni, trasferendovisi da Roma nel 1874. Abitò prima in via Cibo, poi in via Petrogalli che allora costeggiava il borgo di San Giovanni ed infine in via Cavour, al numero 64, dove morì settantaquattrenne l’ultimo giorno del 1899. È sepolto nel nostro cimitero.

Il bravo artista era nato a Sabbionello di Copparo, nel comune di Ferrara, il 20 dicembre del 1825. Allievo del pittore ferrarese Guseppe Tamarozzi, aveva studiato alla scuola di disegno e figura nell’ateneo della sua città. Era stato quindi a Firenze dove lo troviamo nel 1853 tra i vari copisti degli Uffizi (qui riprodusse un “paesaggio di Jean Baptiste Fierce de Roven”). Si trasferì poi a Roma, nel 1856, entrando nello studio del pittore e restauratore Alessandro Mantovani, anche lui di Ferrara (alcuni suoi pregevoli lavori sono nel Palazzo del Quirinale). Negli anni ’60 dell’Ottocento Freguglia è ancora attivo a Roma dove partecipa all’integrale rifacimento delle decorazioni, tra il 1863 ed il 1867, della chiesa di Santa Lucia del Gonfalone in via dei Banchi Vecchi, insieme a Salvatore Rotani, sotto la direzione del noto pittore romano Cesare Mariani. Tra il 1870 e il 1876, collaborò con Alessandro Mantovani nella decorazione della Nuova Loggia Pia in Vaticano, dando “prova di non comune perizia nel seguire le concezioni raffaellesche”. Nel 1876 offrì in dono un suo quadro al comune di Ferrara. Espose in questa città nel 1875, nel 1877 e nel 1899. Un paio dei suoi suggestivi paesaggi di gusto romantico, in sintonia con i canoni della scuola vedutistica romana, sono nella collezione Scutellari della città estense.

Freguglia è un pittore di un buon livello e le sue opere denotano profonde conoscenze tecniche e un gusto raffinato che va ben oltre le rappresentazioni di maniera di autori dello suo periodo. Risente della contemporaneità con il movimento dei macchiaioli anche se, pur indugiando in freschi giochi di luci e colori, non trascura di usare pennellate precise, creando rappresentazioni quasi fotografiche.

Il quadro alla parete dell’ufficio del sindaco, cui abbiamo accennato, “Il mercato del bestiame a Fratta”, oltre ad offrirci uno straordinario documento di vita ottocentesca - l’animato giorno del mercato - fornisce particolari architettonici dell’antica città oggi scomparsi o trasformati. Sono diverse infatti le vedute del ponte sulla Reggia e dello spiazzo antistante la Rocca non ancora livellato con terreno di riporto (un parziale ripristino delle condizioni originarie è stato operato con i recenti lavori del Parco della Reggia e Piazza del Mercato). Come pure non esiste più l’albergo posta Guardabassi (a destra della Collegiata) demolito per allargare la strada d’ingresso alla Piazza. Ed ha infine una diversa struttura il palazzo Mavarelli oggi innalzato anche nell’ala verso il centro del paese.

Freguglia - il Tevere al Mulinaccio.tif
Ernesto Freguglia (1874). Il Tevere nella zona del "Mulinaccio"

Ha un grande valore documentale anche l’altro dipinto che conosciamo, appartenente alla collezione Scagnetti, in cui Ernesto Freguglia raffigura un diverso scorcio di Umbertide. La tela, del 1874, ha il consueto tratto delicato e la ricchezza di particolari propri del pittore e rappresenta lo scorcio dal lato ovest del castello di Fratta. Al centro del dipinto, sullo spigolo delle mura, si nota il basamento della torre di difesa crollata nella piena del Tevere del 1610. Sulla parte sinistra si vedono alcuni particolari architettonici oggi scomparsi. In basso a destra si scorge il canale artificiale che portava l’acqua della Carpina, dopo essere passata per il Mulinello e la Fornace, ad azionare il “Mulinaccio” (da poco spazzato via dalla piena) sotto le mura. La zona ha ancora questo nome. Sono infine rappresentate lavandaie, pescatori e persone al bagno in un’acqua limpidissima.

Ernesto Freguglia, pittore emiliano divenuto umbertidese, amò la nostra città e la scelse per viverci un quarto di secolo, fino alla morte. Dagli attenti scorci in cui la raffigura, dalla cura che pone ai più tipici dettagli, traspare un rapporto di calda familiarità. Bre 2019 di

 

L’articolo è stato pubblicato nel numero di Novembre di “Informazione Locale”

Fonti:

Ricerca storica di archivio di Amedeo Massetti

Cartellino anagrafico di Ernesto Freguglia
presso il Comune di Umbertide
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Giuseppe Savelli

GIUSEPPE SAVELLI

Il Sindaco del passaggio da Fratta ad  Umbertide

 

 

 

 

 

 

 

 

di Amedeo Massetti

 

Il busto in ceramica di Giuseppe Savelli fu collocato nella sala del consiglio comunale nel 1894, quando il locale venne rinnovato con l’installazione di nuovi scanni in legno realizzati da tutti i falegnami di Umbertide. Era appoggiato su una base di legno a sbalzo sul muro all’altezza di due metri, a destra del banco della Giunta, affiancato, a sinistra, dal busto di Antonio Guerrini.

Il vecchio arredamento della sala consiliare, usato per 90 anni, fu sostituito da quello attuale nel 1984, quando fu ristrutturato il palazzo comunale. Il busto è stato restaurato gratuitamente nel 2011 dall’artista umbertidese Antonello Renzini ed è stato ricollocato nella sala attigua al Consiglio comunale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dottor Giuseppe Savelli era nato a Umbertide il 16 maggio 1824. Possidente, abitava in via Stella al n. 11. Aveva anche una casa nella Via Diritta (attuale via Cibo al n. 13), un’abitazione a Roma, e una residenza di campagna in località Rio a confine tra i comuni di Umbertide e Montone dove tuttora si trova il suo studio e la sua biblioteca.

Ricoprì, dal 1861, la carica di consigliere comunale. Dal 1863 verrà nominato Sindaco. Fu più volte sindaco di Umbertide dal 1863 al 1880.

Il dottor Savelli fu un patriota; durante la rivolta delle popolazioni umbre al governo pontificio nel 1859, fu nominato governatore dell’Amministrazione provvisoria di Fratta, con approvazione del Governo di Perugia.

Nel 1861, come consigliere comunale, si adoperò con straordinario impegno per la ricostituzione della Banda musicale, della quale fu membro e in seguito attivissimo e autorevole presidente. Scrisse a tal proposito una lettera rimasta memorabile.

Il dottor Giuseppe Savelli venne eletto Sindaco nel 1863 (è stato quindi il primo cittadino che ha traghettato Fratta in Umbertide) e manterrà questa carica fino al 18 maggio 1868. Poi per tutto il 1871 e 1872 fu di nuovo sindaco. Nel 1873, per un periodo, compare ancora come sindaco.

Nella sua qualità di capo dell’amministrazione, si impegnò con sensibilità e lungimiranza per dare al comune, che usciva dall’inadeguatezza dell’amministrazione pontificia, una struttura moderna ed efficiente. Nel 1872 fece approvare il primo regolamento di igiene pubblica e il primo di polizia urbana, che incisero profondamente sulla situazione socio-sanitaria di allora e restano pietre miliari per la loro attualità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Savelli morirà a Umbertide il 6 luglio 1886. Ė sepolto nell’ultima cappella dell’emiciclo

sinistro del cimitero di Umbertide, in cui si trovano anche le tombe della famiglia Santini

(sua moglie era Rosa Santini, figlia di Giuseppe, e la sorella Zemira Savelli aveva sposato

Gabriele Santini, nonno dell’omonimo direttore d’orchestra di fama internazionale).

Il fratello, don Flaviano Savelli, fu canonico e arciprete della Collegiata.

Giuseppe Savelli è autore di un storia manoscritta (purtroppo andata in parte distrutta) della

famiglia Savelli in cui compare anche un papa, Onorio III, che approvò la Regola di S. Francesco.

Fonti:

Ricerca storica di Amedeo Massetti

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1975. Insediamento del Consiglio comunale. In
alto, sulla destra della Giunta, il busto
di Giuseppe Savelli
La firma del Sindaco Savelli sul manifesto
che annuncia il cambio di nome
A. Massetti alla presentazione di una edizione
del Calendario storico di Umbertide
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Lo stemma di famiglia sulla casa 
in località Rio

ANTONIO GUERRINI

 

Canonico della Collegiata, professore di retorica e storico locale

 

 

 

 

a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Guerrini ebbe molto a cuore l'istruzione e l'educazione della gioventù, per la quale dedicò l’intera sua vita.

Nacque a Fratta nel 1779 da Giovan Battista Guerrini e Anna Maria Cassoni. Fin dai suoi primi anni fece intravvedere le belle qualità del suo animo. Suoi primi insegnanti furono due ex gesuiti spagnoli, padre Sebastiano Re e padre Gabriele Villalunga. D'indole buona ed onesta, per meglio giovare ai suoi concittadino abbracciò la vita ecclesiastica, nella quale si segnalò per sapere e per carità veramente evangelica.

A quindici anni fu designato canonico della chiesa Collegiata, mentre portava a compimento gli studi teologici nel seminario di Gubbio. A venticinque anni fu nominato professore di retorica nelle pubbliche scuole del nostro paese. Insegnò per più di quarant’anni fino agli ultimi giorni di vita, con zelo indefesso e con grande amore.

Due volte fu chiamato a Perugia, prima ad esercitare l'ufficio di rettore e moderatore degli studi nel “Piano Collegio”, poi ad insegnare filosofia; ma tutte due le volte ricusò, dando così una prova chiarissima della sua predilezione verso la terra natale.

Antonio Guerrini lavorò costantemente per migliorare, nelle scuole a lui affidate, i metodi d'insegnamento. Compilò una geografia corredata di notizie storiche, disegnando e costruendo un globo terrestre di grandi dimensioni per facilitarne l' insegnamento. Fece pure una grande carta dell'Europa, anch'essa con le indicazioni dei principali fatti storici.

Cooperò alla formazione della banda musicale cittadina, all’erezione di un teatro (quello che poi divenne il “Teatro dei Riuniti”) e all’istituzione di una società di declamazione drammatica a vantaggio degli infermi indigenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La copertina del libro sulla storia di Fratta e Umbertide

(Copia anastatica sull'originale del 1883 realizzata dal "Gruppo

Editoriale Locale" di Digital Editor Umbertide - Settembre 2009)

 

 

Scrisse un'opera molto lodata, una “Teoria dell’Arte Oratoria e della Toscana versificazione” di cui, un sunto, fu inserito nel Giornale Parigino dell'anno 1810 e che fruttò all’autore una menzione dal celebre Degerando il quale, scrivendo in proposito al sig. Conte Giovanni Spada, Vice Prefetto, gli palesò il suo desiderio che un tale metodo d’insegnamento fosse adottato da tutte le Università dell’Impero. Lasciò anche molte poesie latine e italiane.

Si occupò moltissimo nella ricerca delle memorie patrie, delle quali lasciò una copiosa raccolta.

La sua opera maggiore “Storia della Terra di Fratta ora Umbertide dalle sue origini fino all’anno 1845” fu completata dal nepote Genesio Perugini stampata presso la Tipografia Tiberina e pubblicata a spese del Comune di Umbertide nel 1883.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Guerrini morì il 21 gennaio del 1845, a sessantacinque anni. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria della Reggia (Collegiata) dove, a perpetuarne la memoria, il Municipio pose una lapide di marmo tra l’orchestra e la porta principale ad ovest che così recita:

“Don Antonio Guerrini per virtù per scienze ammiratissimo il patrio municipio pose - XXI Gennaro MDCCCXXXXV”.

 

L’amministrazione comunale gli dedicò una via il 22 gennaio 1880.

 

Fonti:

- “Gli uomini illustri di Umbertide” di A. Chelli - Umbertide, Tipografia Tiberina – 1888

- “L’uomo nella toponomastica” di B. Porrozzi – Ed. Pro-loco - 1992

- Biografia del prof. Antonio Mezzanotte - Tipografia Bartelli, Perugia 1845.

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Interno della Collegiata dove è stato sepolto don Antonio Guerrini. In basso, a sinistra, la lapide che lo ricorda.
Antonio Guerrini

ANNIBALE MARIOTTI

 

Illustre medico e letterato della seconda metà del ‘700

 

 

 

 

 

a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annibale Mariotti nacque il 13 settembre 1738 a Perugia, dove suo padre Prospero, professore di medicina e botanica nella locale Università, si era da poco trasferito da Fratta con la moglie Maddalena Eleonori già incinta.

Portò a termine i suoi studi letterari e scientifici a Perugia e ad appena sedici anni conseguì il dottorato in medicina e filosofia. Poco dopo si recò a Roma per istruirsi in fisica e in matematica sotto la guida di grandi precettori come Iaquier e Le-Seur, senza tralasciare di perfezionarsi in scienza medica con le lezioni del Saliceti e Gianneschi e in chimica con il Voyole.

Ritornato a Perugia, nel 1757, a soli diciannove anni, fu nominato professore di medicina ma il desiderio di arricchire il suo bagaglio culturale lo spinse a lasciare di nuovo Perugia.

Fu a Bologna, dove trasse profitto alle scuole classiche del Beccari, del Molinelli e del Monte; a padova dove arricchì le sue già ricche cognizioni stringendo amicizia con i dottissimi Quirini, Morgagni ed altri rinomati professori, poi anche a Pisa, ovunque ammirato per la grande erudizione. Da Pisa, da Pavia e dallo stesso studio di Padova gli offrirono cattedre che rifiutò per amore del luogo natio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                       Anni '30. Il Palazzo delle poste in piazza Umberto I (ora piazza Matteotti)                                                        L'ingresso di via Mariotti

 

Tale era ormai la sua fama di uomo dal grande sapere che dai più rinomati Collegi d’Italia di domandava spesso il suo voto nelle più profonde dispute mediche e il Conte Roberti, scrivendo al Bianconi, ebbe a dire: “Basta per istimare Perugia il ricordarmi che il letteratissimo Mariotti è suo cittadino!”

Intratteneva relazioni con i più brillanti ingegni della sua epoca e le Accademie più rinomate si onoravano di averlo socio, come gli Etruschi di Cortona, gli Arcadi Augusti, i Leopoldini di Germania ed altre ancora.

Fu persino chiamato dalla Corte di Dresda come suo medico, ma il richiamo della terra natale era per lui troppo forte per cui ritornò a Perugia dove, nel 1760, gli fu data di nuovo la cattedra di medicina alla quale, nel 1768, fu aggiunta quella di botanica, che era stata già del suo defunto genitore.

Annibale Mariotti visse in tempi difficili ma, tra gli onori e le umiliazioni che dovette sostenere, riuscì sempre a mantenere la bontà e la gentilezza del suo animo generoso.

Proclamata, il 5 febbraio 1798, la repubblica francese in Perugia, Annibale fu uno dei quindici che formarono il governo provvisorio ed ebbe l’onore, con il dottor Gian Angelo Cocchi, di rappresentare la città a Roma, al bandimento della costituzione della Repubblica Romana.

Al suo ritorno a Perugia venne eletto “Prefetto consolare” del Dipartimento del Trasimeno.

Utilizzò autorità e sapere a beneficio dei concittadini, adoperandosi per la liberazione di alcuni nobili incarcerati dal governo della repubblica e condotti in Ancona.

Caduta la repubblica romana, dopo diciotto mesi dalla proclamazione, fu oggetto di calunniose accuse da parte dei suoi nemici. Venne per questo arrestato dai soldati austro-aretini e condotto in Arezzo come un malfattore.

Dopo qualche tempo, riconosciute false le accuse, fu liberato, ma la durezza della prigionia contribuì ben presto a ridurlo in fin di vita. La morte arrivò il 10 giugno 1801, dopo una grave malattia di sei mesi. Perugia gli riservò onoranze solenni e l’orazione funebre fu letta dal dottor Luigi Santi, suo affezionato discepolo. Fu sepolto nella chiesa di S. Angelo a Porta Eburnea, dove una epigrafe ricorda le sue virtù ed il suo sapere.

Annibale Mariotti scrisse circa 60 opere, fra cui la “Storia della letteratura perugina” e “Le lettere pittoriche perugine” stampate nel 1788. Lasciò pure un manoscritto di memorie storiche di tutti i luoghi sotto l'antico dominio di Perugia.

 

Umbertide, dopo il 1863, gli dedicò la strada (già vicolo del Pomo) che collega l’odierna piazza Matteotti con piazza XXV aprile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le foto antiche sono dell’Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di A. Guerrini (completata da G. Perugini) – Umbertide, Tipografia Tiberina – 1883

- “Gli uomini illustri di Umbertide” di A. Chelli - Umbertide, Tipografia Tiberina – 1888

- “L’uomo nella toponomastica” di B. Porrozzi – Ed. Pro-loco - 1992

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Via Mariotti oggi da piazza XXV aprile
La targa dell'illustre personaggio
Annibale Mariotti
Alessandro Magi Spinetti
PIETRO GIACOMO PETROGALLI

Uomo d’armi della seconda metà del Cinquecento famoso per il suo coraggio

 

 

 

 

 

a cura di Fabio Mariotti    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pietro Giacomo Petrogalli nacque nel 1554, da una delle migliori famiglie del paese. Fin da giovinetto dimostrò grande coraggio e fermezza di carattere.

Un giorno, mentre si divertiva a pescare sul Tevere, poco sotto il castello di Montalto, venne ingiuriato dal perugino Sforza degli Alessandri che, non contento di ciò, lo fece anche percuotere con un bastone da un suo agente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pietro non sopportò l'insulto e giurò di prendersi la sua vendetta.

Alessandri veniva spesso alla Fratta, portando con se una scorta di armigeri. Pietro non potendo soffrire tanta insolenza, dopo l' offesa ricevuta, gli si presentò davanti e gli esplose un colpo di pistola sul petto lasciandolo morto sul terreno. Poi, armato di un’accetta, si fece largo in mezzo a quegli uomini d'armi riuscendo a porsi in salvo. Non sfuggì però alla pena del bando a cui venne condannato, e nell'aprile del 1580 fu costretto a lasciare la sua terra natale.

Dapprima si rifugiò in Francia prendendo servizio nelle milizie di quel paese. Si segnalò subito per molte e belle azioni di valore, per le quali riscosse l'ammirazione dei soldati ed ebbe il grado di luogotenente colonnello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla Francia ritornò in Italia, mettendosi al servizio del Granduca di Toscana Ferdinando I e partì con le truppe italiane che andarono in Ungheria a combattete con l'imperatore, contro i Turchi. Anche in questa occasione si mostrò degno del suo nome combattendo strenuamente e, dopo la presa di Chiavarino nella quale si copri di gloria, fu nominato capitano di una grossa compagnia italiana, il 15 ottobre 1594.

Fu pure un'altra volta in Ungheria stipendiato dalla Chiesa, nella spedizione comandata da Francesco dei marchesi Del Monte rimanendovi sino alla fine della guerra, nella quale riportò molte ferite.

Fu allora che, mal fermo di salute e assai debole per il molto sangue versato, espresse il desiderio di ritornare a respirare l'aria nativa e il papa, con uno speciale indulto del 26 Luglio 1596, non solo gli concesse di ritornare nel suo paese, ma lo richiamò dal bando e gli condonò ogni pena, benché non avesse ottenuto la pace dalla famiglia Alessandri.

Dopo qualche tempo, essendosi ristabilito in salute, ritornò in Toscana e dal granduca Ferdinando fu

nominato luogotenente della fortezza di Pistoia, quindi sergente maggiore del presidio di Livorno e poi castellano della stessa città.

Nel 1607 partecipò alla presa della città di Bona in Barberia col grado di sergente di battaglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Morto Ferdinando I nel 1609, gli successe nel governo Cosimo II il quale, venuto anche lui a conoscenza della sua perizia e fedeltà, il 15 maggio del 1612 lo nominò Governatore in Valdelsa e sergente maggiore di tutta la fanteria toscana, succedendo al cavbaliere Francesco Tucci, donandogli anche le ricche rendite di Poggio Imperiale.

Sostenne inoltre molte altre importanti cariche tra cui quella di Castellano e Governatore della Fortezza di San Miniato.

Nel 1622 ritornò nuovamente alla Fratta, soggiornandovi tuttavia per poco tempo perché la principessa Maddalena reggente del Granducato di Toscana lo chiamò ad assistere il cardinale De’ Medici in occasione del Conclave per l’elezione del nuovo Papa dopo la morte di Gregorio XV. Successivamente nel 1628 Ferdinando II, figlio e successore di Cosimo, lo richiamò alla corte ad occupare l'alta carica di Consigliere di Stato. E proprio quell’anno gli fu fatale perché un giorno, mentre usciva dalla consulta, fu colto da aneurisma per il quale morì all’età di 74 anni.

 

Anticamente via Petrogalli (già via San Giovanni) si trovava nel cosiddetto borgo San Giovanni distrutto nel terribile bombardamento del 25 aprile 1944. Per questo il consiglio comunale il 18 dicembre 1960 deliberò l’assegnazione al Petrogalli di una nuova strada, la traversa che da via XX settembre va a finire in via Andreani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di A. Guerrini (completata da G. Perugini) – Umbertide, Tipografia Tiberina – 1883

- “Gli uomini illustri di Umbertide” di A. Chelli - Umbertide, Tipografia Tiberina – 1888

- “L’uomo nella toponomastica” di B. Porrozzi – Ed. Pro-loco – 1992

FRANCESCO MAVARELLI

 

Sindaco di Umbertide dal 1892 al 1898 e autore

di alcuni pregevoli testi sulla storia di Fratta

 

a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Mavarelli era nato a Cagli il 3 gennaio del 1870 da Vincenzo e Angela Calai. Trascorse la sua infanzia nella cittadina marchigiana dove i genitori avevano qualche proprietà, ma il gruppo più considerevole dei suoi beni era ad Umbertide e consisteva nel magnifico palazzo in via Stella e in numerosi poderi sparsi nella campagna circostante. Le sue prime amicizie nacquero lungo la via Flaminia, tra Cagli e Fossombrone, distanti appena una ventina di chilometri tra loro e divise dal massiccio del Furlo. Qui stabilì rapporti sinceri e durevoli con le famiglie più in vista del posto come i Vernarecci, i Chiavarelli e altri.

Gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza li trascorse insieme al fratello Giuseppe nato cinque anni prima di lui, ma poi, il 14 giugno 1891, i due si separarono perché Giuseppe decise di sposarsi con Luigia Menghini e andò a vivere per conto suo.

Non conosciamo la data precisa in cui Francesco lasciò Cagli per stabilirsi ad Umbertide. La scheda anagrafica annota solo che vi si trasferì "da fanciullo". Con certezza ad Umbertide completò il ciclo della scuola elementare e media, per poi entrare nel Collegio della Quercia a Firenze dove portò a termine il corso degli studi classici e si laureò in legge. Non esercitò la professione, assorbito com'era dall'amministrazione dei suoi beni e da numerosi altri impegni. Durante le vacanze si recava spesso nei luoghi natali a trovare i vecchi amici e si fermava volentieri a Fossombrone presso la famiglia Chiavarelli dove Marina, che era nata il 7 luglio 1875 e aveva visto bambina, si stava facendo una bella ragazza.

Giovane brillante e aperto, sorretto da studi robusti e meditati, affrontò anche l'impegno politico e amministrativo con grande successo. Nelle elezioni comunali parziali del 26 luglio 1891 venne eletto consigliere con 110 voti su 171 votanti, mentre in quelle generali del 27 novembre 1892 e del 23 giugno 1895 risultò il primo degli eletti, rispettivamente con 455 su 490 votanti e 650 voti su 695 votanti. Ricoprì l'incarico di sindaco di Umbertide per sei anni, dal 4 dicembre 1892 al 3 dicembre 1898.

Fu assessore comunale, consigliere provinciale del mandamento e presidente della Congregazione di Carità. Una vita densa di lavoro e di responsabilità, se si considera che il giovane Mavarelli era poco più che ventenne.

A ciò si deve aggiungere l'intenso impegno storico e letterario su alcuni aspetti della vita cittadina condotto con scrupoloso equilibrio e profonda competenza, a conferma di una formazione scolastica affrontata con serietà e convinzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Notizie storiche e laudi sulla Compagnia dei disciplinati di Santa Maria Nuova e Santa Croce nella Terra di Fratta”, costituì il suo primo lavoro pubblicato nel 1899 e dedicato alla moglie. Il professor Augusto Vernarecci, l'amico di Fossombrone, ci informa che l'opera fu esaminata ed elogiata da un giudice competente e severo come Giuseppe Mazzatinti.

Il secondo impegno storico fu quello “Dell'Arte dei Fabbri nella Terra di Fratta”, pubblicato postumo nel 1901. I familiari ne affidarono la pubblicazione al Vernarecci che corredò 1'opera con una toccante premessa che riportiamo integralmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 31 agosto 1896 sposò Marina, la ragazza di Fossombrone a cui era ormai legato da un affetto profondo. Il matrimonio fu celebrato nella città marchigiana e nello stesso giorno la giovane possidente si trasferì nel palazzo di via Stella di Umbertide, dove Francesco svolgeva le funzioni di sindaco. Poi vennero i figli. La prima fu Zenaide (23 ottobre 1898) e la seconda Angiola Maria (28 novembre 1899). La terza, Francesca, verrà alla luce il 12 dicembre 1900 quando il babbo se ne era andato da cinque mesi.

Improvvisamente, quella sera di venerdì del 20 luglio 1900, un colpo di pistola congelò gli affetti, le aspirazioni e i progetti: Francesco si era ucciso. Il fatto drammatico precedette di nove giorni il regicidio di Monza e ciò bastò per scatenare le supposizioni più strane sul motivo del gesto, frutto di una fantasia da epopea omerica. Gli specchiati costumi e la trasparenza di comportamento di Francesco non offrirono spazi alle illazioni pettegole. Così, i sussurri che circolavano di vicolo in vicolo all'interno del paese e che ogni giorno si colorivano sempre più di tinte vivaci e di curiosi particolari volevano, niente meno, che lo sventurato giovane fosse legato ad un gruppo anarchico perugino all'interno del quale il suo nome sarebbe stato estratto per assassinare Umberto I. Il compito non sarebbe risultato gradito al sorteggiato e da qui la scelta fatale del suicidio.

Evidentemente chi metteva in giro la favola del regicida mancato conosceva molto poco l'anarchia, contraria ad ogni forma di collaborazione istituzionale e ad ogni vincolo, compreso quello del matrimonio, che rappresentava una limitazione alla sacra libertà dell'individuo. La religione dell'anarchia si identificava solo con la metodologia rivoluzionaria. Francesco, invece, era un uomo delle istituzioni, all'interno delle quali aveva svolto funzioni rilevanti come quella di sindaco e di consigliere provinciale; era stato anche insignito del titolo di cavaliere e tutta la sua vita dimostrava il rispetto per le regole e per la prassi della convivenza civile. No, la storia di una presunta appartenenza anarchica decisamente non regge, se non altro perché in pochi giorni non si trova il supplente per uccidere un re, ma ci offre qualche spunto di riflessione.

La signorilità d'animo dell'ultimo Mavarelli; la profonda cultura che gli permetteva di scavare nel passato storico della sua gente scegliendo i due filoni tipici dell'esistenza: la religione (Notizie storiche e Laudi) e il lavoro (L'arte dei fabbri); l'alto prestigio guadagnato nell'esercizio degli incarichi politici, facevano di lui un personaggio diverso da molti suoi simili. La dura vita del collegio basata sulla tolleranza e sul rispetto degli altri, lo studio appassionato e assimilato non appartenevano a parentesi giovanili da gettare nel dimenticatoio, ma erano diventati uno stile di vita. In un periodo difficile e conflittuale in cui al diffondersi del partito socialista e delle leghe contadine molti agrari rispondevano con la cacciata dei coloni dai loro poderi, la sensibilità e le convinzioni dell'agrario Mavarelli erano sicuramente orientate verso atteggiamenti diversi che non collimavano con l'autoritarismo rozzo e provocatorio della legge del più forte praticata da alcuni suoi amici.

D'altra parte, per molti uomini della sinistra estrema, la rivoluzione era dietro l'angolo ed è sintomatica la minaccia di Gaetano Bresci rivolta ai carabinieri che lo traducevano al carcere di Santo Stefano e che lo tacitavano perché faceva troppe domande: “Sono i tipi come voi che non dovrebbero mai parlare! Ma presto la rivoluzione vi spazzerà via tutti”. Secondo l'opinione più accreditata nel mondo degli agrari, a questa gente bisognava rispondere con i metodi più duri, non c'era una via di mezzo.

Mavarelli visse intensamente il disagio politico del suo tempo al bivio tra la reazione e la rivoluzione, che fu del resto il disagio e l'imbarazzo di tutta la cultura europea tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, alla ricerca di nuovi modelli espressivi e di fonti di ispirazione vigorose e che in termini molto generici prese il nome di Decadentismo.

Questo modo diverso di essere e di sentire che albergava nell'animo di Francesco, per la fantasia popolare che ha sempre amato le scorciatoie, gli estremismi e le analogie senza fondamento, fu sufficiente per fare di lui un anarchico, mentre egli era un liberale illuminato che si sarebbe trovato a suo agio qualche anno dopo con la politica adottata dal governo di Giovanni Giolitti. Ma nel 1900 il deputato di Dronero era ancora il politico invischiato, a torto o a ragione, nello scandalo della Banca Romana e non il leader dell'Italietta della "Belle Epoque" (l'Italia vile del vate D'Annunzio) in cui la lira faceva aggio sull'oro e in cui prendevano il via le riforme più urgenti nel campo sociale, tanto che l'astuto Giolitti si vantava “di aver relegato Marx in soffitta”.

La profonda sensibilità di Francesco Mavarelli gli fece avvertire in modo assillante il contrasto tra i tempi e le sue convinzioni, dandogli la sensazione di essere nato in un periodo sbagliato o di essere un uomo fuori dal tempo. Certo che il disagio derivante da questo stato di cose non era un motivo per togliersi la vita, anche se il gesto sarebbe stato coerente per una certa frangia di Decadenti, ma determinò certamente il clima in cui maturò l'angoscia segreta che da tempo travagliava Francesco. L'espressione è usata dal Vernarecci nella prefazione a Dell'Arte dei Fabbri, già ricordata in precedenza, ed è sicuramente uscita dalla bocca dei suoi familiari più intimi, la moglie e la mamma, che intesero escludere con fermezza ogni forma di depressione del loro congiunto.

L'angoscia segreta di una persona appartiene al mistero della vita e della morte che va trattato con il massimo rispetto. Il motivo scatenante del suicidio non lo conosceremo mai, né ci interessa conoscerlo.

Cinque mesi dopo nacque Francesca che, almeno nel nome, fece rivivere il ricordo del padre.

La figura e l'opera di Francesco Mavarelli furono pubblicamente commemorate nella seduta del Consiglio Comunale del 23 settembre 1900. All'unanimità i consiglieri decisero di parare

a lutto per un mese il banco della presidenza che per sei anni era stato occupato dal loro sventurato collega, di intitolare a Francesco Mavarelli la scuola tecnica del paese, di sospendere la seduta in segno di dolore per la grave perdita e di solidarietà verso i familiari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi a F. Mavarelli, insieme a G. Pascoli, è intitolata la Scuola secondaria di primo grado di Umbertide, quella che una volta era la Scuola Media.

 

Nel 1998 il prof. Bruno Porrozzi ha pubblicato

un volume, edito a cura della Pro-Loco Umbertide,

con la copia anastatica delle opere di Francesco Mavarelli.

 

Fonti:

“Umbertide nel secolo XX 1900 – 1946” di Roberto Sciurpa

- Comune di Umbertide, 2006

SAN SAVINO DI FRATTA

 

Monaco presso l’Abbazia di San Salvatore di Monte Acuto

 

 

 

 

a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

San Savino, nato a Fratta, l'attuale Umbertide, ancorché cittadino perugino, in quanto Umbertide è sempre stata terra della Città di Perugia, può essere annoverato tra i Santi della Diocesi poiché Umbertide ha sempre fatto parte della nostra Chiesa. Questo senza nulla togliere alla chiesa Perugina che - a quanto scrive il Lancellotti negli Annali manoscritti di Perugia - lo annovera tra i suoi Santi.

Savino fu dunque monaco presso l'Abbazia di San Salvatore di Monte Corona, un tempo detta di Monte Acuto ed eremita in tale cenobio, morì nell'anno 1190 dopo una vita santa ornata di eroiche virtù che lo fecero considerare già Santo in vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le testimonianze scritte più remote, a parte gli antichi martirologi camaldolesi, erano le iscrizioni commemorative dei suoi prodigi, che si potevano leggere in una cappellina eretta in suo onore nel 1480 sulla strada provinciale verso Perugia, in località Citerna, presso un podere che era appartenuto alla famiglia del Santo, podere che fino ad oggi ancora viene detto di San Savino. Purtroppo, di tale cappella non v'è più traccia e persa è anche una sua immagine a fresco, che affiancava una Madonna in Maestà, poco fuori città, in una località un tempo detta Fonte Santa, ai confini col vocabolo Sant'Ubaldo.

Di Savino resta famoso il miracolo del mantello, infatti, essendo impossibile guadare il Tevere per rientrare in convento assieme ad altri due frati, a causa di una piena del fiume, egli stese il suo mantello - proprio come il profeta Elia o il più noto San Francesco di Paola nello stretto di Messina - e, salitovi sopra a mo' di zattera con i suoi compagni, potè fare ritorno al cenobio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il suo corpo venne sepolto in una cappella eretta sulla strada che dal monastero di San Salvatore conduce al luogo dove, vari secoli appresso, verrà costruito l'Eremo di Monte Corona, nello stesso posto che lo aveva visto isolato in romitaggio per lunghi periodi. Tuttavia, le guerre e le soppressioni, quella napoleonica prima e poi quella del nuovo stato unitario, mandarono in rovina la cappella, che attualmente è inglobata nei muri di una villa, completamente irriconoscibile. Solo il toponimo, San Savino, indica ancora il sito della tomba del Santo. Nulla si sa della fine che possono aver fatto le sue reliquie, quasi sicuramente traslate prima della rovina dell'edificio. I Camaldolesi celebravano la memoria di Savino, col titolo di Santo, il 18 maggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La città di Umbertide conserva un ideale ritratto del Santo nella collezione degli Uomini Illustri della città ed esso è raffigurato anche nella grande pala della Trasfigurazione attribuita al Pomarancio, sita nel tamburo della cupola della Collegiata di Santa Maria della Reggia.

 

 

 

 

Fonti:

“Profili agiografici – I Santi, Beati, Venerabili e

Servi di Dio della Chiesa Eugubina”

di Pietro Vispi – Gubbio, 2008

ALESSANDRO MAGI SPINETTI

 

Benefattore, amico dei poveri

 

a cura di Fabio Mariotti

 

Alessandro Magi Spinetti, figlio di Francesco e Vincenza Mazzaforti, nacque a Fratta nel 1811. Era il discendente di una delle famiglie più importanti della nostra città e dedicò l’intera sua vita a fare opere di bene. Fu uno dei più assidui sostenitori della Congregazione di Carità, “amico di tutti, uomini, animali e piante”. Abitò fino al 1887 in via Spoletini, quando trasferì la sua residenza a Città di Castello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu uno dei massimi sostenitori della costruzione del nuovo ospedale di Umbertide per cui donò nel 1883 1.982 lire e nel 1889 12.848 lire e 55 centesimi per la somma complessiva di 14.830 lire e 55 centesimi, somma enorme per quei tempi. Basti pensare che la Cassa di Risparmio donò 14.200 lire e il Comune di Umbertide solo 431 lire e 82 centesimi in tre versamenti. Queste cifre sono riportate, insieme ai nomi di tutti i benefattori, nella lapide in marmo posta nell’ingresso del vecchio ospedale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alessandro morì il 20 aprile 1890 e ai suoi funerali ci fu una partecipazione corale della città in riconoscenza per le numerose attività benefiche svolte. Il sindaco Francesco Andreani dispose anche la presenza alle esequie della banda musicale cittadina appena ricostituita e diretta dal maestro Massimo Martinelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le sue spoglie riposano nel Cimitero cittadino

appena superato il cancello principale, a

sinistra, in un sarcofago di travertino che

riporta questo epitaffio:

 

“Qui giace Alessandro Magi

Spinetti amico dei poveri

nato il XXIV aprile 1811.

La Congregazione di Carità

riconoscente.

Morto il XX aprile 1890”

 

L’Amministrazione comunale

gli dedicò una via il 27 marzo 1951.

 

Fonti:

- “L’uomo nella toponomastica” di Bruno Porrozzi - Ass. Pro-Loco

Umbertide, 1992

 

- “Due secoli in marcia – Umbertide e la banda” di Amedeo

Massetti – Petruzzi editore – Città di Castello, 2008

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GIULIANO BOVICELLI

 

Stretto collaboratore di Papa Benedetto XIII, scrisse l’originale “Istoria delle Perucche”

e contribuì alla nascita del “Monte Frumentario” per aiutare i poveri di Fratta

 



a cura di Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuliano Bovicelli era nato alla Fratta intorno alla metà del 1600. Abbracciò la carriera ecclesiastica con impegno e convinzione e legò il suo nome alla istituzione e al finanziamento del Monte Frumentario, che entrerà in piena attività nel 1724, quando don Giuliano mori.

Abbellì la chiesa di San Bernardino corredandola di ricche suppellettili e di una bellissima statua del santo.

Nel testamento, con rogito 27 luglio 1724 di Gabrielli Notaro Romano, lasciò tutto il suo patrimonio alla Confraternita di San Bernardino, di cui era fratello, perché offrisse un aiuto concreto ai poveri del paese, proprio attraverso quel Monte Frumentario da lui tenacemente voluto.

 

Le sue doti d'ingegno lo imposero all'attenzione del cardinale Pier Francesco Orsini di Roma, che lo scelse come suo segretario e lo portò a Benevento, quando fu nominato Arcivescovo di quella città “e che ivi si trovasse alla lacrimevole catastrofe del 5 giugno 1688. Un terremoto orribile fra tante devastazioni rovesciò buona parte del Palazzo Arcivescovile. Il Cardinale venne precipitato dal secondo piano al terreno. Dove, cadendo, alcuni legni incrocicchiandosi lo salvarono dalla morte. Un gentiluomo, che stavagli appresso, rimase orrendamente schiacciato; e il nostro Giuliano, non si sa come scampasse la vita! (Antonio Guerrini).

Diventato Papa, con il nome di Benedetto XIII, Orsini trattenne presso la Curia Romana don Giuliano con importanti incarichi, come quello di Priore della Basilica di San Bartolomeo e Protonotario Apostolico.

 

Fu durante il soggiorno a Benevento che Bovicelli scrisse la sua "Istoria delle Perucche", e la prima pubblicazione avvenne nel 1722 in quella città. Si tratta di un lavoro condotto con il massimo impegno e con uno scrupolo rigoroso di ricerca che spazia dalle antichissime testimonianze su questo ornamento, ritrovate presso i popoli orientali, fino ai primi anni del ‘700.

Lo scopo dell'autore non è, però, quello di una disamina tecnica, estetica o sociale della parrucca in genere, ma più semplicemente una riflessione corposa sulla goffaggine delle parrucche che portavano gli ecclesiastici. Fin dalle prime righe del suo lavoro, Bovicelli ne esplicita le finalità: “Istoria delle perucche in cui si fa vedere la loro origine, la forma, l'abuso e l'irregolarità di quelle degli Ecclesiastici”. La vanità doveva aver preso la mano a molti monsignori, se nella prefazione l'autore entra subito in argomento con queste espressioni:

“Trovandosi oggidì tanti Ecclesiastici i quali portano la perucca; che ho grande motivo di credere che siano persuasi, almeno la maggior parte, che questo ornamento straniero sia loro vietato e che non abbia niente in se stesso che convenga alla decenza della loro professione.

Per ritrarli, perciò, dal loro errore ho intrapreso quest'opera per stimolo di alcune persone sodamente pie e veramente zelanti della disciplina della Chiesa; ... fa duopo vedere, che quelle degli Ecclesiastici sono dannate dalle regole della Chiesa; ed avendo mostrato quanto siano irregolari e mostruose quelle de' Monaci, rispondo alle obbiezioni che possono allegare gli Ecclesiastici ed i Monaci che se ne adornano. Finisco col proporre i modi che possono impiegarsi per fermare il corso di questo disordine e toglierlo assolutamente dalla Chiesa”.

La prefazione riassume il contenuto del lavoro che ebbe un notevole successo, tanto che due anni dopo, nel 1724, ne fu stampata un'edizione anche a Milano (1).

La squisita sensibilità dell'autore intuisce che gli argomenti contro l'uso delle parrucche da parte del clero valevano anche per quelle con cui si ornavano i laici e sembra quasi chiedere scusa facendo appello alla tranquillità e alla serenità d'animo dei lettori: “Siccome la maggior parte delle prove delle quali mi vaglio per combattere le prove degli Ecclesiastici, possono giustissimamente applicarsi a quelle de' Laici, giudicheran facilmente che non è guari più permesso a Laici che agli Ecclesiastici di portare la perucca. Comunque siasi, prego Dio con la lingua di Tertulliano che la pace e la grazia di Gesù nostro Signore cada in abbondanza sopra le persone che leggeranno questa Istoria con tranquillità di spirito e che Preferiranno la verità alla usanza: Haec cum bona pace legentibus, veritatem. consuetudini praeponentibus, pax et gratia a Domino nostro Iesu redundet” (La pace e la grazia di Dio ricadano su coloro che leggeranno quest righe con serenità e anteporranno la verità all’usanza).

Nel tema specifico, don Giuliano ebbe presente il senso del moderno che contribuì ad anticipare, anche se l'approdo a questa sponda non gli fu offerto da una visione progressista, tipica dell'Illuminismo, ma dal ridicolo dell'anacronistica e continua carnevalata che le maschere esaltavano.

Dopo il 1863 gli fu dedicata una via nel centro storico di Umbertide, quella che ancora oggi viene chiamata “Il Bocaiolo”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

1) Due copie del libro sono reperibili alla Biblioteca Vaticana. Una, quella edita a Benevento, in Raccolta Generale di Storia - Vol. 6360; l'altra, quella edita a Milano, in CICOGNARA III - pos. 1602.

 

Fonti:

- “Umbertide nel Secolo XVIII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa - Comune di Umbertide, 2003

- “Storia della Terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini, portata a termine da Genesio Perugini – Tipografia Tiberina, Umbertide 1883 (Copia anastatica a cura del “Gruppo editoriale locale” di Digital Editor srl – Umbertide – 2009).

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Giuliano Bovicelli
Cesare Bartolelli - Cristoforo Petrogalli
I Cibo di Fratta
Luigi Vibi
LUIGI VIBI
Liberale di Fratta caduto nel 1849 in difesa della “Repubblica Romana”

 

 

 

 

a cura di

Fabio Mariotti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luigi Vibi (1), figlio del notaio Lorenzo, nacque alla Fratta nel 1807. Frequentò il Liceo a Perugia dove conobbe Luigi Bonazzi e l'attore Gustavo Modena con i quali mantenne una buona amicizia. Finito il liceo si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e si laureò in legge. Era cagionevole di salute, ma dotato di brillante intelligenza che attirò l'attenzione di un vecchio nobile della Fratta, Costantino Magi Spinetti, di fede liberale e iscritto alla Massoneria.

Il vecchio massone e il giovane laureato trascorrevano molte ore insieme discutendo del liberalismo e della Rivoluzione Francese della quale, in quel tempo, si davano versioni partigiane sia dai libri sia dai precettori ecclesiastici.

I moti del 1831 trovarono immediata rispondenza in Perugia, insorta il 14 febbraio di quell'anno. La città, a mezzo del proprio Comitato Provvisorio di Governo (2), dichiarò decaduto il Governo Pontificio con grande stupore del Delegato Apostolico Mons. Ferri (3).

I moti trovarono il ventiquattrenne Luigi Vibi già politicamente schierato e il Comitato Provvisorio che si era costituito a Perugia doveva conoscerlo bene se appena due giorni dopo l'insediamento, il 16 febbraio, affidò a lui e a Petronio Reggiani (4) l'incarico di recarsi a Città di Castello (5) per istituire anche in quella città un Comitato Provvisorio di Governo. I due figli di Fratta si misero subito al lavoro riunendo il Consiglio Comunale di quella Città il 17 febbraio per procedere all'insediamento del Comitato Provvisorio..

La fiducia che i liberali perugini nutrivano nel giovane Vibi testimonia il suo affidamento politico e la validità della scuola del vecchio maestro e massone.

Gli slanci generosi dei nostri patrioti durarono poco perché furono troncati dallo sfavorevole andamento delle vicende politiche. Le bandiere tricolori issate dovunque, una anche sul tetto della casa di Vibi (6), furono ritirate presto in attesa di tempi migliori.

La repressione che ne seguì costrinse molti a cercarsi un riparo sicuro. Lorenzo Vibi, ad esempio, nipote di Luigi si rifugiò a Mercatale, in Toscana nella terra del Granducato. Lo stavano attivamente ricercando per arrestarlo perché, proprio in quei giorni, aveva spinto giù per le scale un prete procurandogli la rottura di una gamba. Il collegamento con i fuggiaschi era tenuto da un certo Fiordo Bettoni che percorreva quasi ogni giorno a piedi i circa 25 chilometri di distanza per portare loro cibo, notizie e tutto ciò di cui avessero bisogno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nei primi mesi del 1849 Luigi Vibi svolse tutta l'attività di cui era capace a favore della Repubblica Romana e fu uno di coloro che riorganizzarono la Guardia Civica alla Fratta. Riuscì a raccogliere fondi volontari fra i cittadini per migliorare le condizioni della compagnia di cui era diventato capitano comandante. È datata 20 aprile 1849 una sua lettera di sollecito dell'impegno economico sottoscritto a favore della Guardia Civica o Cittadina.

“... Trovomi pertanto necessitato di invitarvi, o cittadino, al pagamento già scaduto di quanto da voi sottoscritto, a cui vi siete obbligato nel citato programma, che verserete entro otto giorni dalla presente data in mano di questo esattore comunale incaricato di tale esigenza; prevenendovi che in caso d'inadempimento mi vedrò, mio malgrado, astretto a prevalermi dei rimedi legali".

Segue l'elenco delle persone cui tale lettera circolare venne diretta e la lista vede in prima fila Sebastiano Vibi con scudi 10, seguito da Gaetano Migliorati con scudi 6 e dal vecchio amico Costantino Spinetti.

La lettera testimonia che il 20 aprile Vibi era alla Fratta, ma ancora per poco. Il 30 aprile i volontari romani sostennero il primo vittorioso combattimento contro i francesi del generale Oudinot al Gianicolo e la notizia dell'assedio di Roma da parte francese lo spinse ad andare a combattere per la sua difesa accanto a Garibaldi (7). Partì il 5 maggio al comando di altri volontari raggruppati nella “Legione dell'Umbria”.

Le notizie di cui disponiamo ci dicono che fu impiegato nell'estremo settore Sud dello schieramento garibaldino, a Porta Portese (8), dove fu gravemente ferito il 18 giugno.

Il 21 giugno, giorno di San Luigi, suo onomastico, cessava di vivere per le ferite riportate, all'ospedale dei Pellegrini. Aveva 42 anni. I suoi resti riposano nell'Ossario Garibaldino eretto sul Gianicolo e la lapide che lo ricorda è ben visibile perché si trova collocata immediatamente sopra a quella di Goffredo Mameli.

Le esequie a Luigi Vibi (9) si svolsero in Roma, nella chiesa di S. Andrea delle Fratte che per l'occasione fu pavesata da molte iscrizioni inneggianti alle sue virtù e al suo valore. Una di queste, posta proprio all'ingresso del tempio, diceva:

 

“Disprezzatore magnanimo delle domestiche dovizie

e degli onori di che fu insignito nella cittadina legione

rarissimo incurante

in tempi onde i molti stoltamente ne agognano

cogliendo a scherno sua vilgente età

e la corporea malsania

il capitano Luigi Vibi da Fratta

di Perugia

quarantaduenne

imbrandì impavido 1'arme dell'ultimo soldato

il 5 maggio 1849

e in seno alla sacra città

sulla breccia e le barricate tra il fulminar de' proiettili

con ardente valore combattendo

ahi patrio amore!

la notte del 21 giugno finì la vita sì preziosa

trafitto da igneo piombo

che alla terra natale, ai congiunti, agli amici, ai beneficiati

più vivido raggio di sole per sempre ottenebrò

ma che aggiunse insaputo alla beatitudine dei cieli

un nuovo figlio

cui l'onomastico proteggitor santo

già da lunge protendea la paterna destra affettuosa”.

 

Le vicende di Luigi Vibi ebbero un seguito nel 1871. Filippo Natali, un umbertidese impiegato al Comune di Magione, scrisse al Sindaco chiedendo che le ceneri del giovane repubblicano fossero riportate nel cimitero di Umbertide, da quello di S. Spirito, detto anche dei “Centocinque”, dove si trovavano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In seno al Consiglio comunale si aprì una discussione interminabile che rievocò altri umbertidesi morti in analoghe circostanze, come Giuseppe Mastriforti a Condino nel 1866 e Giovan Battista Igi a Mentana nel 1867. La discussione continuò per qualche mese. Intanto a Filippo Natali fu spedita una lettera gentile che esprimeva “sensi di gratitudine per la patriottica ispirazione” e le ceneri rimasero dov'erano.

II frutto della lunga discussione fu una pietra, collocata nel nostro cimitero, con la seguente iscrizione:

“Memoria

a

Luigi Vibi di Umbertide

onorato cittadino

di provata fede politica

che combattendo per l'indipendenza d'Italia

cadeva in Roma nel XXI giugno MDCCCXLIX

Il Patrio Municipio".

 

La lapide fa tutto il possibile per rendere anonima, scialba e neutra la figura di Luigi Vibi. Sarebbe stato meglio tacere.

 

Negli anni Cinquanta al ricordo del nostro eroico concittadino l’amministrazione comunale ha intitolato “Largo L. Vibi” lo spazio dove esisteva la sua casa prima che fosse distrutta dal bombardamento del 25 Aprile 1944.

Note:

1. Le notizie sono state gentilmente fornite dal Signor Giancarlo Vibi di Umbertide, ora residente a Perugia.

2. Era formato da Antonio Monadi, Antonio Canci, Giuseppe Rosa, Avv. Luigi Batoli, Luigi Menicucci, Tiberio Borgia.

3. Questa versione dello “stupore” non concorda con quella sostenuta dallo storico Luigi Bonazzi secondo il quale ci fu un tacito consenso da parte di Mons. Ferri.

4. Anche Petronio Reggiani era della Fratta. Nell'occasione egli ebbe pure l'incarico di istituire il Governo Provvisorio a San Giustino, cosa che il Reggiani fece nominando Commissario di quel luogo il tifernate Dott. Pietro Dini (Giuseppe Amicizia, Storia di Città di Castello nel secolo XIX- Edit. S. Lapi - anno 1902).

La casata Reggiani dette al Risorgimento Italiano validi patrioti fra i quali Petronio, di cui si è detto. Ci fu anche Aristide che partecipò alle guerre risorgimentali e Francesco di Gaetano che prese parte all'insurrezione perugina dei 1859 e fu poi perseguitato fino al settembre del 1860, cioè fino all'arrivo delle truppe italiane (Albo Nazionale Famiglie nobili dello Stato Italiano elencate sotto il profilo storico - Ass. Historiae Fides, Milano - Edit. Grafica di S. Angelo, di Cesano Boscone - Anno 1974, in biblioteca del Dott. Angelo Zeno Reggiani).

5. G. Amicizia, Op. Cit.

6. La casa a ridosso del ponte sul Tevere (ora largo Vibi) fu distrutta dal bombardamento del 25 aprile del 1944.

7. Garibaldi pernottò ad Umbertide presso la famiglia Vibi. Fu messo a sua disposizione un grande letto di noce con le colonne. Disse di sentirsi tranquillo perché in casa di amici fidati e partì lasciando come ringraziamento un cannocchiale rivestito di mogano e ottone, ora in possesso del signor Giancarlo Vibi (pronipote di Luigi) che ci ha reso questa testimonianza, senza poter precisare la data. Ricostruendo la serie degli avvenimenti e rileggendo attentamente il libro delle sue Memorie risulta che il 15 novembre 1848, dopo gli infausti eventi di Custoza e Novara, Garibaldi si trovava a Ravenna con un manipolo di volontari, in attesa di imbarcarsi per correre in aiuto di Venezia. Ma proprio in quel giorno avvenne l'assassinio di Pellegrino Rossi e la rivolta nello Stato Pontificio. I piani mutarono. Garibaldi si diresse a Cesena, dove lasciò i suoi volontari, e si recò a Roma “per prendere contatti con il Ministro della Guerra affinché mettesse fine, una volta per tutte, alla nostra esistenza vagabonda” (dalle Memorie di Garibaldi). Probabilmente in occasione di questo viaggio a Roma, tra la fine di novembre e i primi di dicembre 1848, Garibaldi passò per l'alta valle del Tevere e si fermò in casa Vibi. Allo stesso periodo, infatti, risalgono anche altre presenze dell'eroe a Foligno e a Cascia.

8. Porta Portese, o Portuense, in quanto è a lato del porto fluviale della vecchia Roma (Ripa Grande). Si trova sulla riva destra del Tevere.

9. Sulla terrazza del Pincio, a poche decine di metri dalla balaustra, si può osservare anche oggi un busto in marmo di Luigi Vibi.

 

Fonti:

“Umbertide nel Secolo XIX” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2001

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I CIBO DI FRATTA

 

A Fratta nacquero diversi “personaggi” della nobile famiglia Cibo: Andrea, medico e docente presso l’Università di Perugia; l’avvocato Alessandro, figlio di Andrea e il giureconsulto Girolamo, profondo ed insigne letterato.













 

 

 

 

 

 

 

 

Andrea Cibo

Andrea Cibo nacque nel 1493. Studiò medicina e, giovanissimo ancora, insegnò con molta lode nell'università di Perugia. Papa, Clemente VII, a cui era pervenuta la fama del grande sapere di Andrea, lo chiamò in Roma e lo nominò suo medico, con grosso stipendio e con entrata annua per se e per suoi eredi.

Fu molto stimato anche dal sommo pontefice Paolo III Farnese, il quale nel viaggio che fece a Nizza, lo volle presso di se, e nell'abboccamento del papa coll'imperatore Carlo V e con Francesco I re di Francia dove fu siglata la tregua di dieci anni , egli fu il solo invitato ad assistere al convito fatto a quei grandi potentati. Fu compagno dello stesso Papa anche nell’altro viaggio solenne di Busseto, come risulta da una lettera scritta da Carlo Gualterozzi al Bembo il 18 giugno 1543. lettera presente in un Codice della Biblioteca Barberini. In un’altra lettera dell’ottobre 1553 l’Aretino chiama Andrea Cibo “Sicura sanità degli infermi”.

Era tanto però l’amore che Andrea nutriva per la sua Fratta che nel 1537 fece costruire a sue spese un albergo per la comodità di tutti coloro che transitavano per recarsi a Perugia e in Toscana.

 

 

 

Dopo aver prestato i suoi servigi di medico per altri due Pontefici, Giulio III e Marcello II, nel 1557 tornò a Perugia dove si fermò per cinque anni. Nel 1562 fu richiamato a Roma da Papa Pio IV che lonominò protomedico generale del collegio sanitario in Roma.

Dopo la morte di Pio IV si stabilì a Perugia dove visse onoratissimo fino alla sua morte, avvenuta ai 17 maggio dell'anno 1576, nella grave età di anni ottantatré. Furono grandiose le onoranze funebri a lui dedicata da ogni ordine cittadino ed Orazio Cardaneti da Montone, illustre Retore del Secolo XVI ne lesse una forbitissima e dotta orazione.

Dal Guerrini sappiamo inoltre che “Fu sepolto nella Chiesa Cattedrale di S. Lorenzo (N,d.r. di Perugia), ove tre anni avanti erasi da se medesimo posta questa modesta memoria:

 

1574

ANDREA CIBO

A. A. E. 80

POSUIT

 

Lasciò vedova una tale Lucrezia, da cui ebbe diversi figli, fra i quali Lavinia, che nell’anno 1579

andette sposa ad Alessandro Degli Oddi. Altro di lui figlio fu Alessandro, che riscosse grande

stima nelle legali discipline. Questi dimorava sovente in Fratta, e nel 1610 lungamente vi si

trattenne con Adriana Amerigi gentil donna Perugina di Lui consorte per ragioni di salute.

La povera Adriana nel 21 Settembre dello stesso anno dovette quivi disgraziatamente

soccombere; e fu sepolta nella Chiesa di San Francesco, ove tuttora a destra dell’ingresso

principale leggesi la funeraria iscrizione, che il dolente marito vi pose”.

Ad Andrea fu dedicata, dopo il 1863, una delle vie più importanti del centro storico, già via Diritta o Reaale, ed oggi considerata un po’ il Corso della nostra città.

 

 

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Mauro Cibo

Mauro Cibo, di cui non si conosce la data di nascita, come ricorda il Guerrini nella sua Storia della terra di Fratta, “fu un altro rampollo della nobile ed illustre famiglia Cibo. Fin dalla sua più tenera età egli dimostrava una dolcezza di carattere, una illibatezza di costumi, un amore indefesso alle cose divine che finalmente, dopo compiuta con immenso profitto la carriera degli studi, decise di ritirarsi dalle lusinghe del mondo.

Nel 1570 fu ricevuto novizio fra gli eremiti Camaldolesi nel Sacro Eremo di Monte Corona.

Uomo di vita esemplarissima, austera e di dottrina profonda, si acquistò ben presto la stima e la venerazione di tutti i suoi confratelli, onde per quattro volte, dal generale Capitolo, meritò di essere innalzato al supremo gradi di Maggiore di tutto l’Ordine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si adoperò sempre per l’incremento della Congregazione e ne ottenne da diversi pontefici, Paolo V – Clemente VIII – Leone XI, molti privilegi e vantaggi.

Morì in Monte Corona nell’anno 1604.

Cesare Crispolti nella sua “Perugia Augusta”, Lancellotti, Jacobilli, tutti registrano le lodi dell’Eremita venerando!”

 

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Pompeo Cibo

Non si conosce la data di nascita di Pompeo Cibo, altro personaggio illustre di questa famiglia di Fratta. Secondo Antonio Guerrini “fu uomo dotato di nobiltà di cuore, di somma saviezza e dottrina, maestro ed esempio di tutte cittadine virtù.

Fu decorato per non bugiardi meriti della Croce di Santo Stefano (1); quindi onorevolmente aggregato alla nobiltà Perugina.

Visse una lunga vita da tutti stimato ed amato e nel 26 febbraio 1641 passò all’eterna quiete da tutti sinceramente compianto”.

 

1. L’Ordine di Santo Stefano fu istituito il 15 marzo 1562 da Cosimo I di Toscana, che ne fu il primo gran maestro. Fu intitolato a Santo Stefano I papa e martire, perché nella sua ricorrenza (2 agosto) le truppe medicee avevano riportato due vittorie importanti: quella di Scannagallo (1554) e quella di Montemurlo (1559). Emblema dell'Ordine fu la croce rossa in campo bianco. Fu soppresso dai francesi nel 1809, ricostituito nel 1817 e definitivamente abolito dal Governo provvisorio del 1859. (La foto del simbolo dell’Ordine è tratta dal sito “Santo Stefano Papa e Martire e i suoi Cavalieri).

 

Le foto sono dell’Archivio fotografico del Comune di Umbertide e di Fabio Mariotti

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

- “Umbertide – L’uomo nella toponomastica” di Bruno Porrozzi – Ass. Pro Loco Umbertide - 1992

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CESARE BARTOLELLI - CRISTOFORO PETROGALLI

 

Due personaggi di illustri famiglie dell’antica Fratta della prima metà del 1600.

Entrambi svolsero ruoli importanti, in settori diversi, alle dipendenze

di alcuni dei protagonisti della vita politica ed ecclesiastica del tempo

 

Cesare Bartolelli

Originario della Fratta da una distinta famiglia, da giovane attese con grande amore allo studio delle leggi civili e canoniche nell'università di Perugia, e in ambedue conseguì la laurea dottorale.

Fu da prima in Città di Castello in qualità di giudice dove esercitò questa carica con tale prudenza e con tale rettitudine, da riscuotere il plauso e l' ammirazione dei migliori cittadini.

Partito da Città di Castello, andò a Roma dove per il suo sapere e per i suoi meriti singolari fu nominato Auditore presso il Cardinale Pietro Aldobrandini, poi Soprintendente Generale di tutti i possedimenti di questa casa, riuscendo ben presto a raggiungere i massimi onori, fino a quello di governatore di Roma.

Papa Clemente VIII, che aveva altissima stima nei suoi confronti, lo inviò due volte come ambasciatore straordinario a Praga per trattare importanti negoziati con l' imperatore d' Austria.

Nel 1602, come ricompensa per la sua dedizione, fu nominato vescovo di Forlì. Resse quella chiesa per trentadue anni, tutti spesi per il bene della popolazione affidata alle sue cure pastorali. Trascorse una vita di irreprensibili costumi, tutta volta alla carità, da uomo veramente apostolico.

 

 

 

 

 

Fondò a Perugia la Cappella del Crocifisso in San Salvatore e a Fratta fece costruire in una elegante forma architettonica la Cappella di San Rocco nella nostra chiesa di S. Francesco, con una della statua del Santo. Arricchendola anche di dogature e pregevoli dipinti.

Sull'arco della Cappella, sormontato dallo stemma gentilizio, si legge ancora il suo nome, chiara dimostrazione dell'affetto che egli ebbe sempre verso questa sua terra natale.

Morì a Forlì il 7 gennaio 1634.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

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CRISTOFORO PETROGALLI

Cristoforo Petrogalli fu educato alle dure fatiche del campo dall'illustre suo zio Pietro Giacomo Petrogalli, col quale si trovò a partecipare in molti fatti d'armi ed alla presa della fortezza di Bona in Barberia dove diede prova del suo valore e del suo ardimento salvando l'insegna della compagnia del capitano perugino Carlo della Penna che, per la morte dell'alfiere, sarebbe caduta nelle mani del nemico.

Per i suoi molti meriti, Cristoforo fu assai ben accetto alla corte di Toscana. Francesco de' Medici, prima di morire, l'onorò della sua spada e del suo giaco o maglia di ferro alla foggia di un corpetto, che i guerrieri indossavano nelle battaglie. Gli assegnò inoltre uno stipendio di 19 piastre al mese ed un nobile appartamento.

Il 6 ottobre del 1637 fu nominato dal cardinale Carlo de' Medici capitano delle lance spezzate (N.d.r. Nel secolo XVI e XVII si chiamavano lance spezzate i soldati scelti, sia di fanteria sia di cavalleria, che coadiuvavano i caporali e talvolta i sergenti nei loro vari doveri.

Lancia spezzata era anche il nome di varie milizie al servizio di sovrani o personaggi di alto rango).

Il granduca Cosimo II, che conosceva assai bene la valentia militare di questo nostro capitano, il 21 settembre 1642 gli affidò il comando di una compagnia di 200 fanti e nel seguente anno, il 23 novembre, lo promosse al grado di sergente maggiore nel terzo del maestro di campo conte Angelo Maria Stufa.

Finalmente per i suoi meriti singolari, dalla gentile Firenze ebbe il grande onore di essere iscritto, il 10 gennaio del 1644, nell'albo dei suoi concittadini.

Morì in Firenze nel 1648.

 

- Le foto dei personaggi di Fratta fanno parte della Galleria dei quadri dei personaggi storici del Comune di Umbertide

- Le foto della chiesa di San Francesco sono di Fabio Mariotti

- Le altre foto sono tratte da “Wikimedia Commons - Wikipedia”

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata da Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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Giovanni Mauri
Filippo e Giovan Battista Fracassini
Orazio Mancini
Giovan Battista Spoletini
Fabrizio Stella
Giovanni Tommaso Pao(u)lucci
GIOVANNI TOMMASO PAO(U)LUCCI
Grande letterato di Fratta al servizio del Papato

 

 

 

 

 

 

 

a cura di Fabio Mariotti

Antonio Guerrini, nella sua opera “Storia della terra di Fratta ora Umbertide”, ci dice che "Nel 1542 nacque in Fratta Gio. Tommaso Paolucci. Si avanzò tanto nello studio delle Belle Lettere, che fu successivamente Segretario dei Cardinali Fulvio della Corgna, Ottavio Acquaviva e Gio. Vincenti Gonzaga. Fu versatissimo eziandio (anche) nelle Matematiche, nelle Storie, nelle Lettere Greche e Latine. Datosi infine allo studio delle Leggi Canoniche e Civili, fece in esse mirabile profitto; ed in Roma nel 1585 venne redimito (incoronato) di Laurea Dottorale nell'uno e nell'altro diritto. Fu precettore di lettere greche a monsignor Matteo Barberini, che poi fu pontefice col nome di Urbano VIII. Continuò sempre nella stima e nell'amore dei suddetti porporati in modo che il Gonzaga oltre a lauta pensione volle innalzarlo a dignità, nominandolo con patente spedita a dì 6 febbraio 1580 canonico della Chiesa di San Gregorio in Velabro. In seguito gli venne conferita l'Arcipretura di Santa Maria in Cosmedin, altrimenti detta della Scuola Greca, con patente spedita dall'istesso Cardinale a dì 8 giugno 1585 sotto il pontificato di Sisto V, quell' acciaccoso e timido vecchietto, che appena proclamato Papa gittò il bastone e drizzò ardimentoso la curva testa!

Gio. Tommaso scrisse per dare alla

stampa diverse opere,

“Cinque Volumi di Lettere scelte”

dirette a diversi Regnanti, Cardinali,

Principi, Prelati e Cavalieri distinti;

un “Trattato di cose pubbliche e

politiche”; un “Sommario di

avvertimenti politici”; vari commenti

sugli “Annali e le Istorie del Principe

degli Scrittori politici, Cornelio Tacito”,

che rimasero inediti in mano degli eredi.

Giunse tant'oltre il suo merito, che

Clemente VIII lo destinò suo segretario

delle lettere latine, al quale onorevole

officio disgraziatamente non giunse

perché sopraffatto precocemente dalla

 morte nel giorno I dicembre 1599,

anno cinquantasettesimo dell'età sua.

Fu pubblica voce che per cortigiana invidia venisse avvelenato in S. Maria Maggiore nel celebrare il S. Sagrificio. Il di lui corpo fu sepolto

in Roma nella Chiesa di S. Maria in Cosmedin, come risulta dal Libro dei Morti di detta Parrocchia p. 25, anno suddetto”.

 

L’amministrazione comunale gli dedicò la via centrale del quartiere Fontanelle il 18 dicembre 1960.

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata da Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide, 1883

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FABRIZIO STELLA
 

Illustre giurista di Fratta tra la seconda metà del 1500 e la prima metà del 1600

 











 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nacque a Fratta nel 1565 distinguendosi nelle discipline legali. Per le sue indubbie capacità fu chiamato a ricoprire incarichi amministrativi in diverse importanti città disimpegnandosi spesso in "estere ambascerie". Il Guerrini, nella sua “Storia della terra di Fratta”, racconta che l'avvocato Fabrizio Stella fu particolarmente caro a molti eminenti personaggi, fra i quali il cardinale Bevilacqua di Ferrara (fu legato apostolico dell’Umbria e di Perugia, che lo elesse protettore della città e cittadino onorario, dal 1600 al 1606 – N.d.r.), come risulta da molte lettere famigliari a lui scritte conservate dai suoi eredi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il re di Portogallo Giovanni IV, fondatore della dinastia di Braganza, lo decorò della Croce di San Giacomo di Lusitania conferendogli molti privilegi, come emerge dal relativo diploma. Ritornato in patria all’età di 79 anni pagò il debito supremo alla natura il 15 gennaio 1644 e fu sepolto nella Chiesa dei Padri Conventuali di questa Terra lasciando ai suoi discendenti eredità di onori e di ricchezze, ma la sua famiglia rimase poco dopo estinta con la morte delle tre donne maritate Paolucci, Mazzaforti e Savelli.

 

 

 

Nel 1880 l’amministrazione comunale dedicò a Fabrizio Stella quella che un tempo era via dell’orologio.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

- “Umbertide – L’uomo nella toponomastica” di Bruno Porrozzi – Ass. Pro Loco Umbertide - 1992

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GIOVAN BATTISTA SPOLETINI

Illustre giurista, governatore di molte città dello Stato Pontificio,
celebrato in Fratta per i suoi tanti meriti come Padre della Patria












 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giovan Battista Spoletini, uomo di grande ingegno e di somma probità, nacque a Fratta nel 1557. Si laureò nelle discipline giuridiche per le quali era profondamente versato; per questo intraprese la carriera governativa e fu nominato dalla S. Consulta Governatore dell'antichissima Città di Sutri nell'anno 1592, di Piperno nel 1593, di Napi nel 1595; quindi di Acquapendente, di Veroli ed altre.

Ritornato in Patria, dall’alto della sua sapienza e dottrina, si adoperò costantemente per il suo bene, specialmente nella circostanza della rovina delle due arcate del ponte sul Tevere accaduta nell'anno 1610. Versavano gli abitanti di Fratta nella più fiera costernazione in quanto il loro commercio languiva per la difficoltà del transito verso Città di Castello e la Toscana e perché con le loro limitate risorse economiche non vedevano speranza alcuna di poterlo riattivare.

Fu lo Spoletini che, acceso di patrio amore, si recò più volte a Roma, colla protezione dei prelati distinti, suoi antichi conoscenti, esponendo eloquentemente la difficile situazione in cui si trovava la sua Patria, ottenendo da Paolo V Borghese, Papa sagace ed intraprendente, che la Congregazione del Buon Governo provvedesse alla riedificazione del nostro ponte, dal momento che, per buona ventura, questo Papa conosceva bene la Terra di Fratta, Perugia, Città di Castello, Montone, Citerna. E siccome nel riparto fatto da monsignor Marini commissario apostolico in Perugia, la Fratta si trovava tassata gravosamente di un quarto della spesa totale, il nostro Spoletini si recò di nuovo a Roma e dalla Congregazione del Buon Governo ottenne un diverso riparto, cioè, che divisa la spesa totale in dodici once, nove fossero a carico di Perugia e del suo contado, due a carico di Città di Castello, e l'altra parte per due terzi alla Fratta e per un terzo a Montone. Non può immaginarsi quante opposizioni venissero fatte dai suddetti Comuni, e specialmente da parte di quello di Città di Castello, fino a progettare la costruzione di un ponte di legno; ma dalla operosità, dalla saviezza e dall'influenza dello Spoletini tutto venne superato e nel 1614 la costruzione del ponte a due sole arcate venne appaltata per una spesa di scudi settemila. Era alquanto avanzata la lavorazione che sopraggiunse un'alluvione terribile che devastò disgraziatamente quanto era stato eseguito! Allora insorsero nuove e più fiere opposizioni e molti ricorsi vennero fatti a carico degli appaltatori, nonché dello Spoletini stesso che era stato nominato Sopra-intendente dell'opera. L'invidia e la malvagità si unirono barbaramente nel calunniare lo Spoletini come partecipe alla frode di cattive lavorazioni talmente che, nel giugno 1615, venne emanato un ordine d'arresto per lui e per gli appaltatori. Lo Spoletini venne trattato con tutti i riguardi dovuti alla sua condizione e fu ristretto in una camera del Palazzo Priorale di Perugia con l'esibizione di una cauzione di scudi mille. Alla fine la sua innocenza e la sua onestà venne riconosciutae fu quindi onorevolmente reintegrato non solo nella sua primitiva qualifica di Sopra-stante alla fabbrica, ma per i danni sofferti gli venne decretato un indennizzo di 100 scudi da pagarsi metà dal Comune di Fratta, metà dagli altri Comuni soggetti al Consorzio, indennizzo che lo Spoletini generosamente non accettò. Venne quindi rinnovato il contratto del ponte a tre arcate per la somma di scudi 6.500, e nel 1619, perfettamente compiuto, fu reso transitabile.

Nonostante la persecuzione ingiustamente sofferta, lo Spoletini continuò ad essere sempre il protettore e il benefattore di questa Terra, a tal punto che gli fu assegnato il nome glorioso di Pater Patriae. La sua abitazione era in via del Piano.

Nel 1634 Giovan Battista Spoletini cessò di vivere all'età di 77 anni. Tutti generalmente lo piansero, poiché raffreddate sopra la tomba le inimicizie e le invidie, ivi si giudicano senza menzogna gli uomini quali realmente furono. Con grande solennità venne sepolto nella nostra Chiesa di San Francesco, ove alla destra del Presbiterio è posta una lapide sepolcrale a lui dedicata dove si legge tuttora la seguente iscrizione che ricorda i meriti e le importanti attività svolte nel corso della sua vita: D.O.M. "Jo Baptista de Spoletinis LVD. ac Civi Perusino de Fracta, qui sub Clemente VIII Pont. Max Civitates Sutrína, Nepesina, Anxuris, et Monti Falisci, Terram Priverni, et Aquepend. gubernavit et demum in Patriam neglessus, Pontem collapsum summo animi, corporisque labore, summaque vigilantia, oppugnatis contrariis in pristinum restit. curavit Deoq. Jovi obtinuit. Jo Maria filius ad memoriam laborum sui Patris iam septugenarii posuit Ann. Dm. 1637."

 

Dopo il 1863 gli è stata dedicata la via dove aveva l’abitazione, l’antica via del piano che allora era la via principale per andare a Perugia.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

- “Umbertide – L’uomo nella toponomastica” di Bruno Porrozzi – Ass. Pro Loco Umbertide – 1992

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ORAZIO MANCINI

Prelato e diplomatico di Fratta della seconda metà del Cinquecento

 

L'Abate Mancini venne alla luce a Fratta da onesti e facoltosi genitori nell'anno 1546. Fece da giovinetto un corso completo di studi all'Università di Bologna e quindi si recò a Roma dove, avendo dato prova del suo talento non comune, rimase per cinquant’anni occupato in qualità di Segretario presso gli Eminentissimi Caraffa, S. Severino e Doria, e con questo importante ufficio ebbe la possibilità di assistere a ben sette Conclavi.

Ebbe alle mani importantissimi negozi affidatigli da Filippo III Re di Spagna, dal quale venne remunerato con una pensione annua di mille scudi mille sul ricco Arcivescovato di Taranto e quello di Siviglia, oltre a seimila scudi castigliani che il Duca di Lerma, supremo ministro, gli regalò a nome del Re. Gli venne nello stesso tempo offerto il Vescovato di Cefalù e di Girgenti e di altre grandi città di Sicilia, cui il nostro Mancini modestamente rinunciò.

 

 

Fu anche molto bene accetto a vari sommi pontefici e principi d'Italia, specialmente a Ferdinando II granduca di Toscana e al duca Carlo di Savoia, del quale fu richiesto per gentiluomo e commensale del cardinale Maurizio, suo figlio.

 

 

 

Ad età avanzata e stanco per le tante fatiche sostenute, si ritirò in Perugia dove, insieme a padre Sozio Sozi, fondò la Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri (1), iniziandovi la costruzione della Casa e del magnifico tempio detto Chiesa Nuova o Chiesa di San Filippo Neri, massimo esempio del barocco a Perugia, costruita tra il 1627 e il 1665 sotto la direzione dell’architetto romano Paolo Maruscelli, per la cui realizzazione impiegò grosse rendite di abbazie, pensioni e tutti i suoi beni patrimoniali.

Morì a Perugia nell'anno 1629, all’età di 86 anni. In un quadro che si trovava nella Chiesa di San Giovanni di questa Terra, rappresentante il nome di Gesù,si leggeva in fondo tale scritta: “Oratius Mancinus fieri fecit, et donavit Anno 1598.”

 

Il suo nome sostituì l'antica denominazione

di via Porta Nuova dopo il 1863.

Note:

1. La Congregazione dell'oratorio ebbe origine dalla

comunità di sacerdoti secolari raccoltasi a Roma

attorno a San Filippo Neri, dapprima presso la chiesa

di San Girolamo della Carità (1551) e poi presso quella

di San Giovanni dei Fiorentini (1564); fu eretta

canonicamente nel 1575 da papa Gregorio XIII,

che donò agli oratoriani la chiesa di Santa Maria in

Vallicella, e le sue costituzioni vennero approvate da

papa Paolo V nel 1612.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

- “Umbertide – L’uomo nella toponomastica” di Bruno Porrozzi – Ass. Pro Loco Umbertide – 1992

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La famiglia Spunta di Fratta
 
LA FAMIGLIA SPUNTA DI FRATTA

 

La cospicua famiglia degli Spunta ebbe molti personaggi che, tra il 1500 e la metà del 1600, dettero lustro e ornamento alla nostra città sia per destrezza nelle armi, sia nelle materie giuridiche e letterarie.  Le più remote notizie che sono arrivate fino a noi ci ricordano Marino, notaio; Paolo, nipote di Marino, ufficiale dello Stato Pontificio; Francesco, figlio di Paolo, anche lui ufficiale dello Stato Pontificio; Alfonso, figlio di Paolo, letterato.

 

Marino Spunta

Figlio di Domenico Spunta, nacque a Fratta nel 1480. Fu molto addottrinato specialmente nelle discipline legali. Svolse attività di pubblico notaio ed i suoi rogiti sono conservati nell’Archivio comunale storico della nostra città in ventinove voluminosi Protocolli che vanno dal 1507 al 1545.

« Pochi sono gli Offici - dice un importante Giureconsulto - che richiedono un sì gran corredo di probità, di cognizioni e di spirito conciliante quanto quello del Notariato».

Trentotto anni di onorato esercizio in una carriera così delicata ed importante, il maneggio di grandi e gelosi interessi riguardanti le più importanti famiglie paesane e forestiere sono la testimonianza indubitabile della specchiata onestà e della sapienza profonda di Marino Spunta.

Gli antichi statuti della nostra Comunità risalenti al 1362 erano dal tempo e dal lungo uso oltremodo deturpati e guasti, per cui il Consiglio Generale riconobbe la necessità che venissero venissero riformati ed in parte rinnovati «anche perché la nuova età dall’antiqua in molte cose difforme, di continuo desidera promuover nuovo rito». Fra molti uomini egregi che presiedevano in quell'epoca ai pubblici negozi, Angelo di Antonio Cibo, Antonio di Ser Orsino, Simone de Speranza e Bentivenga di Antonio Dell’Uomo, difensori del Castello, Ser Paolo di Cristofero Martinelli, pubblico notaro e persona oltremodo circospetta, “non che molti altri Uomini virtuosi del Castello, del buono, honesto e politico vivere amatori”, affidarono al nostro Spunta la direzione di questo importante lavoro che egli portò a termine egregiamente il 22 Febbraio 1521 e che fu dal pontefice Leone X ampiamente approvato.

Non si conosce la data di morte di Marino Spunta mentre sembra che avesse un figlio di nome Antonio, anch’esso pubblico notaio, che esercitò dal 1538 al 1558 come possiamo riscontrare nell’Archivio pubblico di questo Comune nei ventitré protocolli da lui lasciati.

 

Paolo Spunta

Nipote di Marino, nacque in Fratta sul declinare del secolo XVI. Fu sposo di madama Orsolina ed ebbe molti figli, fra i quali Francesco ed Alfonso di cui parleremo in seguito.

Paolo per naturale inclinazione si dedicò all'arte militare e nel 1627 era già salito al grado di Loco-Tenente, conferitogli da Carlo Barberini, Generale delle Truppe Pontificie. Quindi per le capacità dimostrate passò al grado di Capitano con nomina del Cardinale Camillo Panfili, Sopraintendente Generale delle Milizie dello Stato. Occupò nel tempo stesso molte prestigiose cariche e fra le altre da Ottaviano Carafa, Ccmmissario generale, fu nominato sotto Commissario per le provvigioni dell' Esercito nella Provincia dell' Umbria.

Tutta ciò si riscontra da documenti autentici esistenti presso la famiglia Mazzaforti e presso gli altri suoi eredi.

 

Francesco Spunta

Anche Francesco, figlio di Paolo, seguendo le tracce del padre, fu molto capace in politica e soldato intrepido e valoroso. In giovane età fu già nominato Alfiere della sua Compagnia dal Cardinale Camillo Panfili. Nella guerra fra Urbano VIII e i Fiorentini si distinse molto difendendo strenuamente i Castelli di Montalto, Polgeto e Montacuto, respingendo più volte gli assalitori e facendo un buon numero di prigionieri, come risulta da amplissimi documenti rilasciati da sua Eccellenza Gio. Battista Bono Governatore Generale delle Armi in questa Terra. Ebbe frequenti volte ad eseguire con i suoi Soldati diverse spedizioni sotto il comando del Sig. Duca Savelli, Tenente Generale di S. Chiesa. Militando poi sotto le bandiere austriache, dal Comandante Sig. Tommaso Mengrahell venne innalzato al posto distinto di Alfiere di Reggimento.

 

Alfonso Spunta

Alfonso, altro figlio di Paolo, eclissò qualunque altro per i suoi alti meriti, specialmente nella letteratura latina. Fu impiegato in varie Corti e sua Maestà la Regina Cristina Alessandra di Svezia lo nominò precettore e segretario di Lettere Latine. Cristina, figlia di Gustavo Adolfo e di Eleonora Principessa di Brandeburgo, per la morte del padre avvenuta nel 1632 in Lutzen, guerreggiando contro gli Austriaci, fu proclamata Regina, nella tenera età di sei anni. Però stette per lungo tempo sotto la tutela di severi Reggenti, che per educarla degnamente e secondo le paterne disposizioni, la circondarono dei più rinomati Precettori d' Europa. Si vuole che lo studio delle Lingue fosse la passione predominante di quella giovane Regina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pierre Bayle, il gran filosofo di Carlat, asserisce che tutti i giorni essa leggeva qualche pagina originale di Tacito. Pertanto 1'essere stato chiamato il nostro Alfonso come precettore e segretario in quella magnifica Corte è la prova certa della sua profonda dottrina. Fu ivi compagno ed amico del celeberrimo Salmasio di Semur, di Vossio, Boschart, René Deschartes (Cartesio) e di altri sommi. La leggiadrissima ed erudita Cristina dedita tutta alla letteratura e alle scienze, infastidita da ciò che chiamava “splendida servitù del Trono”, il 16 Giugno 1654 e alla fiorente età di anni 28 decise di abdicare all'eroica Corona dei Vasa. Il nostro Alfonso passò altri cinque anni riverito e onorato in quella splendida Reggia, disimpegnando importanti ambascerie; ma finalmente per la sua malferma salute e le turbolenze del Regno, con un Diploma del Re Carlo X del 10 Aprile 1659 fu restituito alla Patria, dove un anno dopo cessò di vivere ed ove ebbe straordinarie onoranze funebri e il generale compianto.

A Marino Spunta, e idealmente a tutti gli altri membri

della famiglia, è stata dedicata quella che un tempo

era via delle Petresche, in pieno centro storico.

 

Le foto degli antichi personaggi sono tratte da Wikipedia.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio

Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia

Tiberina Umbertide – 1883

- “Umbertide – L’uomo nella toponomastica” di Bruno

Porrozzi – Ass. Pro Loco Umbertide – 1992

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FILIPPO E GIOVAN BATTISTA FRACASSINI

 

La famiglia Fracassini, originaria di Monte Acuto, ha avuto nel 1600 due importanti personaggi che hanno onorato la terra di Fratta. Filippo, mastro muratore, che ha messo a disposizione le sue grandi capacità per opere architettoniche che ancora oggi possiamo ammirare. Giovan Battista, insigne avvocato, giudice nonché governatore di importanti città di quel tempo.

 

Filippo Fracassini

Non si conoscono le date precise della nascita e della morte di questo importante discendente dalla famiglia Fracassini. Nella prima metà del secolo XVII Filippo Fracassini fu celebre operatore nell'arte architettonica, non tanto confortato dalla scienza ma per un suo naturale ingegno e per l’appassionato esercizio. Non vi era Fratta grandiosa impresa in quei tempi che non venisse affidata al Fracassini. Egli, insieme ai capimastri Ercolano da Civitella e Francesco Valentini, ricostruì le due arcate del ponte sul Tevere abbattuto dalla straordinaria alluvione del 1610. Fu direttore della fabbrica della nuova Chiesa di Santa Croce, che fu eretta tra gli anni 1610 e 1647.

Riformò il grandioso Tempio della Reggia su disegno e direzione di un altro valente frattegiano, Bernardino Sermigni, ed eseguì molte altre opere di non minore importanza, tutte con esito felice.

Il dottissimo D. Silvio Fidanza scrisse in elogio del Fracassini la seguente epigrafe:

“DEO CRUCI VIRGINI PHILIPPHUS DE FRACASSINIS SINE LITERIS NUMERIS DISERTISSIMUS PONTEM INFECTUM ARTE REFECIT POST DILUVIUM TRIA MILIA NONGENTA DECEM PRIDIE NONAS SEPTEMBRIS SACRAS AEDES SANCTAE CRUCIS A CRISTI MORTE 1649 OPERE A FUNDAMENTIS EREXIT SANCTAE MARIAE DE REGIA A PARTU VIRGINIS INGENIOSE PERFECIT ANN. IUBILEI 1645".

 

Il 18 dicembre 1960 gli fu intitolata la via che porta verso Preggio.

 

Giovan Battista Fracassini

Questo egregio cittadino di Fratta, dopo aver conseguito la laurea negli studi filosofici e legali all’Università di Perugia, si trasferì in Roma ad esercitare in quella Curia Suprema a lungo e con ottimo profitto l'ufficio di difensore. Con patenti della S. Consulta resse il governo di molti importanti Paesi e Città, in particolar modo di Norcia e di Camerino, finché nel 1680 da Monsignor Ghisleri venne richiamato a Norcia come Luogo-Tenente Generale di Prefettura. Nonostante l'esercizio di tali importanti cariche, non cessò mai d'occuparsi nelle funzioni d' avvocato, come si riscontra da molte cause a lui affidate dal Franchetti e brillantemente risolte, dalla molteplicità delle sue scritture, relazioni e voti che vennero pubblicati per le stampe. Fu Giudice in Foligno, Vicario Generale in S. Sepolcro e Città di Castello. Ma trovandosi in età molto avanzata e nell’impossibilità di sostenere tante dure fatiche,ritornò nella sua terra natia dove, fra le braccia dei congiunti che tanto lo amavano e degli amici che molto lo stimavano, rese l’anima a Dio nell’anno 1689.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

- “Umbertide – L’uomo nella toponomastica” di Bruno Porrozzi – Ass. Pro Loco Umbertide – 1992

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GIOVANNI MAURI

 

Nella prima metà del 1600 fu, tra l’altro, maestro dell’Ordine dei
Padri Minori Conventuali e vescovo di Nusco









 

 

 

 

 

La biografia è tratta dal libro del Guerrini, conservando integralmente l’italiano di allora, di fine Ottocento.

 

In questa Terra sortiva i natali Giovanni Mauri nell'anno 1566.

Da giovinetto professò fra i PP. MM. (Padri Minori) Conventuali di S. Francesco e per l'indefesso studio e per l'esercizio continuato delle più splendide virtù addivenne Maestro di quel S. Ordine e vi occupò le cariche più luminose. Nell'anno 1626 fu già Procuratore Generale in Roma; nel 1629 Commissario Apostolico e Visitatore in Sardegna; nel 1634 Inquisitore in Siena e Firenze; nel 1638 Consultore del S. Ufficio in Roma; quindi Vicario Patriarcale in Costantinopoli.

 

 

 

Celeberrimo nella predicazione, calcò i più distinti Pergami (N.d.r. Nell’architettura

sacra, specie di balcone (detto anche pulpito) che nelle chiese si trova di regola

all’interno, ora addossato ai muri o a colonne o pilastri, ora isolato e sostenuto da

elementi architettonici di piccole dimensioni ma riccamente ornati, dal quale il

predicatore si rivolge ai fedeli) d'Italia, e riuscì meraviglioso per la sua immensa erudizione e per la sua robusta facondia.

Verseggiatore gentile, matematico profondo, Maestro di soavi melodie, ed Organista sublime, rapiva sovente in estasi Amuirath IV detto il Valoroso, che desiava cantasse e suonasse in sua presenza sovra i superbi Minareti, leggiadramente torreggianti sulle sponde incantate del Bosforo. E ne ebbe donativi preziosi, che al suo ritorno in Roma recaron sorpresa allo stesso Pontefice Barberini, cui il Mauri fe' presente di una ricca pelliccia e di un camice dì squisito inestimabil lavoro..

 

Dopo l'esercizio laudatissimo di sì delicati ed importanti offici, Urbano VIII nel 1641 consacrava il Mauri Vescovo di Nusco, Principato-Ulteriore nel Napoletano, ove dopo appena quattro anni colla pace del giusto, colla santità dell'esempio, colla benedizione di tutto il suo popolo, che come Padre lo amava, si addormentò nel Signore il dì 1 Novembre 1644.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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Giovanni Pachino - Cintio Paulucci
Bernardino Sermigni
BERNARDINO SERMIGNI

 

Grande onore ebbe Fratta dall'aver dato i natali nel 1600

all'architetto Bernardino Sermigni, discendente di un’antica e titolata famiglia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell'anno 1640, vedendo la cupola della Chiesa della Reggia a rischio crollo, si mise subito al lavoro, insieme col Flori, per scongiurare questo tragico evento. Dopo aver consultato l'architetto del Gran Duca ed altri artisti suoi corrispondenti, finalmente si decise di rinnovare del tutto l'ordine interno dandogli una forma più nobile, seguendo anche il consiglio di Pietro Burelli, altro valente ingegnere di Fratta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo Tempio è di pianta ottagonale all'esterno, circolare all’interno con il diametro di metri venti; e la sua altezza doppia del diametro. Allorché si entra in Chiesa si rimane subito colpiti dall'arditezza della grande cupola, come lanciata in aria, dall'elegante, dalla maestosa armonia di tutto l’insieme. Alla spinta considerevole della struttura non opposero gagliarda resistenza i contrafforti della primitiva costruzione, per cui fu necessario rafforzarli. Ed ecco il genio del nostro artista non arrestarsi tra i soli rimedi di arida solidità ma cercando di coniugare questa anche con l’estetica per trarne il più gradevole giovamento. Sul giro delle pareti interne dispone un completo ordine di sedici colonne, alquanto distaccate dal muro, sul quale sono riportate le mostre dei corrispondenti pilastri. Gli intercolonni (N.d.r. Spazio compreso tra due colonne) sono dispari. Nel più grande, che è un areostilo (N.d.r. Tempio in cui l'intercolumnio aveva una larghezza maggiore di tre diametri), otto grandi arcate di tutto sesto ben adorne di cornici e di stucchi, e col loro ampio incasso fanno magnificenza e comodo agli altari, all'orchestra ed ai due ingressi principali. L'altro intercolonnio è alquanto più ristretto, tutto ripartito di nicchie, tra loro divise dalla proseguente cornice dalle imposte laterali. Tali svariati intercolonni compongono mirabilmente separati gruppi di colonne binate, che presentano alla vista, nello stesso tempo, sveltezza e il più grazioso movimento.

L'ordine del colonnato è Dorico ed ha la ragguardevole altezza di metri 9,60. Quanta filosofia d'arte nella scelta di quest'ordine! Alle nostre colonne, che qui sostengono tanto laborioso officio, si doveva improntare il costante carattere della più severa robustezza. Sono state anche soppresse le leggere strie nei grossi fusti ed indicato brevi scanalature solo nel collarino dei Capitelli. E’ stata conservata la primigenia robusta altezza dell'architrave e nelle membreggiature (N.d.r. Membrature orizzontali poste a congiunzione di colonne) la più sensata parsimonia. E per questo artistico criterio ed anche per evitare nel cornicione le inconvenienze per lo più conseguenti dall’accoppiamento delle colonne, vengono soppressi triglifi (N.d.r. Il triglifo è un elemento architettonico del fregio dell'ordine dorico dell'architettura greca e romana. Consiste in una formella in pietra, decorata con scanalature verticali) e modiglioni (N.d.r. Il modiglione, detto anche modione, è una mensola scolpita che sostiene la parte superiore sporgente della cornice), sull’esempio della Farnesina del Peruzzi (N.d.r. Villa Farnesina a Roma edificata intorno al 1505 su progetto dell’architetto Baldassarre Peruzzi) e del Palazzo Stoppani di Raffaele (N.d.r. Palazzo Stoppani a Bergamo del 1500).

Sopra la descritta trabeazione (N.d.r. struttura architettonica, comprendente l'elemento orizzontale del sistema trilitico, degli ordini architettonici greco-romani ed è costituita da architrave, fregio e cornice), che con l’allineamento diritto circoscrive tutto il Tempio, sorge il gran tamburo della Cupola foggiato a sontuoso attico. Qui sopra ad ogni colonna si vedono ripetuti altrettanti pilastri, ai quali l'aggetto proporzionale di elegante cornice con tutta purezza d’arte compone l'ornamento dei relativi capitelli. Negli spazi intermedi si trovano arcate sceme per grandiosi finestroni; svariati rincassi per bassi-rilievi e pitture. Poi, un poco più in alto, un’altra cornice, sicché l'adorno dado, che fra queste cornici si crea, costituisce un grazioso basamento alla grande cupola, che ardita in alto si sviluppa ellitticamente. Qui quattro grandi finestroni rimandano all'interno torrenti di luce. Quivi costoloni che nascono dai sottoposti ordini adornano la grandiosa curva della struttura e convergendo alla sommità si ricongiungono ad elevare una Lanterna, che il magnifico edificio elegantemente corona.

All'esterno si ripete con tutta semplicità l'architettura interna. Si pensava per maggior bellezza di lasciare all'esterno la cupola nuda, incrostata di piombo, ma non lo consentiva la gravità della spesa. La costruzione dei muri è laterizia, le fasce e gli ornati a stucco, gli ordini architettonici sono tutti di pietra serena ed eseguiti colla più squisita stereotomica (N.d.r. Stereotomìa è l'insieme di conoscenze geometriche e tecniche tradizionali relative alla tracciatura e al taglio dei blocchi e dei conci in pietra da taglio e al loro assemblaggio e impiego in complesse strutture relative a costruzioni architettoniche) pulitezza.

 

Poco dopo il 1647 si rivide compiuto questo grande Tempio, che classici

artisti ritengono tra i più belli delle contrade umbre e che certifica

luminosamente la valentia del nostro architetto.

 

Il Sermigni morì nel 1670, all’età di 70 anni.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini

(completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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GIOVANNI PACHINO e CINTIO PAULUCCI

 

Due personaggi dell’antica Fratta che si distinsero, il primo nelle
discipline giuridiche, il secondo nell’arte militare

 

 

Giovanni Pachino

Insigne giurista, nella prima metà del 1400 fu Gran Maestro delle rendite del Duca di Milano Filippo Maria Visconti

 

Giovanni Pachino (o Paghino) nacque a Fratta verso la fine del XIV secolo. Inizio giovanissimo a studiare e poi approfondire le discipline giuridiche, tanto da meritarsi l’appellativo di “Splendore della Giurisprudenza italiana”. Viaggiò moltissimo in regioni anche lontane per il desiderio di conoscere, studiare e approfondire i diversi costumi e usanze di altri popoli e le loro leggi.

Il Pachino, per le esperienze maturate e per la sua dottrina, fu chiamato al servizio di principi e personaggi autorevoli del suo tempo, che lo ripagarono con onorificenze e ricchezze.

 

Poco prima della metà del secolo XV fu chiamato a Milano, alla corte importante di Filippo Maria Visconti che, per la fiducia e stima che nutriva nei confronti del nostro concittadino, gli affidò anche il prestigioso incarico di Gran Maestro di tutte le rendite ducali.

Ebbe una famiglia numerosa.

E’ probabile che, in considerazione di un eventuale mutamento dinastico a Milano, il Pachino chiese ed ottenne dal Visconti il permesso di poter tornare in Umbria. E’ così che nel 1443 si stabilì a Perugia, dove ne divenne cittadino onorario. Negli Annali perugini dell’anno 1443 fu definito “De Castro Fractae Filiorum Umberti egregius et famosissimus legum doctor”. Morì a Perugia nel 1444.

 

A Giovanni Pachino è stata intitolata una via, traversa di via Roma.

 

 

 

 

Cintio Paulucci

Valente uomo d’armi, seppe farsi onore combattendo per la Repubblica Veneta

 

Verso la fine del Secolo XVI, poco dopo le battaglie formidabili di Cipro dove Pietro Giacomo Petrogalli fece prodigi di grande valore, un altro prode guerriero della nostra terra combatteva alle dipendenze dell'invitta Venezia.

Cintio Paulucci, uomo d'ingegno perspicace e particolarmente esperto nell'arte militare, ispirato dal genio dei tempi, si gettava senza paura dove più spesso inferocivano le battaglie sia contro i mussulmani, sia contro le più indomabili piraterie.

Non a caso, con patente del 27 Luglio 1628, fu promosso dalla Repubblica Veneta (1) al grado di Capitano degli Alabardieri (2).

Nell'anno 1632 fu spedito in Dalmazia, a Sebenico, come comandante della Compagnia Italiana per essere poi destinato, con altra patente del 6 Giugno 1636, in qualità dì Maggiore e Comandante Generale, a Zante (3), una delle più importanti isole del mare Ionio dove poco dopo cessò di vivere carico di meriti e di gloria.

Alta statura, aspetto gradevole, occhio severo, fronte spaziosa, capigliatura inanellata, armatura d'acciaio, alabarda in pugno, blasone con aquila in campo rosso: cosi veniva rappresentato Cintio Paulucci in un ritratto della sua epoca che purtroppo non è arrivato fino a noi.

 

Note:

1. La Repubblica Veneta, a partire dal XVII secolo Serenissima Repubblica di Venezia, è stata una repubblica marinara con capitale Venezia. Fondata secondo la tradizione nel 697 da Paoluccio Anafesto, nel corso dei suoi millecento anni di storia si affermò come una delle maggiori potenze commerciali e navali europee.

Inizialmente estesa nell'area del Dogado (territorio attualmente assimilabile alla città metropolitana di Venezia) nel corso della sua storia annesse gran parte dell’Italia nord-orientale, l’Istria, la Dalmazia, le coste dell'attuale Montenegro e dell’Albania oltre a numerose isole del mare Adriatico e dello Ionio orientale. Al massimo della sua espansione, tra il XIII e il XVI secolo, governava anche il Peloponneso, Creta e la gran parte delle isole greche, oltre a diverse città e porti del Mediterraneo orientale.

2. Verso la fine del Medioevo gli eserciti europei si dotarono sempre più di reparti di alabardieri, un corpo di fanteria pesante armata appunto di alabarda. Questa era una lunga asta che terminava con una lama a due taglienti e, appena sotto, erano innestate una lama di scure da un lato ed un grosso uncino dall’altro. Gli alabardieri indossavano inoltre dei particolari elmi detti morioni, simili a dei caschi con la tesa rigida e curva all’insù, appuntita sul davanti e sul retro. I modelli più diffusi prevedevano una cresta oppure terminavano con una cuspide aguzza.

3. Zante è un'isola greca (405 km²) con una popolazione di circa 40.000 abitanti. L'isola si trova nel mar Ionio, vicino alle coste del Peloponneso e fa parte dell'arcipelago delle isole Ionie. Zante fu al centro delle battaglie spartano-ateniesi; fu poi una delle isole Ionie sotto il dominio veneziano, durante il quale vi nacque il poeta Ugo Foscolo, che vi dedicò il sonetto “A Zacinto”; nel 1953 fu devastata da un disastroso terremoto.

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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Filippo Maria Visconti, Duca di Milano

Lo stemma del Ducato

Il Castello Sforzesco
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Costantino Magi - Angelo Martinelli - Francesco Spinetti
La famiglia Soli - Sante Pellicciari
Cherubino Martelli - Felice Remeri
Lavinio Magi - P. Paolo Cristiani
LAVINIO MAGI e PIETRO PAOLO CRISTIANI

 

Scelsero entrambi la carriera ecclesiastica e furono in epoche diverse alla guida
della chiesa di Sant’Agata in via dei Priori, una delle chiese più antiche di Perugia

 

Lavinio Magi

Sacerdote di costumi esemplari e pio; ricco di dottrina, specialmente nelle scienze Teologiche, nei Sacri Canoni e nella Liturgia. Nacque in Fratta nel 1579 da onorevole famiglia. Studiò nel Seminario di Città di Castello sotto il celebre Marcantonio Bonciario, oratore insigne chiamato “L’Omero d’Italia” da Giusto Lipsio, il più profondo critico e il più dotto poligrafo di quei tempi. Il Lancellotti nella “Storia Perugina” ci narra che il Magi godette dell’affetto del dottissimo vescovo Napoleone Comitoli (1), dei Cardinali Torres e Baldeschi, i quali nelle cose più delicate del loro Sacro Ministero si servivano della sua opera e dei suoi sapienti consigli.

 

 

 

Fu dal Camitoli eletto Parroco della Chiesa di S. Agata in Perugia, beneficio cui venivano nominati i soggetti più meritevoli del Clero. Fu Maestro di Liturgia Ecclesiastica di cui scrisse un volume molto apprezzato. Ebbe più volta la carica di Visitatore Diocesano (2), Esaminatore Sinodale (3) e Presidente della Congregazione della Dottrina Cristiana, di cui nel 1626 riformò sapientemente le costituzioni. Fu superiore Ecclesiastico dell’Ospedale di Perugia eletto a pienezza di suffragi, carica che sostenne per sei anni con molto vantaggio del Luogo-Pio, specialmente nella sistemazione di tutte le importanti scritture antiche e moderne contenute in quel voluminoso Archivio. Fu anche riordinatore accuratissimo dell'altro non meno importante Archivio del Nobile Collegio della Mercanzia, dove si trovavano antiche e preziose memorie.

Dopo tante fatiche sostenute a favore della società civile e religiosa, all’età di anni 61, morì per un attacco di cuore il 31 Maggio 1640.

 

Note:

1. Venne accostato a S. Carlo Borromeo per aver saputo calare con forza e dedizione i rinnovamenti del Concilio di Trento dentro le strutture fisiche e morali della diocesi di Perugia. Uomo di alti principi e di notevole spessore, il grande sviluppo artistico ed urbano raggiunto sotto il suo episcopato è prova delle energie profuse per la città, come il completo restauro voluto per la chiesa di Sant’Ercolano. Studiò diritto canonico e diritto civile all'Università di Bologna, compì numerose visite pastorali, venne ascoltato in vari sinodi e si prodigò per migliorare le diocesi della regione. Giurista della Sacra Rota, morì a Perugia nel 1624.

2. Nella Chiesa cattolica, un visitatore apostolico o diocesano è un rappresentante ecclesiastico con la missione transitoria di effettuare una visita canonica di durata relativamente breve. Il visitatore è incaricato di indagare su una circostanza particolare in una diocesi o su un paese e di presentare una relazione alla Santa Sede a conclusione delle indagini.

3. All'interno della curia cattolica c'è anche il cosiddetto "esaminatore sinodale", un teologo nominato dal prelato diocesano per valutare coloro che sono stati selezionati per gli ordini sacri e per lavorare con i ministeri parrocchiali e predicatori.

 

 

Pietro Paolo Cristiani

Nacque a Fratta da famiglia agiata e distinta. Fin da giovinetto si dedicò agli studi con grande profitto. Si laureò nelle Scienze Sacre avendo scelto di percorrere la carriera ecclesiastica.

Per la sua probità e dottrina fu nominato Rettore della chiesa parrocchiale di S. Agata (1) in Perugia (dove circa un secolo prima aveva risieduto Lavinio Magi, altro nostro illustre concittadino) e per 30 anni sostenne questo ministero con molta lode.

Fu nello stesso tempo uno dei più rinomati professori dell’Università di Perugia occupando la Cattedra di Teologia Dogmatica. Ricoprì per molti anni la carica di Bibliotecario nella libreria della città sistemandola in una forma più ordinata ed elegante. Fu esaminatore sinodale dell’eminente Ansidei e di monsignor Fornari ed infine Consultore del Tribunale del Santo Officio.

Fu autore di molte e dotte opere letterarie, di un famoso dialogo intitolato “Il Grammatico” (tratto da autore incognito del 1557) stampato in Perugia nel 1717 e di alcune memorie patrie esistenti nella Biblioteca Mariotti. Giacinto Visconti, valente scrittore del secolo XVIII, inviò una lettera al P. Calogerà sulle opere e sulla vita del nostro concittadino, lettera che si trova nella biblioteca di San Michele di Murano.

Pietro Paolo Cristiani morì nell’anno 1737.

 

Note:

1. La chiesa di Sant’Agata, edificata sette secoli fa intorno al 1317, è situata all’inizio della centralissima via dei Priori, giungendovi da corso Vannucci, conosciuta da molti fedeli e cultori di storia dell’arte come uno degli “scrigni” più preziosi dello stile gotico francescano presente in Umbria. All’interno della chiesa, restaurata e riaperta al culto nel febbraio 2015, sulle pareti e sulla volta ci sono decorazioni ad affreschi di notevole interesse storico-artistico, di scuola umbro-senese. I lavori di restauro hanno permesso di rinvenire sulle pareti significative parti pittoriche come l’immagine di san Francesco che riceve le stimmate, sopra il noto ed originale volto del “Cristo triforme”, di fronte all’ingresso laterale di destra, e di due santi padri della Chiesa dipinti sulle lunette della volta sovrastante l’altare.

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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CHERUBINO MARTELLI e FELICE REMERI

 

Due padri francescani di Fratta che ricoprirono prestigiosi incarichi, il primo come Vescovo di Spiga, antica città
dell’Ellesponto, il secondo come Guardiano nel Sacro Convento di Gerusalemme e Custode del Sepolcro di Gesù Cristo.

 

Cherubino Martelli

Notizie di questo nostro illustre concittadino, di cui non si conosce la data di nascita, sono state fornite dal perugino padre Ottavio Lancellotti nelle sue memorie intitolate “Scorta Sagra” (1).

Egli fu Padre fra i Minori Osservanti di S. Francesco e per la probità e la vastità della sua dottrina occupò le più importanti cariche di quella Congregazione fino al momento in cui l'eminente cardinale Andrea della Valle, vescovo di Malta, lo volle come suo teologo.

La fama della sua scienza profonda e delle sue specchiate virtù giunse rapidamente in Vaticano e Papa Leone X, gran “Mecenate dei Dotti”, lo insignì del titolo Episcopale di Spiga, antica città dell'Ellesponto (2).

Morì a Cetona (3), terra di Toscana, nel 1520 in odore di Santità. Il suo corpo fu sepolto dentro un modesto avello (4) in quella chiesa di S. Francesco ma (come narra una cronaca di quel luogo) per i molti prodigi operati si accrebbe verso di lui immensamente la devozione dei fedeli tanto che, riesumato il suo corpo e trovatolo intatto, venne deposto solennemente sotto l'altare maggiore in un’urna elegante.

 

Note:

1. Manoscritto cartaceo in 2 volumi lasciato con testamento alla Biblioteca Augusta nel 1654.

2. L’Ellesponto, oggi Dardanelli, è lo stretto che divide il Mar Egeo dal Mar Nero.

3. Grazioso borgo in provincia di Siena tra la Val d’Orcia e la Val di Chiana. Nel 1418 Cetona fu conquistata da Braccio Fortebraccio da Montone.

4. Sarcofago per defunti.

 

 

Felice Remeri

Non si conosce la sua data di nascita, si sa che fu figlio di Bernardino Remeri dalla Fratta e fratello di un Luca Remeri, notaio della veneranda Camera Apostolica. Felice sin dalla sua giovinezza si dedicò allo studio delle scienze sacre e si fece religioso dell’Osservanza di San Francesco. Qui si distinse come sommo teologo e come esemplare Padre, fino a ricoprire le più importanti cariche della sua Congregazione.

Clemente VII (Giulio de' Medici) con apposito Breve (1) lo nominò al prestigioso ufficio

di Guardiano nel Sacro Convento di Gerusalemme (2), dove viene conservato il Sepolcro

di Gesù Cristo. Raccontava il notaio Benedetto De Sanctis, vecchio integerrimo di 87 anni

e nostro concittadino, che allorquando Padre Felice si gettò ai piedi di Clemente VII per

averne la benedizione di congedo, così esclamasse l'ispirato Pontefice “Piacesse a Dio,

Frate Felice, che potessimo insieme con voi ricevere in quella terra benedetta la palma

del Martirio!”

Pieno di sacro fervore abbandonò quindi l'Italia e dopo avere lungamente veleggiato

nel procelloso mare fra Candia e Cipro, sbarcò in Acri e si recò a Gerusalemme.

Narrano il Crispolti e il Jacobilli che “appena colà giunto, stette quattro giorni continui

presso il Santo Sepolcro assorto nella più profonda contemplazione, e che stemprandosi

quindi in calde lacrime, poco mancasse ivi non rimanesse esanime”.

Avendo poi adempiuto col più fervido zelo a tutte le necessità relative alla sua spedizione

ed al suo ministero dando sempre un luminoso esempio d'illibatezza, di moderazione, di

pietà e di tutte le altre più luminose virtù, nell'anno 1595, molti mesi dopo il suo arrivo in

Gerusalemme, passò a miglior vita in odore di Santità (3).

Il suo corpo si custodisce tuttora in quella Chiesa con grande venerazione e si narrano molti

prodigi ricevuti da Dio per sua intercessione. Il nome di Felice Remeri si trova perciò

meritatamente annoverato fra gli altri Santi dell'Umbria.

Note:

1. Documento pontificio con valore normativo, inferiore alla bolla papale.

2. La Custodia di Terra Santa è un priorato di Gerusalemme, fondato come Provincia di Terra Santa nel 1217 da San Francesco d’Assisi, che aveva anche fondato l’Ordine Francescano nel 1209. Nel 1342 i francescani furono dichiarati con due bolle pontificie custodi ufficiali dei Luoghi Santi a nome della Chiesa cattolica. La sede della Custodia si trova nel Monastero di San Salvatore, un convento francescano del XVI secolo vicino alla Porta Nuova nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il cuore della città vecchia di Gerusalemme per i cristiani è la basilica del Santo Sepolcro, conosciuta dai locali come “chiesa della resurrezione”: al suo interno si trovano il Calvario, luogo della crocifissione e morte di Gesù, e la Tomba di Cristo, dalla quale il Figlio di Dio risuscitò il terzo giorno. I due Luoghi Santi sono correlati e inseparabili, come lo è il mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù Cristo che lì si è compiuto e si compie continuamente. Da ottocento anni i frati francescani dell’Ordine dei Frati Minori sono i custodi del Santo Sepolcro, per conto della Chiesa Cattolica, e condividono la proprietà della basilica con la Chiesa greco-ortodossa e la Chiesa Armena Apostolica.

3. Felice Ranieri (Remeri) da Fratta fu il 73º Custode del Sacro Sepolcro dal 1593 al 1595 (da Wikipedia).

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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LA FAMIGLIA SOLI DI FRATTA e SANTE PELLICCIARI

 

Famiglie illustri della Fratta del XVI secolo

 

 

Giovanni Paolo e Francesco Maria Soli

La Famiglia Soli fu una delle famiglie più illustri ed agiate del nostro territorio. Il loro palazzo si trovava in via Cibo. Ne avevano un altro più sontuoso sulla Piaggia di Metula (zona Romeggio) che fu incendiato, con quelli di altri signori del tempo, per ordine del capitano Pallavicino quando nel 1643 l'esercito del Granduca di Toscana, durante la guerra contro Urbano VIII, tentò di impadronirsi del nostro territorio mettendo sotto assedio il Castello di Fratta.

Giovanni Paolo e Francesco Maria, per la loro probità

e le azioni virtuose furono ambedue ascritti dalla Reale

Casa di Savoja nell’Ordine Cavalleresco di S. Maurizio

e Lazzaro (1). Con vari beni che possedevano presso

questa Terra, poco ad est del Tempio della Reggia,

fecero costruire una Commenda che alla morte di

Francesco Maria, senza successori, ricadde alla

Religione di quei Cavalieri e che quindi venne conferita

alla nobile famiglia Bourbon di Sorbello.

Giovanni Paolo istituì nel suo ultimo testamento una

Cappella da officiare nella chiesa Collegiata e in quella del

Ponte, ora riunita alla Prepositura (2), per cui esisteva un

capitale di 400 scudi ammensato al Vescovado di Gubbio,

che ne pagava il rispettivo interesse.

Francesco Maria cessò di vivere il 27 di Dicembre 1599 pochi anni dopo la morte del fratello e così rimase estinta questa stirpe nobile e generosa.

 

 

Ai fratelli Soli è stata intitolata una via in quello che anticamente era il Borgo Inferiore, la zona dell’attuale piazza san Francesco.

 

Note:

1. L'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (detto anche Ordine Mauriziano) è un ordine cavalleresco nato dalla fusione dell'Ordine Cavalleresco e Religioso di san Maurizio e dell'Ordine per l'Assistenza ai Lebbrosi di san Lazzaro nel 1572. Con la XIV Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione Italiana, l’Ordine Mauriziano cessa di essere un ordine dinastico ma viene conservato come ente ospedaliero, con le funzioni e l’ordinamento stabiliti dalla legge costituzionale del novembre 1962.

2. E’ un termine che designa l'ufficio di un parroco, o preposto (preposito o prevosto) con privilegi speciali in una parrocchia.

 

 

Sante Pellicciari

Ricoprì importanti incarichi amministrativi nella seconda metà del Cinquecento agli ordini

del Consiglio Generale dei Decemviri (Priori) della città di Perugia

 

Questo nostro compatriota fu un uomo di grande ingegno e sperimentata probità. Fu celebrato dal Pellini nella sua “Storia Perugina”, dove lo chiama “Scrittore di molta gravità”. Fu Segretario dei Decemviri (1) della Città di Perugia. Dopo molti anni di onorato servizo, dopo aver procurato molti vantaggi a quella illustre Comunità, dopo avere disimpegnato destramente i più difficili incarichi in circostanze difficilissime, ottenne una ricca pensione e in più gli venne spontaneamente decretato dal Consiglio Generale il privilegio di aggiungere il Mezzo Grifone (2) alla sua Arme gentilizia.

La stesso privilegio il 25 Giugno 1607 fu assegnato, in continuità con il padre, ai suoi figli Pietro Paolo, Lodovico e Silvestro, imitatori fedeli delle paterne virtù. L' Officio di Segretario della Comunità di Perugia venne conferito su proposta del Pellicciari ad un altro nostro non meno celebre compatriota, Filippo Alberti suo nipote.

 

 

 

Carico di onori, il nostro Sante si ritirò a Fratta, stabilendosi in una deliziosa tenuta sulla china orientale del Colle di Romeggio, o Piaggia di Metula, con giardino e un palazzo di nobile architettura, dove alloggiò Francesco de' Medici nel ritorno da Loreto a Firenze. Questo Principe fu trattato sontuosamente da Sante Pellicciari Junior, nipote del nostro Sante, al quale venne donata una ricchissima collana d'oro in segno di gratitudine per l’accoglienza ricevuta.

Nel 1607 Sante Senior cessò di vivere in Perugia fra il compianto generale e la sua discendenza durò fino al 1814, estinguendosi con il dottor Luca Pellicciari, professore emerito di Fisica sperimentale nell’Ateneo Perugino.

 

Note:

1. Detti anche Priori. Dieci magistrati che nel medioevo detennero il governo cittadino fino agli inizi del Settecento.

2. La tradizione racconta che furono gli etruschi, antico popolo presente anche in terra umbra, a portare il grifo in Italia: il suo mito si ritrova infatti raffigurato su urne, sarcofagi e bassorilievi rinvenuti nei reperti. Questo simbolo venne poi assunto dal Comune di Perugia sin dal Medioevo, tramite i membri delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri che avevano il consenso a farne uso nei loro stemmi.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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COSTANTINO MAGI – ANGELO MARTINELLI – FRANCESCO SPINETTI

 

Tre personaggi che hanno vissuto a Fratta tra il 1600 e i primi anni del 1700
e che si sono fatti valere in diverse discipline

 

Costantino Magi

Uomo di reputazione distinta in Belle Lettere ed in Filosofia. Medico accreditato e raro esempio di amore verso il prossimo.

Il Magi, fornito di sufficienti agiatezze, non si allontanò mai dalla Fratta per esercitare la sua arte, che anzi per molti anni di seguito e tutte le volte che occorreva egli serviva gratuitamente i suoi concittadini, lasciando lo stipendio scritto nella Tabella Comunale sempre a disposizione dei più poveri e mettendo a loro disposizione quanto altro occorreva del suo patrimonio.

Dopo la perdita della consorte, che aveva tanto amato, decise di abbracciare la carriera ecclesiastica. Divenuto sacerdote, condusse sempre una vita esemplare e santa. Scrisse preziosi ricordi della sua patria, che per incuria dei discendenti andarono, nella maggior parte, disgraziatamente smarriti.

Nell'anno 1710, fra le benedizioni del popolo, spirò placidamente nel Signore.

 

Angelo Martinelli

Angelo Martinelli nacque a Fratta il 29 Settembre 1630.

Suo padre fu Maurizio Martinelli e Fiora Corinti la madre.

Si fece sacerdote e fu parroco nella Chiesa di S. Luca (1)

e Confessore delle Cappuccine in Perugia e quindi del

Monastero di S. Maria Nuova in Fratta, dove finalmente

fissò la sua dimora. Era caritatevole nel segno dei poverelli

di Gesù Cristo, tanto che spesso restava egli stesso privo

di indumenti e di cibo per aiutarli. L’esemplarità della sua

vita, la sublimità delle sue virtù lo resero così grato al

Signore che gli concesse vivente l’inestimabile dono di

presagire il futuro, come fece appunto per la sua morte, come viene riportato in

una cronaca di quel tempo. Il 19 Marzo dell'anno 1721, come da lui predetto, passò

placidamente alla vita eterna. Le esequie furono solenni e vi concorse ogni ceto di

persone. Il suo corpo fu segretamente sepolto entra doppia cassa nella

Chiesa Parrocchiale di S. Erasmo in Cornu Evangelii (2).

 

 

Note:

1. La chiesa di San Luca fu eretta nel 1586, sul luogo di una

chiesa medievale, ad opera di Bino Sozi per committenza

dell'Ordine dei Cavalieri di Malta. Presenta una sobria facciata

impreziosita da un bel portone di ingresso abbellito da

materiali  lapidei ed in particolare da un timpano tronco sotto

il quale si trovano bei fregi di carattere religioso. L’interno,

articolato in  una navata a tre campate separate da pilastri di

stile dorico, conserva una tela di Giovanni Antonio Scaramuccia e la Madonna delle Grazie, affresco del XV secolo.

2. Il lato del vangelo (in cornu Evangelii in latino) è una zona delle chiese cristiane occidentali. Prende il nome dal luogo dove avviene la lettura del vangelo nella liturgia. Rispetto all'altare maggiore, si trova sul lato sinistro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Francesco Spinetti

Francesco Spinetti, uomo di grande dottrina nelle facoltà legali, nacque nella nostra terra nel 1660. Dopo aver fatto i suoi studi in Roma, dove si laureò in Legge, ottenne anche il grado distinto di Avvocato Rotale. Dal Governo, conoscitore dei suoi meriti, fu nominato Governatore della Città di Foligno e quindi ad altre importanti cariche. In età avanzata ritornò in patria con una buona pensione e vi cessò di vivere nell'anno 1724.

Non avendo una diretta successione, lasciò sola erede la sua consorte Lucrezia Beni, donna di singolare pietà, la quale fece erigere nei pressi della sua casa e a proprie spese l'Oratorio di S. Filippo Neri detto la Chiesa Nuova, poi soppresso e ridotto ad abitazione.

L' Avvocato Francesco Spinetti, oltre ad una magnifica libreria, lasciò vari manoscritti e specialmente un elaborato Repertorio di testi legali, diviso in diversi volumi, che i superstiti nipoti incautamente dispersero.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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A sinistra, la casa costruita sui resti della chiesa
di Sant'Erasmo negli anni '40 ed oggi
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BERNARDINO MAGI - MUZIO FLORI
Due ottimi pittori nella Fratta a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento
 
Bernardino Magi

Le opere sono lo specchio dell'anima dell'autore. Un saggio osservatore v'indaga l'indole, il costume, le passioni, il carattere dello scrittore, e raramente s'inganna. L’inerte concordia dei nostri vegliardi, che neppure una riga hanno lasciata sul nostro famoso pittore Bernardino Magi, obbliga ad un'esatta osservazione dei suoi quadri, in modo da rilevarne il carattere dell'autore, la scuola a cui appartenne, l'epoca in cui dipinse ed il merito dell'artista.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bernardino nacque in Fratta oltre la metà del secolo XVI dall’antica, cospicua e doviziosa famiglia Magi, come lo attesta la grandiosa magione nella Piazza del Comune, dove hanno a lungo abitato i suoi discendenti. Sin dalla tenera età si mostrò portato per l'arte della pittura. Oggetti della sua meditazione erano sempre cose dilettevoli, ispiratrici di soavi emozioni, la dolcezza, le grazie, la naturalezza e soprattutto la bellezza, verso la quale era rapito da irrefrenabile trasporto. O egli l'ammirasse nel cielo stellato o nell'aurora sorgente, o nei tremolanti boschetti percossi dal sole, o nelle grigie collinette ove brulicano armenti e pastori, o nelle ridenti praterie, ovunque a lui si presentassero come oggetto d'incanto. Aborriva solo oggetti melanconici, funesti, spaventevoli. In questo si uniformava ad un costume affabile, dolce, manieroso, portato ad amare tutti e con altrettanto affetto ad esserne corrisposto.

 

 

 

I genitori, conosciuta l’inclinazione del figlio ed il suo genio, lo mandarono in Urbino dove alto risuonava il nome di Federico Barocci (1), come il più famoso pittore di quel secolo. Era il Barocci di carattere franco, gentile e cortese; tale il discepolo, sicché grande fu l'affetto, indicibile l’impegno, ed instancabile lo studio onde appagare le brame del precettore. Da ciò quell'esatta correzione nel disegno, quelle gradevoli attitudini, quelle figure così bene atteggiate, quelle teste delle vergini, quei nudi dei fanciulli d'una dolcezza che incantano, quelle composizioni di una semplicità e di una naturalezza che innamorano. Con quale favore attendesse ad imitare il colorito magico del precettore ne fanno testimonianza i suoi dipinti. Federico fece di tutto per emulare Correggio (2), per cui diventò il pittore più grazioso, più gradevole, più amabile della Scuola Romana. Il Barocci seppe dare un'armonia, una lucentezza, una verità ai suoi dipinti, che destano meraviglia. Magi imitò con tale evidenza il maestro tanto da essere scambiato talvolta con lui.

 

 

 

Per questo c’è un aneddoto che riguarda il Magi. Nel cessato governo imperiale fu mandato il celebre artista Agostino Tofanelli, Direttore dell’Accademia di Belle Arti, a fare una scelta di Capi d'opera di Pittura da trasportare alla Capitale. Nella Chiesa di S. Maria di Fratta (N.d.r. Si tratta, probabilmente, della piccola chiesa di S. Maria dei Rimedi che si trovava nella zona del Mercatale Superiore, attuale fine Piaggiola e piazza Marconi) osservando egli il quadro di Magi collocato nel suo altare gentilizio, lo giudicò originale del Barocci e come tale lo fece trasportare a Roma. Ciò risulta dagli atti di quel Governo e dalla testimonianza del Sig. Giambattista Burelli che era allora Segretario del Municipio. E’ vero però che quel quadro meglio esaminato si giudicò della scuola, non della mano del Barocci. Il quadro fu recuperato dalla famiglia Magi e risistemato nell'altare a sinistra dell'ingresso principale. E’ una tela rettangolare, alta metri 2,20, larga metri 1,60. In alto vi si trova la Vergine S.S. sopra un arco di nubi lievemente refratte da una zona di luce, che si diffonde dal capo divino e che sgorga mirabilmente a dar vita alle sottostanti campagne.

È vestita la Madonna di serica veste rosata, ammantata di un drappo azzurreo i cui lembi sembra che siano scherzosamente agitati dai zeffiri del Paradiso. Atteggiato il volto a dignitosa modestia, con la mano destra in atto di dispensare una palma gloriosa, pare disimpegnare un grande decreto dell'Eterno. E sorregge col braccio sinistro il Bambino Gesù, il quale, coperte le nude delicatissime membra da un candido velo, negli occhi, nel crine, nelle labbra aggraziato, si stringe teneramente al collo della Madre Divina. Tre Serafini magistralmente disposti intorno, assorti in venerazione beata, compongono nell’insieme una gloria sullo stile del grande Correggio. In fondo al quadro vi è un campo svariato di degradanti collinette bene adorne di paesaggi, di boscaglie, di ruscelli, di fiumi, delle scene più deliziose della natura. Alla destra di chi guarda si trova il profilo della Maddalena, giovane vezzosissima, riccamente vestita, con la lunga chioma sugli omeri disciolta, col ginocchio destro piegato a riverenza e offerente a Maria quel vaso di unguenti misteriosi che si meritarono il prodigio della sua conversione. Alla sinistra c’è S. Lorenzo, genuflesso, con le braccia al seno incrociate, vestito di tunica diaconale, che in atto di ricevere dalla Regina dei Martiri la sospirata palma, esprime nel volto animato tutta la sacra gioia che lo invade. Dinanzi al Santo, come un trofeo di vittoria, sta al suolo la ferrea dolorosa graticola; e a fianco un vecchio prelato (soggetto della famiglia Magi!) sta per coronarlo del glorioso diadema.

Distanze di posizioni mirabilmente vere, caratteristica varietà di carnagioni ove il sangue scorre; una scelta di forme vaghissime; una correzione purissima di disegno; una freschezza di colorito che incanta, un'armonia d’insieme che rapisce.

Sotto la figura di S. Lorenzo vi è scritto dallo stesso pennello 1597. In una cartella sulla cornice dello stesso Altare vi è scolpito MDLXXXXII. Ai lati delle colonne laterali “R. D. Luduvicus de Magis”. E nei dadi dei piedistalli da ambo i lati dell'Altare l'arma gentilizia della famiglia Magi, consistente in due mani strette in fede con una Cometa al disopra.

Nelle parti laterali all'Altare Maggiore della stessa Chiesa vi erano due tavole del Magi, l'una copiata dal Maestro, rappresentante Cristo in Croce, S. Giovanni e la Vergine; l'altra un bellissimo Presepe. In Sagrestia vi è pure un S. Lorenzo ed un S. Francesco.

Nella Chiesa della Buona Morte dipinse la tela di S. Antonio Abate. Questa tela alta M. 2,48, larga 4,40 è situata nell'Altare a sinistra dell'ingresso. E’ composta di quattro principali figure. Si vede da un lato il Santo Abate Antonio in abiti pontificali, tutti adorni di aurei graziosi ricami. Ha il ginocchio destro piegato dignitosamente al suolo, e tutto intento in una sacra leggenda, schiude tra il folto di una barba morbidissima le labbra ad un sorriso di santa compiacenza. All'altro lato S. Paolo, venerando vecchio, sotto un misero saio, genuflesso e sul bastone ricurvo, orante devotamente nel rosario di Maria. La scarna faccia abbronzata, le assorte ciglia aggrottate, la calva fronte rugosa, tutti esprimono al vivo gli effetti penitenti della sua religiosa solitudine. Al fianco vi si scorge il S. Giovanni Battista in aspetto di caro giovane, che con la leggiadria delle forme, con la floridezza del colorito armonizza l'effetto della più bella antitesi pittorica. Poi come assisa tra limpidissime nubi sorge in alto Maria, che con le mani conserte stringe al seno tra un candido lino il Bambinello Gesù. Rosea e bianca ha la veste, violaceo il manto graziosamente increspato dalla mano degli Angeli. Nelle labbra, negli occhi, nell'atteggiamento pietoso come traspira la divina tenerezza, che sente per suo diletto! Questi tutto gioioso colle pupille vaghissime, quasi fisse in un'estasi d'innocua astrazione, porta nel volto vezzosamente ripetuti tutti i celesti lineamenti materni. Dodici Serafini in splendido svariato giro coronano finalmente la gloria della Regina del Cielo.

Nella intelaiatura posteriore si legge Bernardino Magi dipinse l'anno 1596. Da ciò si deduce l'epoca dei suoi lavori. Nell'Oratorio gentilizio annesso alla sua abitazione aveva ripetuto in grande la Madonna del quadro di S. Maria ed i suoi appartamenti erano pieni dei suoi dipinti.

 

Bernardino non volle abbandonare l'amato Precettore neppure in morte. Egli mancò ai vivi in età forse non senile nel 1612, nella stesso anno in cui fu rapito alle Belle Arti il maestro Federico.

 

Note:

1. Federico Barocci, detto il Fiori, nacque ad Urbino tra il 1528 e il 1535. Il suo stile elegante lo fa ritenere un importante esponente del Manierismo italiano e dell'arte della Controriforma che intercorre tra Correggio e Caravaggio ed è anche considerato uno dei precursori del Barocco.

2. Antonio Allegri, detto il Corréggio, è stato uno dei più importanti pittori rinascimentali della scuola di Parma. Era figlio di un commerciante che viveva a Correggio, la piccola città in cui Antonio nacque nel 1489 e morì nel 1534, e di cui prese il nome.

Muzio Flori

Nel declinare del Secolo XVI nacque Muzio Flori nell'insigne Terra di Fratta di Perugia, dove Paolo e Jacopa suoi genitori avevano antico domicilio e possidenza (1). Il silenzio degli scrittori di patrie memorie ci obbliga a quelle congetture che sembrano più probabili per essere dedotte dai fatti e dalle poche tradizioni che ci rimangono. Sin dalla tenera età era per lui occupazione assai dilettevole il ritrarre in rude disegno quel che fissava la sua attenzione, mostrandosi vivamente colpito da tutto ciò che d'incantevole offrivano le svariate scene della natura o l'arte divina del colorito, Ora come estatico contemplava la sublime Tavola dell'Incoronazione della Vergine, dal Pinturicchio mirabilmente pennelleggiata.

 

 

 

 

Ora rimaneva meravigliato dal celeste connubio di S. Caterina della Scuola dell'Urbinate. Ora pieno di commozione e di lacrime lanciava lo sguardo sulla Deposizione, scena patetica del Signorelli o tutto entusiasmato squadrava altre famose pittura di cui in quel tempo era la nostra Patria riccamente adornata (2). Questo precoce talento e genio non ordinario per 1'arte del pennello non sfuggì allo sguardo artistico di Bernardino Magi suo concittadino, l'emulatore del Barocci. Per sua esortazione, affidato alla possente assistenza di alcuni Frattensi che ricoprivano in Roma importanti impieghi, poté il Flori recarsi in quella Reggia delle Belle Arti ed abilitarsi nell'intrapresa carriera sotto la direzione di celebri professori (3). Appagata la grande bramosia di apprendere, si immergeva nello studio, nel lavoro e nell'osservazione. Instancabile nel ricopiare la natura con scelta giudiziosa, traeva da questa i suoi concepimenti seguendo i grandi modelli della Scuola Romana. Da ciò tirò fuori una maniera tutta sua personale imitando il bello pittorico ovunque lo scorgesse, senza tuttavia esser ligio ad alcun sistema. Sebbene fervido di fantasia, non veniva adescato da lusinghiere novità. Fermo nei sani principi si teneva in guardia da quel raffinamento manierato negli atteggiamenti e da quel bagliore esagerato di tinte, che già da allora facevano presagire il decadimento dell’arte. I suoi concittadini, desiderosi di possedere qualche sua pittorica invenzione, gli commissariarono un dipinto a olio rappresentante l’ultima cena di nostro Signore da collocarsi nell'Altare principale della Chiesa di S. Bernardino. Esiste il posizionamento originale di tale quadro con Muzio per pubblico istrumento del Notaio Benedetto Santi di Fratta il 20 Ottobre del 1605, firmato dai Priori della Fraternita di detta Chiesa e dal Flori.

L'esecuzione si doveva effettuare in Roma nel corso di un anno per il prezzo stabilito di cento fiorini da pagarsi in tre rate. Prima che tornasse a Roma ideò in patria la sua composizione. Radunava nella propria casa dodici individui scelti per fisionomia e forme caratteristiche, li faceva sedere intorno ad un proporzionato tavolo sistemandoli in quelle espressive posizioni che meglio corrispondessero al soggetto da lui pensato nella sua fantasia.

Quindi, valutando tutto l’insieme, modificava, combinava e rettificava i dettagli del quadro.

Non ancora soddisfatto, ritraeva in grande quei tipi di volti e di teste che più lo colpivano, colorandoli con tinte naturali e vivaci che poi effigiava con l’ideale che nella cena si ammira. Dopo un esercizio così accurato, eseguito il dipinto a Roma nel termine stabilito, lo portò a Fratta con gradimento e plauso generale.

 

(N.d.r.: Da qui il Guerrini riporta una lunga e accurata descrizione dell’opera che noi non riportiamo per non appesantire il testo, rimandando il lettore alla visione diretta del quadro).

 

Il Flori, con l’intento di stimolare il pietoso ricordo in un dipinto da esporsi alla venerazione dei fedeli, ha scelto l’istante più solenne della mistica Cena, senza nessuna paura per la difficoltà dell'effetto pittorico. Leonardo apriva una scena più vasta al movimento di violentissime passioni nell'affresco incantevole del suo Cenacolo. Sorpresa, risentimento, orrore, disdegno agitano i discepoli feriti dalle parole di Cristo: “Uno di voi è per tradirmi”, nell'incertezza a chi fosse diretta 1'acerba rampogna. Ma in quello del nostro pittore gli affetti rimangono concentrati, traspiranti solo dai volti, come esigeva 1'impressione della cerimonia augustissima senza quell'esternato scalpore e movimento, in cui il Lomazzo fa consistere lo spirito e la vita dell’arte. Il muto linguaggio dei colori, che parla più alla mente che alla sensibilità e lo stato d'inazione non vanno per lo più disgiunti dalla notevole monotonia, essendo i cuori maggiormente perturbati quanto più sono colpiti gli sguardi da quelle attitudini piene di vita e di energia, che nell’estrinseco agitamento lo stato dell'animo con evidenza effigiavano. Muzio però da valente artista conoscitore del cuore umano ha così ben modificato 1'effetto, il quale signoreggia d'alta religiosa meraviglia nell'aspetto e nella semplice movenza di ciascun apostolo, che evitando la pesante uniformità, ci permette d'indagare il loro pensiero, di distinguerne il carattere, di valutarne l'interesse che lo anima e di scandagliarne il particolare modo di sentire.

Sull'esecuzione pittorica devono esprimersi gli esperti. Ecco l’opinione di alcuni: “La figura del Cristo è con finezza d'arte condotta. In tutte si ammira purezza nel disegno, espressione e varietà nelle forme. Le pieghe non dure, non manierate, ma naturali e ben intese. L'armonia e vaghezza del colorito ritrae l'epoca migliore della Scuola Romana. Il pittore osservò accuratamente la natura, aggiungendovi tutto quel bello ideale, che fosse opportuno a ben esprimere ed incarnare i soggetti del suo concepimento. Di ciò fanno fede i molti studi praticati sul vero (dei quali vari sono ora posseduti dal nostro concittadino dottor Francesco Santini) per l’esecuzione di questa opera originale e forse unica del suo pennello. Nell'istituire il suo confronto fra le teste ritratte dalla realtà e le modificazioni introdotte nell'effigiarle sul quadro, si mostra quale fosse il gusto ed il discernimento dell’artista”.

 

Il Lanzi ed il Ticozzi danno alcuni cenni di questa dipinto, mostrandosi ignari dell’epoca ed anche del nome dell’autore. Ecco quanto disse il primo: “Alla Fratta . . . morì ancor giovane un certo Flori, del quale pur presso nulla è rimasto, oltre una Cena di nostro Signore in S. Bernardino. Ma questa è condotta assai bene sulle massime del buon secolo e degnissima

d'una Storia dell'arte (Scu. Rom. Ep. III p. 115). Dal secondo si ripete “Flori della Fratta operava nel sedicesimo secolo. La sua patria conserva una cena da lui assai ben condotta, che basterebbe solo a dargli il pieno diritto di occupare un distinto luogo fra i buoni pittori della Scuola Romana” (Tom. 2. p. 29).

 

Passati alcuni anni, il nostro Muzio sposò una ragazza di nome Panta della cospicua famiglia Francesconi di Fratta, dalla quale ebbe nel 1609 una femmina chiamata Stella; altra prole nel 1613 e nel 1614 un maschio nominato Lodovico che fu erede degli averi paterni, ed ebbe numerosa discendenza. I Collaterali del Flori si divisero in varie famiglie di tal cognome sempre dimoranti in Fratta. Nel 1644 era Parroco ed Arciprete di S. Giambattista un Flori D. Settimio, nonostante ciò la famiglia si estinse con il cognome verso la fine del Secolo XVIII.

 

Nei 1615 furono sborsati al Flori 44 scudi in pagamento di alcune pitture e dorature eseguite nelle due Cappelle presso la porta principale della Chiesa di S. Croce, come si rileva dai libri d' amministrazione di detta Confraternita (4), dipinti che non esistono più. Nel Maggio dell'anno suddetto lo stesso Flori e Bernardino Sermigni coprirono d'oro finissimo le colonne ed il vago intaglio dell’Altare maggiore del medesimo Tempio, ove è collocata la preziosa. tavola della Deposizione del Signorelli; ed il solo lavoro di doratura fu pagato 147,37 scudi con distinto regalo.

Appare anche da un documento pubblico esistente nell'Archivio Comunale, che nell'anno 1640 fu incaricato Muzio Flori con il suddetto Sermigni a presentare un progetto per ricostruire una nuova Cupola nel bel Tempio ottagonale della Madonna della Reggia, in sostituzione di quella già ideata dal primo Architetto Sig. Cavalier Lapparelli di Cortona nel 1559.

Possiamo peraltro pensare che per lungo tempo egli non dimorasse in Fratta, recatosi forse per lavori della sua professione alla Capitale od altrove. Di questo ne convince la rarità dei suoi dipinti; il che fece sospettare anche al Lanzi che egli morisse giovane. Noi. affidati a sicuri documenti, possiamo asserire che morì verso la metà del secolo XVII, senza sapere tuttavia l’anno preciso.

 

Note:

1. Non si può assegnare con precisione l'anno in cui è nato Muzîo per lo smarrimento dei libri battesimali di quell'epoca fra politici sconvolgimenti; sembra però che sia avvenuta intorno al 1580.

2. La Tavola della Incoronazione di Maria, incautamente venduta, forma ora bellissimo ornamento della Pinacoteca Romana mentre Lo sposalizio di S. Caterina, fu distrutto. La prima esisteva nella Chiesa dei M. Osservanti, il secondo dei Conventuali.

3. Quando Muzio si recò alla Capitale vari cospicui impieghi esercitavano in Roma illustri Frattensi, un Piccioli Gia. Paolo poi Camerlengo dell’accademia dì S. Luca, Paulucci Tommaso celebre letterato da Clemente VIII prescelto a suo Segretario di lettere latine; un Remeri Luca Uditore di Camera tanto apprezzato dalla Corte Romana; ed altri, da cui il nostro giovane pittore venne assistito e favorito.

4. Così negli antichi libri d'amministrazione, che incominciano nel 1609 a C. 33 e 37 esistenti nell'archivio della Fraternita di S. Croce.

 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta ora Umbertide” di Antonio Guerrini (completata Genesio Perugini) – Tipografia Tiberina Umbertide – 1883

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Bernardino Magi - Muzio Flori
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Leopoldo Grilli
Lodovico Flori
LODOVICO FLORI

 

Il gesuita ragioniere di Fratta che proseguì con successo gli studi di contabilità
sulla partita doppia intrapresi cento anni prima dal frate toscano Luca Pacioli

 

Lodovico Flori nacque a Fratta il 26 dicembre 1579 da famiglia benestante sebbene di rango modesto. Da giovinetto si dedicò allo studio delle leggi conseguendo il dottorato. All’età di 31 anni, il 25 marzo 1610, entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù a Roma dopo i suoi studi di filosofia, teologia e diritto. Concluso il biennio da novizio, nel 1612 si trasferì a Messina dove, nel 1614, fu ordinato sacerdote. Il 1° gennaio 1625 emise i voti solenni e diventò così “coadiutore spirituale” (1). Non emettendo il quarto voto solenne dei gesuiti, non sarà un “professo” (2). Fu nominato procuratore della Provincia sicula della Compagnia dal 1617 al 1632, quando lasciò la carica per occuparsi dell’amministrazione della Casa Professa di Palermo dove morì il 24 settembre 1647. Nonostante gli importanti e impegnativi incarichi amministrativi che rivestiva all’interno della Compagnia, Flori continuò a dedicarsi allo studio degli antichi codici e dei 60mila volumi del Collegio Massimo dove abitava. Frutto di tutto ciò furono 18 opere che ci ha lasciato, in parte da lui composte, in parte da lui tradotte, opere che si ritrovano nell’elenco pubblicato dal prof. Vermiglioli nella sua “Biografia degli scrittori perugini”. Tuttavia l’opera più importante del nostro illustre concittadino è senza dubbio il “Trattato del modo di tenere il libro doppio domestico col suo esemplare composto”, trattato per uso delle case e dei collegi della medesima compagnia nel Regno di Sicilia (stampato a Palermo nel 1636 da Decio Cirillo), opera ancora oggi citata, analizzata e studiata.

“Fu ai primi del ’600, col sopravvenire della grande crisi, che i dirigenti gesuitici dovettero preoccuparsi seriamente della situazione economica dell’ordine divenuta drammatica e allarmante. Furono perciò promosse inchieste, studi e ricerche nell’intento di stabilire quali mezzi fossero i più idonei per fronteggiare i paurosi disavanzi della gestione patrimoniale” (F. Renda, Bernardo Tanucci e i beni dei gesuiti in Sicilia, 1974, p. 65). Fu in questo clima che i superiori nel 1631, poco prima che lasciasse la carica di procuratore della Provincia, incaricarono Flori di “voler fare una breve instruttione da tenere i libri de i Conti per uso delle nostre Case, e Collegij in questo Regno di Sicilia”. Non sappiamo dove egli abbia appreso la materia contabile, “si può ipotizzare che acquisisca le sue conoscenze all’Università di Perugia, in quello stesso ateneo che più di un secolo prima ha insignito Luca Pacioli del ruolo di docente” (C. Cavazzoni e F. Santini, L’attualità del percorso scientifico di Lodovico Flori […], 2011, p. 605). L’autore avverte che “la buona cura de’ beni temporali è tanto necessaria a chiunque giustamente le possiede, e massime alle Religioni, che dependendo da essa il necessario sostentamento de’ Religiosi, se l’amministratione della robba non va bene, oltre la perdita, e deteroratione di beni, ne seguono infiniti altri inconvenienti». Flori è consapevole che il suo libro descrive una materia non facilmente assimilabile da tutti. “Chi leggerà questo libro, vedrà che in esso si procede a modo di scienza pratica, e che i termini, i principi, le conclusioni e le cose che in esso si deducono sono talmente tra di loro congiunte, che non si possono bene intendere né capire le ultime senza la cognizione delle prime. Chiunque vuole intendere bene questo modo, habbia patienza di leggere da principio tutto il libro”. Il quale si compone di tre parti: la prima ha per titolo “Del modo di formare le partite in Giornale, e riferirle al Libro”; la seconda “Come si debba disporre e ordinare il Libro per ottenerne l’intento che si pretende” e la terza “Dell’uso e Comodità del Libro disposto e ordinato al modo suddetto”.

Per la sua opera il Flori rivolge particolare attenzione sia al lavoro del monaco benedettino Angelo Monaco, di cui “si pone ad erede e prosecutore”, che ha adeguato la partita doppia alla realtà operativa dei Collegi del Suo Ordine, sia al “Tractatus de computis et scripturis” della “Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalita” di Luca Pacioli, nel quale il padre francescano “fa uscire il metodo della partita doppia dalla bottega del mercante, lo rielabora in modo astratto e sintetico secondo le sue concezioni di matematico e lo fa assurgere a modello scientifico, rendendolo così “immortale” nel tempo e nello spazio”. Il Pacioli, infatti, considera le aziende centri del progresso economico e sociale che per le loro finalità, devono tenere una ordinata contabilità utilizzando il lavoro di un competente ragioniere e di un computista per tenere correttamente i libri ed i registri contabili per poter misurare la consistenza patrimoniale e le sue variazioni.

Utilizzando la codificazione dei suoi principi contabili per risolvere le necessità pratiche richieste dalle aziende e per impostare con corretti ragionamenti la loro conduzione, il Flori ne estende il campo di applicazione alle corporazioni religiose, le cui attività sono ispirate da un comune interesse umano e spinte da uno stesso modo di intendere la realtà operativa.

Il 25 giugno 2016 si è svolto a Santa Croce un convegno di studi dedicato a Lodovico Flori, il gesuita ragioniere di Fratta, organizzato dal Centro Studi Mario Pancrazi e da Digital Editor Srl in collaborazione con il Comune e l’Università di Perugia. Nel corso dell’evento è stata presentata la copia anastatica dell’opera del Flori stampata dalla Digital Editor Srl di Umbertide.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

Note:

1. I “coadiutori spirituali” erano i preti che prendevano i voti semplici, non solenni, e che non pronunciavano il quarto voto al papa.

2. I “professi” erano i preti che avevano pronunciato i tre voti solenni di povertà, castità, e obbedienza e avevano fatto uno speciale voto di ubbidienza al papa.
 

Fonti:

- “Storia della terra di Fratta, ora Umbertide” di Antonio Guerrini, completata da Genesio Perugini -Tipografia Tiberina 1883, Umbertide – copia anastatica a cura della Digital Editor Srl 2009 - Umbertide

- “Studi su Lodovico Flori” a cura di Gianfranco Cavazzoni – Biblioteca del Centro Studi “Mario Pancrazi” – University Book – Stampa “Digital Editor Srl”, 2016 - Umbertide

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Massimo Martinelli

 

Fu il maestro della banda musicale di Umbertide, denominata

allora “Società Giuseppe Verdi”, dal 1872 al 1898

 

di Amedeo Massetti

 

Nonostante sia passato ben più di un secolo da quando Massimo Martinelli si dedicò anima e corpo alla banda e all'insegnamento della musica ai ragazzi di Umbertide, non si può non provare ammirazione e vivo affetto nello scoprire e rivivere le sue vicende umane e professionali. Come sempre accade a chi si dedica con entusiasmo ad una missione da cui si sente pervaso, anche al maestro Martinelli toccò subire inevitabili sacrifici e delusioni. La sua dedizione lo portò ad agire talvolta anche con ingenuità e imprudenza, fino a rasentare la sprovvedutezza, esponendolo allo sgomento di coinvolgere anche la famiglia, sprofondata nella povertà dopo un solido benessere. Per la sua candida generosità si è ben meritato il posto d'onore fra i maestri della banda. Ci piace regalargli questo riconoscimento simbolico nella convinzione di restituirgli un granello di quello che egli ci ha dato.

Ventiseienne, già preparato musicista, non esitò nel 1872 ad assumere la responsabilità del nuovo Concerto dei giovani, dirigendo poi il gruppo bandistico umbertidese, tra alterne vicende, per 26 anni, fino al 1898. Qualche anziano ricorda che la sua memoria era ancora viva nella banda dei successivi anni Trenta (testimonianza di Eraldo Arcelli), e di aver suonato, negli anni Quaranta, brani musicali da lui composti (testimonianza di Luigi Gambucci).

Massimo era nato il 12 marzo del 1846 da Antonio e Margherita Reggiani, in via di Castelnuovo (l'odierna via Cavour) al n. 33 dove aveva anche sede la rinomata attività del padre e dello zio Francesco, "fabricatori d'organi alla Fratta di Perugia".

Probabilmente i Martinelli conobbero una notevole sicurezza economica, anche per la proprietà di alcuni terreni appartenenti a Margherita, moglie di Antonio, proveniente da una famiglia di possidenti.

L'alta opera artigianale di Antonio e Francesco Martinelli aveva dotato molte chiese delle Marche, dell'Umbria, del Lazio e della Toscana di eccellenti strumenti, una quarantina in tutto, e la loro fabbrica organaria era diventata una delle più importanti e prestigiose dell'Italia centrale. Costruirono, tra gli altri, l'organo a due tastiere per la Cattedrale di San Rufino ad Assisi, quello della Cattedrale di Terni e il grande organo di Santa Maria in Aracoeli a Roma. Massimo frequentò da ragazzino la fabbrica del padre, acquistando abilità con il mestiere e familiarità con le tastiere degli strumenti che lì nascevano; imparò le prime nozioni di musica in famiglia dal genitore e dallo zio Francesco che, oltre ad essere bravi artigiani organari, conoscevano anche la musica e sapevano suonare gli strumenti che costruivano.

Il giovane li seguì nei loro frequenti spostamenti e nei lunghi soggiorni di lavoro nelle Marche, potendo così studiare organo e composizione alla cappella musicale di Loreto, diretta da Roberto Amadei.

Ebbe forse rapporti di studio anche con Agostino Mercuri, direttore del Civico Istituto Musicale di Perugia, pur se solo di sette anni più grande di lui". E probabile però che le prime nozioni sugli strumenti a fiato, in particolare quelle sul trombone, gli siano venute da Antonio Bernabei, maestro di cappella e direttore del Concerto municipale di Umbertide. È possibile anche che questi gli abbia insegnato i primi elementi di armonia, composizione e contrappunto.

Nel 1867, a 21 anni, Massimo fu con Garibaldi a Mentana, dove si ritrovarono 31 giovani di Umbertide. Cinque di questi ragazzi, che divisero con lui l'esaltante esperienza, entreranno nel 1872 a far parte della sua banda appena costituita.

Martinelli sposò Maria Censi, dalla quale, il 3 giugno 1874, ebbe una figlia, Chiara Gislena. L' 11 aprile 1876, trentenne, mentre era direttore della "Società Giuseppe Verdi" di Umbertide, inoltrò la domanda per essere ammesso all'Accademia Filarmonica di Bologna ed ottenere un diploma di quel prestigioso istituto. Presentò per questo due composizioni musicali che, nonostante intensamente impegnato alla direzione del Concerto e "al suono del pianoforte e del trombone", era riuscito a scrivere "nelle ore libere da quelle occupazioni".

I due brani erano un Notturno concertato dal Flauto, Clarino, Tromba e Trombone con accompagnamento d'orchestra, e una Sinfonia per Flauto, Clarino, Viola e Pianoforte. Nonostante fossero stati da lui definiti "meschini", forse per quel gusto di schermirsi e per quell'eccesso di modestia tipici di certi stili epistolari dell'Ottocento, non erano poi tanto male se la commissione di tre musicisti che li esaminò (tra i quali Antonio Fabbri, direttore dell'Accademia Filarmonica) espresse un giudizio positivo sia sulla "perfetta" conoscenza degli strumenti per i quali erano stati composti, sia sulla struttura armonica delle composizioni.

Le opere di Martinelli furono poi presentate all'intero corpo accademico insieme a quelle di altri musicisti che ugualmente avevano fatto richiesta di ammissione, e dopo due votazioni quasi unanimi Massimo, il 28 aprile 1876, venne "aggregato" all'Accademia come “Maestro Compositore Onorario”.

Il giovane musicista, per questo esame, aveva esibito a sostegno delle sue capacità di compositore gli attestati di due musicisti famosi (bene cogniti): il professor Agostino Mercuri ed il maestro Roberto Amadei.

 

Mercuri, il 17 dicembre 1872, in una dichiarazione ufficiale redatta su carta intestata del Civico Istituto Musicale di Perugia, scriveva:

 

Il Signor Massimo Martinelli di Umbertide mi ha presentato ad esame alcune sue composizioni, e riduzioni per banda, allo scopo di avere da me un certificato per uso di Concorso. Posso pertanto documentare che dall'esame fatto di quelle partiture, si rileva come il Sig. Martinelli sia fornito di intelligenza, e di cognizioni sufficienti per potere con lode scrivere per Banda, e contemporaneamente dirigerla. Tanto depongo per la verità potendo il Signor Martinelli usare di questa mia dichiarazione in qualunque modo migliore possa giovargli.

In fede

                                                                                                                                                                  Prof. Agostino Mercuri

 

E Amadei, il 17 marzo 1873:

 

Richiesto dal giovane Massimo Martinelli di Umbertide, certifico che questi è dotato delle qualità necessarie per dirigere una Banda, comporre e ridurre pezzi di musica per la medesima. Spero che questo mio documento possa essergli utile presso chi da ragione.

 

                                                                                                                                                                 Roberto Amadei

                                                                                                                          Maestro Compositore e Direttore della Cappella di Loreto

 

Massimo era la giovane guida e l'anima della Società "Verdi", ma all'impegno con cui si dedicava all'insegnamento e alla direzione della banda non corrispondeva un adeguato compenso da parte del Comune. Fu costretto così a lasciare il posto: ai primi di gennaio 1876 dovette lavorare fuori Umbertide, dove rimase probabilmente fino a quando non gli fu affidato il compito di direttore del Concerto municipale, con uno stipendio adeguato al ruolo. Dal 1878 al 1879, oltre che quella di Umbertide, diresse la banda di Montone curandone la scuola di musica, nominato come maestro da quella Società Filarmonica, la cui decisione sarà ratificata dal Consiglio comunale il 28 maggio successivo. Lavorò con professionalità e disinteresse: la Filarmonica montonese gli espresse la propria riconoscenza "e pel molto avanzamento in sì breve tempo della istruzione degli allievi e per la nessuna spesa incontrata dalla Società, essendosi il sig. Martinelli prestato gentilmente". Massimo, nonostante le non floride condizioni economiche, aveva svolto la sua opera gratuitamente. La Filarmonica Artigiana Braccio Fortebracci (o Fortebraccio) lo rielesse anche per l'anno successivo a maggioranza dei voti come maestro di musica, nonostante il montonese Celso Pasqui avesse presentato l'unica domanda per avere questo incarico e risultasse apparentemente il candidato favorito. Durante la direzione di Martinelli, (probabilmente su sua richiesta) il comune di Montone acquistò per la banda alcuni strumenti a percussione, "una Gran cassa con Piatti della più piccola dimensione".

Agli inizi del 1883, dopo la crisi della banda di Umbertide, Massimo lavorò come maestro di musica a Foiano della Chiana.

Partecipò anche ai concorsi per maestro delle bande di Città di Castello e di Marsciano. Nel 1884 riprese l'insegnamento della musica ad Umbertide per incarico del Comune e nel 1889, ricostituitasi la banda, fu riassunto come direttore.

Oltre che alla direzione del gruppo bandistico, lo troviamo spesso anche come organista in importanti manifestazioni religiose in paese e fuori.

Martinelli compose opere per banda, per pianoforte ed organo, molte delle quali pubblicate ed eseguite in varie parti d'Italia. E’ nota, tra le altre, “La caccia”, marcia caratteristica (manoscritta, Umbertide 1877). L'Editore De Giorgi, di Milano, pubblicò le sue composizioni “La povera”, polka per banda, e “Sulle rive del Tevere”, valzer per pianoforte a quattro mani che Massimo dedicò alle sorelle "Marietta e Franceschina" Zucchini di Umbertide; un pezzo di virtuosismo che probabilmente le ragazze erano in grado di suonare.

 

Il 3 dicembre 1899 alle 17.30, a soli cinquantatre anni, Massimo Martinelloi si spense nella sua casa al n.33 di via Cavour, plausibilmente stroncato da una grave malattia polmonare. Lasciava la moglie Maria, la figlia Chiara Gislena e la mamma Margherita che cesserà di vivere tre anni dopo.

Il giorno successivo si recarono in Comune per la dichiarazione di morte allo Stato Civile il cognato Americo Censi, muratore, e il clarinettista della banda Luigi Bartoccini, sarto.

 

Dal libro di Amedeo Massetti “Due secoli in marcia – Umbertide e la banda” – Maggio 2008

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LEOPOLDO GRILLI

 

La storia di Leopoldo Grilli, figura di spicco dei mazziniani repubblicani umbertidesi,
è stata raccontata da Federico Ciarabelli nel suo libro dedicato ai garibaldini locali.

 

Anche se non è citato in alcuna lista come volontario umbertidese, è doveroso riportare alcune note sulla figura di Leopoldo Grilli. Personalità politicamente influente, godeva di grande stima e prestigio. Ebbe un ruolo importante nella costituzione dei primi nuclei delle organizzazioni operaie e democratiche e nel corso della sua vita, oltre a lavorare nella sua caffetteria, svolse un'intensa attività politica, ricoprendo incarichi pubblici tra i quali quello di consigliere comunale e assessore comunale, segretario della Società dei Reduci delle Patrie Battaglie, segretario della Società operaia di mutuo soccorso e consigliere dell'Unione Operaia di Umbertide. Dalle note che seguono, tratte da varie pubblicazioni, emerge chiaramente il suo ruolo sulla scena del movimento repubblicano.

Nel Dizionario del Risorgimento Nazionale la voce (1) dedicata a Grilli ci dice che nacque nel 1848 (erroneamente indicando Umbertide come luogo di nascita) e che combatté nelle file garibaldine sui monti del Tirolo nel 1866 e nel 1867 a Mentana. Mazziniano convinto e ardente, soffrì lunghe persecuzioni, l'esilio e il carcere. Fu assessore comunale a Umbertide, membro della Congregazione di Carità e segretario-cassiere della società operaia di mutuo soccorso.

Leopoldo Grilli nacque a Sigillo il 24 aprile 1848 da Antonio e Maria Polidori. Il suo trasferimento a Umbertide ebbe luogo nel 1870 dove, il 21 giugno 1874, sposò Francesca Natali (nata il 1° giugno 1853).

Alcune informazioni sulle vicende di Grilli sono state pubblicate da Bistoni (2): oltre alle campagne italiane del 1866 e 1867 partecipò anche alla campagna di Garibaldi in Francia nel 1870. Dalla medesima fonte è possibile avere informazioni sul processo e il mandato di arresto che obbligò Grilli all'esilio a Lugano.

La mattina dell'8 febbraio 1878 vennero trovati affissi sui muri di Umbertide dei manifesti che, come è scritto nel rapporto dei carabinieri, erano istiganti alla rivolta, alla guerra civile, all'odio contro la monarchia e il governo. Le indagini furono rivolte subito in direzione del Circolo Pensiero e Azione, di cui era presidente Leopoldo Grilli. Vennero spiccati mandati di cattura per varie persone e il 20 febbraio, con un grande dispiegamento di forze dell'ordine, furono avviate le attività per l'arresto simultaneo dei ricercati. Quasi tutti furono catturati facilmente, ma i guai per i carabinieri si verificarono nel tentativo di arrestare Grilli.

Un carabiniere e una guardia, poco dopo le sei del mattino, si presentano alla caffetteria appena aperta. La moglie e la suocera di Grilli iniziarono a gridare e a chiedere aiuto. Si unirono allora altri carabinieri, ma un gruppo di operai che si recavano al lavoro, armati dei loro strumenti (pale, badili), risposero alle grida e gli scontri che ne seguirono consentirono a Grilli di sfuggire all'arresto e a dileguarsi. Dalle indagini successive si venne a sapere che Grilli, grazie all'aiuto di Ernesto Nathan (3), riuscì a riparare in Svizzera dove lavorò presso la farmacia Fontana di Lugano.

Dell'esilio svizzero abbiamo informazioni attraverso un testo dedicato a Carlo Cafiero curato da Gian Carlo Maffei (4). Il nostro concittadino entrò a far parte del “gruppo di Lugano”, originariamente composto dal Cafiero (5) stesso, Egisto Marzoli. Filippo Boschiero, Florido Matteucci (6) e Gaetano Grassi (del gruppo facevano parte altri componenti di varie nazionalità). Grilli era giunto a Lugano il 20 febbraio 1880 e si era messo, come lui stesso afferma, in relazione amichevole con Cafiero. Nel mese di maggio 1881 le autorità ticinesi registrarono come ancora presenti a Lugano tre o quattro internazionalisti-anarchici e cioè Cafiero, Grilli e Apostolo Paolides.

Il gruppo di Lugano aveva suscitato nelle autorità svizzere molte preoccupazioni, anche perché la prefettura di Milano comunicò di temere un'azione di quel gruppo volta a turbare l'ordine pubblico in occasione della esposizione nazionale nella città lombarda. Così nel maggio 1881 Cafiero, Paolides e Grilli vengono interrogati una prima volta. Le indagini e i controlli sul gruppo e sui movimenti di persone a loro legati si svolsero costantemente per tutti i mesi successivi, ma la situazione mutò a settembre 1881.

A seguito dei ulteriori controlli le autorità, temendo che il gruppo, rinforzato da nuovi arrivi, fosse in procinto di compiere un attentato, alle 2:30 del mattino del 5 settembre procedettero all'arresto di Cafiero e di tutti coloro che si trovavano con lui. Ad alimentare la tensione si aggiunsero voci circa la preparazione di un attentato contro Umberto I, che allarmarono ancora di più le autorità svizzere. La loro preoccupazione salì quando a Lugano l'8 settembre, giunsero altre persone accolte alla stazione da Grilli e altri.

I controlli e le indagini non ebbero conseguenze e tutti furono scagionati. La situazione a Lugano si era fatta però troppo pesante per questi personaggi e quindi Cafiero si spostò a Locarno e gli altri rientrarono in Italia. Per Grilli la situazione giudiziaria italiana si era conclusa il 3 maggio 1880 quando la camera di consiglio presso il tribunale di Perugia decise (in relazione ai fatti umbertidesi del 1878) di non procedere per insufficienza di indizi, revocando tutti gli ordini di cattura.

Rientrato a Umbertide Grilli continuò le sue attività politiche, amministrative e sociali fino alla sua morte, avvenuta il 22 settembre 1912, che fu annunciata da alcuni organi di stampa.

 

Da “Il Popolo” organo dei repubblicani umbro-sabini:

 

Leopoldo Grilli

Muoio nella fede di Giuseppe Mazzini: così, nelle sue ultime lettere, il vecchio e ardente Mazziniano. Il lutto degli amici di Umbertide è lutto dell'intero partito repubblicano dell'Umbria. Le nostre bandiere sia abbrunano ancora: dopo Domenico Benedetti Roncalli: Luigi Soleri; dopo Luigi Soleri: Leopoldo Grilli.

Sono i validi soldati del vecchio partito d'azione che ci abbandonano.

 

Leopoldo Grilli - tenace è immutato assertore della fede mazziniana - fu, nelle cospirazioni repubblicane e sui campi della patria, con Garibaldi, uomo di azione; e anima aperta: fiero, ribelle. Non conobbe i comodi opportunismi. Conobbe sacrifici, disillusioni, dolori. Fu contro il parlamentarismo; e tale rimase, senza piegure [sic] a blandizie di avversari o di amici: anche tutto solo, chiaro nella sua fede e nelle sue speranze.

 

Educazione ed armi! In questo binomio riassunse gl'ideali della sua fede profonda. Alla memoria purissima del vecchio mazziniano, che mai ripiegò un lembo della bandiera adorata, va il nostro pensiero di dolore... ricordando ed augurando. E, soprattutto, promettendo (7).

 

Da “La Democrazia”, quotidiano della provincia dell'Umbria:

 

Nelle ore pomeridiane di ieri, si è spento, dopo breve malattia, in Umbertide nella ancor vegeta età di 64 anni LEOPOLDO GRILLI una delle più belle e caratteristiche figure della democrazia umbra. Repubblicano ardente e convinto, mantenne fede costante al suo ideale fino alla morte.

Combatté giovanissimo nelle file garibaldine sui monti del Tirolo e a Mentana; partecipò poi a tutte le cospirazioni repubblicane che furono provocate ed alimentate dall'inconsulto spirito reazionario dei bigotti della monarchia, destri e sinistri, che, dal 1870 al 1898, più volte riuscirono a mettere in pericolo il trono.

Fu anch'Esso ferocemente perseguitato, ed affrontò con indomita fermezza l'esilio e il carcere. Convinto che il parlamentarismo fosse un semplice strumento di corruzione, che le alleanze con gli altri partiti costituissero un pericolo di deviazione. Egli si mantenne fedele alla tattica intransigente, rimanendo completamente appartato da tutte le lotte politiche e amministrative combattutesi in questi 25 anni.

La sua opera, che avrebbe potuto essere preziosa per il paese, andò quindi perduta in uno sterile isolamento; ma per la fermezza del suo carattere, per la sua proverbiale onestà, per l'integrità indiscussa e indiscutibile di tutta la sua vita laboriosa e semplice, Egli fu stimato e rispettato anche dagli avversari.

Fu anzi col voto di questi eletto più volte a membro della Congregazione di Carità, unico uffizio che accettò, non senza riluttanza, e nel quale egli dette prova constante di premuroso zelo e di intelligente operosità.

La sua morte apre un grande vuoto nelle file della democrazia umbertidese; poiché sparisce con Leopoldo Grilli un luminoso esempio di virtù e di carattere (8).

 

Note:

 

1. Giustiniano degli Azzi Vitelleschi. “Grilli Leopoldo”. In Dizionario del Risorgimento Nazionale. Vol. 3, Le persone, E-Q Milano: Vallardi, 1933, pag.260.

2. Bistoni, Origini del movimento operaio nel Perugino, pp. 325-329.

3. Ernesto Nathan (Londra 1845 – Roma 1921), discepolo di Giuseppe Mazzini, fu Gran Maestro della Massoneria Italiana e nei primi anni del ‘900 sindaco di Roma. Altre informazioni su http://www.treccani.it/enciclopedia/ernesto-nathan (Dizionario-Biografico).

4. Carlo Cafiero. Dossier Cafiero. A cura di Gian Carlo Maffei. Con introd. Di Pier Carlo Masini. Bergamo: Biblioteca M. Nettlau, 1972.

5. Carlo Cafiero (Barletta 1846 – Nocera Inferiore 1892) di ricca famiglia pulgliese era diplomatico di carriera. E’ stato uomo politico socialista. Conobbe Marx ed Engels e si votò alla diffusione del socialismo rinunciando ai suoi beni. Tradusse e pubblicò un Compendio del Capitale di Marx divenendone così il primo divulgatore in Italia. Prese parte ai moti di Benevento del 1877 per cui scontò 18 mesi di carcere. Fu una figura preminente del socialismo anarchico. Per maggiori informazioni http://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-cafiero_(Dizionario-Biografico)/.

6. Florido Matteucci (Città di Castello 1858 – dopo il 1924) Anarchico, partecipò alla rivolta nel Matese. Fu presente a vari congressi degli anarchici e internazionalisti, sostenendo le tesi insurrezionaliste. Varie volte processato e condannato, fu attivo in Italia, Francia, Svizzera e in Egitto. Scrisse per molti giornali e riviste. Nel 1885 partì per l’Argentina dove fondò un giornale. Divenne massone e successivamente si ritirò dalla vita politica senza rinnegare le sue idee. Sono sconosciuti la data e il luogo di morte.

7. “Leopoldo Grilli”. In Il Popolo 597 (29 set. 1912).

8. “Necrologico Leopoldo Grilli”. In: La Democrazioa 218 (23 set. 1912).

 

Dal libro di Federico Ciarabelli “Umbertidesi nel Risorgimento – Note su cento patrioti” Digital Editor Srl – Umbertide, Settembre 2021.

 

Una lapide marmorea, posta sul muro esterno della sua casa in piazza Matteotti, dice:

“In questa casa visse cospirò educò

Leopoldo Grilli morto nella fede di

Mazzini il 22 settembre 1912”.

 

Il 18 dicembre 1960 l’Amministrazione comunale dedicò a Leopoldo Grilli l’attuale via, posta vicino alla sua casa natale.

 

Dal libro di Bruno Porrozzi “L’uomo nella toponomastica” – Ass. Pro-Loco Umbertide, 1992.

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