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Penetola

LA STRAGE DI PENETOLA 

 

Presentiamo qua una ricostruzione che la docente e Dirigente scolastica Paola Avorio ha condotto negli anni su una delle stragi più crudeli che avvennero con il passaggio del fronte ad Umbertide, precisamente al vocabolo Penetola di Niccone. Strage che riguardò la sua famiglia. Le sue ricerche confluirono nel libro “Tre Noci”. 

 

Gentilmente ci concede questo lungo ed accurato estratto del suo lavoro.

 

 

 

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Foto: 25 giugno 2011. La presentazione del libro "Tre noci" (Foto Fabio Mariotti).

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LA STRAGE DI PENETOLA

 

(a cura di Paola Avorio)

 

 

Nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1944, nell’altotevere umbro, in un casolare denominato località Penetola di Niccone, a 6 chilometri a nord-est di Umbertide, dodici persone vengono barbaramente uccise dai soldati appartenenti al 305° battaglione genieri dell’esercito tedesco di stanza nella vallata del Niccone.

 

Le dinamiche operative dell’eccidio sono oggi a nostra conoscenza, mentre permangono forti dubbi e perplessità sulle cause e sulle modalità della strage stessa, per molti aspetti atipica rispetto alle tante altre di cui l’esercito tedesco si è macchiato durante la ritirata verso la linea gotica nell’estate del 1944. 

A Penetola si è consumato uno degli episodi più atroci tra quelli accaduti in Umbria durante il secondo conflitto mondiale. Come per molte stragi ‘nascoste’ (1) della guerra ai civili (2) che si è scatenata in Italia dopo l’8 settembre 1943. 

[…] Sulla base delle analisi di vari esperti consultati, quella di Penetola appare ciò che molti hanno definito una “strage di ritirata”, in cui i soldati dell’esercito regolare tedesco colpiscono generalmente tra le 24/36 ore prima dell’arrivo degli alleati e del loro conseguente ripiegamento verso la Linea Gotica. A questa dinamica purtroppo abbastanza consueta si affiancano però comportamenti del tutto anomali rispetto alle stragi compiute dall’esercito tedesco in ritirata.

 

Come la maggior parte dei poderi del tempo, nel 1944 il vocabolo Penetola era abitato e gestito da mezzadri che, in questo caso, lavoravano per conto del proprietario terriero Giovanni Battista Gnoni, tenutario di Montalto di Niccone, Umbertide, Perugia. La famiglia dei mezzadri residente a Penetola era costitutita da 12 persone:

Mario Avorio, sua moglie Agata Orsini (detta Dina), i loro cinque figli Renato, Antonio, Carlo, Maria e Giuseppe, il fratello adottivo di Mario Avorio, Avellino Luchetti, sua moglie Rosalinda Caseti, i loro tre figli Guido, Remo e Vittorio.

 

Durante il passaggio del fronte, nel giugno del 1944 era stata ospitata la famiglia della sorella di Mario e Avellino, , Speranza Luchetti, suo marito Andrea Capecci e il, loro figlio Giuseppe.

 

Il casolare dista circa 2 chilometri dall’abitato di Niccone, che nel giugno del 1944 era occupato dalle truppe tedesche. Gli abitanti della frazione umbertidese si erano rifugiati da parenti e amici nei casolari della campagna circostante, sia per sfuggire ai tedeschi che per avere del cibo a portata di mano. Dovendo lasciare le rispettive abitazioni di Niccone, le famiglie dei Forni e dei Nencioni, apertamente antifasciste, ebbero maggiori difficoltà nel trovare un riparo, Vennero ospitate nel casolare di Penetola presso le famiglie Avorio e Luchetti. 

Della famiglia Nencioni si rifugiarono a Penetola: Ferruccio Nencioni, sua moglie Milena Ferrini, una delle due figlie, Giovanna (l’altra figlia, Gaetana, era con la nonna materna Settimia presso un’altra famiglia), la madre di Ferruccio, Erminia Renzini, il fratello di Ferruccio, Conforto Nencioni, la sorella di Ferruccio, Eufemia Nencioni, Conforto Nencioni, impiegato dell’APM di Milano, era stato tra i più attivi organizzatori dello sciopero dei tranvieri milanesi del marzo 1944. Denunciato e ricercato dagli uomini della temibile Muti, la milizia fascista milanese, sfuggì alla cattura e riparò a Niccone, presso la casa natale.

I componenti della famiglia Forni rifugiati a Penetola erano: Canzio Forni, due dei suoi tre figli Ezio ed Edoardo, la moglie Rosa e il figlio maggiore Ugo, si trovavano sfollati presso un’altra famiglia.

 

La notte tra il 27 e il 28 giugno 1944 queste 24 persone dormirono a Penetola, chi nelle camere del casolare, chi nel vicino annesso. Verso circa le una del 28 giugno 1944, soldati tedeschi armati bussarono alla porta del casolare e svegliarono tutti. Coloro che dormivano nell’annesso, vennero svegliati, derubati dei propri averi e.condotti dentro la casa con gli altri. Tutti vennero rinchiusi nella stanza rivolta verso il bosco. 

Gli animali furono fatti uscire dalle stalle. I soldati presero il fieno del pagliaio e il legname trovato sul posto, li accatastarono alle pareti della stanza dove erano state rinchiuse le 24 persone e alle mura della casa e, utilizzando della benzina, appiccarono un fuoco devastante.

 

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 L’incendio divampò immediatamente. La stanza venne presto invasa da fumo e fuoco. La porta della stanza prese fuoco e molte delle persone cercarono di sfuggire alle fiamme rifugiandosi negli angoli più lontani. Resisterono alle esalazioni del fumo aiutandosi con dell’aceto, contenuto in una piccola damigiana (caretello) che si trovava in cucina. 

Il figlio maggiore di Mario e Dina Avorio, Renato,  di appena quattordici anni, venne colpito quasi immediatamente da una granata mentre cercava di guardare fuori dalla finestra della stanza, perdendo completamente il braccio sinistro. Cercò di convincere la madre disperata a non pensare più a lui che stava morendo dissanguato, poi tentò la fuga dalla porta principale: il suo corpo dilaniato dalle raffiche dei fucili venne ritrovato sul pianerottolo in cima alla scala di accesso. I suoi due fratellini, Carlo e Antonio, sfuggirono al controllo dei genitori, impegnati a soccorrere il figlio maggiore, e cercarono invano la fuga dalle fiamme che li avvolsero. I loro corpi vennero ritrovati abbracciati, in gran parte carbonizzati, dentro la casa, in un angolo della grande cucina.

Il figlio diciottenne di Avellino Luchetti, Guido, tentò anch’egli di guardare fuori dalla finestra: venne colpito da una raffica di fucile alla testa e cadde a terra senza vita, ad un passo dalla cuginetta Maria, che aveva protetto fino ad un attimo prima di morire tenendola in braccio. 

Canzio, Edoardo ed Ezio Forni si calarono da una finestra laterale, dentro il piccolo porcile, una volta a terra vennero tutti uccisi con colpi di arma da fuoco ravvicinati. Il corpo di Canzio venne ritrovato riverso, il volto in parte consumato dagli stessi animali, quello di Edoardo seduto sopra la mangiatoia, Ezio poco lontano tra l’erba.  

I corpi dei coniugi Milena Ferrini e Ferruccio Nencioni vennero ritrovati vicino alla porta d’ingresso dell’abitazione, devastati dalle fiamme. Poco prima Ferruccio aveva aiutato il fratello Conforto a calare i propri familiari nella stalla delle pecore tramite un foro sul pavimento che lo stesso Conforto era riuscito a praticare. Ancora oggi Giovanna Nencioni ricorda perfettamente il momento in cui il padre l’ha calata dal foro, chiedendole di aspettarlo mentre tornava indietro a riprendere la madre e la moglie. Conforto, Erminia, Eufemia e Giovanna Nencioni, scoperti dai soldati nella stalla delle pecore, vennero colpiti a distanza ravvicinata con raffiche di mitra. Unica superstite la piccola Giovanna che cadde a terra ferita e che più tardi riuscirà a mettersi in salvo sotto un carro nell’aia.

Verso l’alba i soldati se ne andarono. Dina Orsini ne contò diciotto che si allontanano in fila indiana percorrendo il sentiero che costeggia il bosco, gli zaini sulle spalle colmi degli oggetti rubati. Poco dopo, sporgendosi da una delle finestre laterali, scorse sulla collina in direzione del Castello di Montalto il proprietario del podere, Giovanni Battista Gnoni. Cercò invano di farsi vedere. 

La scala di accesso dell’abitazione era crollata. I superstiti erano intrappolati in casa. In mancanza di soccorsi, si calarono da una delle finestre laterali utilizzando due lenzuola annodate. Coloro che erano in grado di farlo scapparono attraverso i campi. Mario e Dina, rimasti gravemente feriti in seguito all’esplosione della bomba che aveva mutilato il loro figlio maggiore, si nascosero nel vicino fossato. Vennero tirati fuori solo dopo alcune ore e da alcuni soldati tedeschi che li condussero al lontano ospedale di Città di Castello, percorrendo 20 chilometri sotto il pericolo dei bombardamenti alleati. 

Solo dodici delle ventiquattro persone rinchiuse nel casolare sono sopravvissute: 11 superstiti appartengono alle famiglie dei mezzadri Avorio e Luchetti, nessun superstite tra le due famiglie degli sfollati Nencioni e Forni tranne la piccola Giovanna.

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​I militari tedeschi di stanza al Castello di Montalto condussero Mario e Dina al Seminario di Città di Castello, adibito ad ospedale, dove arrivarono alle ore 14,00 del 28 giugno 1944. Tutta la zona era occupata dalle truppe dell’esercito tedesco, ma lo spazio aereo sovrastante era da tempo testimone di forti incursioni dell’aereonautica alleata, che colpiva senza sosta  tutto quello che a terra somigliava anche vagamente ad un bersaglio da abbattere. Infatti, il giorno dopo, il 29 giugno del 1944, tutto l’abitato di Niccone venne bombardato dagli alleati.

Inspiegabile dunque, se lo si guarda con gli occhi di chi studia le stragi naziste, il gesto di quei due soldati, chiaramente dettato da ordini superiori, che dovettero rischiare la propria vita per salvare quella di Mario e Dina. 

Al Seminario di Città di Castello si trovava il rettore Mons. Beniamino Schivo (3) . Il giorno della strage di Penetola, compiva 34 anni. Anche per questo si ricorda bene la data dell’arrivo di Mario Dina, che i due soldati scaricarono davanti al portone del seminario definendoli ‘banditen’, partigiani, trovati con le armi ma, nonostante ciò, soccorsi, e a che rischio!, da militari tedeschi come quelli autori della strage.

Le suore che gestivano l’ospedale redigevano un puntuale registro con le date dei ricoveri, delle cure somministrate e delle dimissioni dei pazienti in cui troviamo conferma delle date di ingresso e di dimissione dei due coniugi.

 

Alcuni giorni dopo la strage, militari tedeschi, accompagnati da un interprete, giunsero al Seminario di Città di Castello e interrogarono Mario e Dina. Quest’ultima ha raccontato l’episodio in una testimonianza:  “Il giorno dopo o alcuni giorni dopo, non ricordo, ricevemmo la visita di alcuni militari tedeschi, fra i quali alcuni ufficiali. Vollero informazioni e chiarimenti su quanto era accaduto e se vi erano state da parte di qualcuno di noi azioni gravi da scatenare la violenta rappresaglia. Ci ascoltarono e prima di andarsene dissero che era stato autorizzato il trasporto delle salme al cimitero[…]. Capimmo che la tragedia non aveva risparmiato le nostre creature […]. Passarono alcuni giorni e i soldati tornarono nuovamente ad interrogarci. Ci parve di capire che al comando tedesco di zona non vi era traccia né di coloro che in qualche modo avessero ricevuto ‘offesa’, né di coloro che avevano autorizzato la rappresaglia” (4).

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Il trasporto delle vittime di Penetola al cimitero di Montemigiano non avvenne senza difficoltà. I soccorritori furono i contadini e gli sfollati delle vicine case coloniche, che si trovarono di fronte a scene raccapriccianti e alla oggettiva difficoltà di trasportare così tanti cadaveri, alcuni dei quali carbonizzati. Dovettero opporre resistenza anche alla iniziale proposta delle autorità di seppellire le salme in una fossa comune. Alla fine riuscirono ad avere l’autorizzazione al trasporto delle salme al vicino cimitero di Montemigiano. Viste le condizioni delle salme, i conoscenti e familiari che presero parte al loro trasporto e sepoltura non poterono non avere ripercussioni psico fisiche di varia natura, alcune anche permanenti.

Nel frattempo gli altri superstiti vennero ospitati nei ‘rifugi’ e in alcuni casolari di famiglie amiche. Il 26 luglio Mario Avorio e Dina Orsini tornarono a Penetola. In attesa di ricostruirsi la casa vennero ospitati in vari luoghi, tra cui per un periodo nella casa del giardiniere al Castello di Montalto Nessuna denuncia di danneggiamento del casolare di Penetola è stata mai fatta dal proprietario, Giovanni Battista Gnoni o dal figlio di questi, Antonio Gnoni, allora ventenne. 

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Tramite le molte testimonianze dirette, si è subito accertato che il gruppo di soldati tedeschi autori della strage era partito da Casa Trinari, in località La Dogana della Mita. Dino Trinari, allora diciassettenne, ha più volte dichiarato di non essere mai stato interrogato sull’accaduto né dalle autorità repubblichine, né dai carabinieri.

Presso l’archivio storico del Comune di Umbertide è possibile consultare alcuni documenti redatti personalmente da alcuni familiari delle famiglie Forni e Nencioni, come anche di altre famiglie e proprietari di ditte dell’abitato di Niccone Durante il bombardamento alleato del 29 giugno 1944, giorno successivo alla strage di Penetola, molte abitazioni e le poche aziende dell’abitato di Niccone vennero danneggiate. Questi documenti presenti nell’Archivio storico di Umbertide e redatti nel settembre del 1944 riguardano la richiesta di risarcimento per tali danni (5). 

Non è stato possibile rinvenire alcun documento o notizia, anche indiretta, sulla strage o sui danni a cose e persone presenti a Penetola, nonostante i superstiti delle famiglie delle vittime abbiano più volte dichiarato di aver sporto denunce o reso testimonianze, anche presso gli uffici comunali. Nell’immediato dopoguerra, l’archivio comunale fu danneggiato da un incendio. 

Mario e Dina Avorio, Avellino Luchetti e Ugo Forni si sono recati varie volte presso gli uffici comunali e dai Carabinieri di Umbertide. Di tutti gli accessi solo due risultano documentati. In entrambi Mario e Dina Avorio hanno sempre sostenuto di non aver ritrovato scritto quanto avevano dichiarato alle autorità competenti e non hanno mai concordato con le inesattezze che vi erano invece state riportate. I documenti sono:

1) relazione redatta dal sig. Agostino Bernacchi su incarico del Sindaco di Umbertide Giuseppe Migliorati, a sua volta incaricato dalla Regia Deputazione di storia Patria, sede provinciale di Perugia (dove è stato reperito il documento, non presente negli archivi comunali), di relazionare sui fatti accaduti dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.

2) verbale redatto dal maresciallo dei Carabinieri di Umbertide con le dichiarazioni di Mario e Dina (Agata in firma) Avorio e Ugo Forni, rilasciate in data 27 novembre 1944; verbale facente parte di una relazione richiesta dal Comando Centrale della Provincia di Perugia volta ad accertare tutti i fatti commessi nel periodo del passaggio del fronte (Documento reperito presso l’Archivio Centrale di Stato a Roma e non presente in copia in nessun archivio umbro). 

Le firme apposte a tali verbali dai dichiaranti Mario Avorio e Agata Orsini non corrispondono a quelle con cui hanno firmato tutti i documenti della loro vita. Gli stessi hanno sempre dichiarato di essersi rifiutati di firmare il documento perché erano state omesse molte delle loro dichiarazioni verbali.

In un documento dell’esercito alleato datato 13 luglio 1944 (6)  si leggono queste poche righe: “Nel villaggio di Niccone 13 persone sono state rinchiuse in una casa e arse vive dai tedeschi. Motivo: alcuni spari erano stati diretti dalle colline verso alcuni soldati tedeschi”.

E con questo si completano le inesatte, approssimative e spesso fuorvianti documentazioni, italiane e alleate relative alla strage di Penetola.  

 

Di contro, l’allegato al diario di guerra (KTB) del Comando generale del 76° corpo d’armata corazzato dell’esercito tedesco conferma  le numerose testimonianze orali riguardo la presenza di soldati tedeschi in località La Dogana di Mita, al tempo nota come casa Trinari. Lo stesso documento non lascia dubbi sull’appartenenza di quei soldati al 305° battaglione genieri della Wehrmacht:  

Comando generale  del LXXVI corpo corazzato   Stanziamento al  25 giugno 1944

(Pagine 65-67), punto V:

Pi. Btl 305 (Battaglione genieri 305)

Impiego: Sbarramento nel settore della linea principale del fronte fino alla valle del Niccone compresa

1. compagnia: linea principale del fronte fino a Castel Rigone /san Giovanni

2. compagnia: fino alla valle del Niccone compresa

3. compagnia: ritirata, si riunisce nella Valle del Niccone per sostituirsi all’azione di sbarramento del 818 battaglione genieri di montagna

Luogo di stanziamento: 1,5 km NO Mita, nella Valle del Niccone 

Forze : forze effettive 10/86/567

Forze combattenti 6/36/238 (7)

 

 

Dopo l’8 settembre del 1943 anche per i civili italiani iniziò la guerra combattuta. Ai bollettini dal fronte si aggiunsero quelli dalle città e dalle campagne italiane, scenario di scontri tra le diverse fazioni e di violenti bombardamenti aerei.

Il 25 aprile del 1944 il centro di Umbertide venne pesantemente bombardato dagli Alleati durante le operazioni di abbattimento del ponte sul fiume Tevere. Settantaquattro persone persero la vita a causa di questa ‘riuscita’ operazione militare che aveva lo scopo di impedire la ritirata dell’esercito tedesco attraverso le principali vie di collegamento stradale e ferroviario, le ‘Stassenmeldungen’, come vengono definite nei rapporti militari tedeschi dell’epoca. 

A tale categoria apparteneva la strada che anche attualmente collega gli abitati di Niccone  e Molino Vitelli al Lago Trasimeno e i soldati dell’esercito tedesco in ritirata non tardarono ad arrivare dopo la disfatta della Battaglia del Trasimeno, negli ultimi giorni del giugno 1944.

Le cartine militari riportano minuziosamente, con frecce direzionali, ogni minimo spostamento delle truppe. Molte venivano redatte su carta trasparente perché venivano sovrapposte alle carte geografiche della medesima scala, di modo che, osservandole insieme, fornissero un quadro dettagliato degli spostamenti delle truppe sul territorio. 

La linea del fronte, su cui era posizionata la X armata dell’esercito tedesco, era denominata in codice linea “Albert” e correva da Castiglione della Pescaia, sul mar Tirreno, al mare Adriatico, passando per il monte Amiata e il Lago Trasimeno. Per quanto riguarda le truppe tedesche, nella zona di Chiusi operavano i paracadutisti del battaglione ‘Hermann Göring’, al centro della linea del fronte era posizionata la I divisione paracadutisti, mentre le divisioni di fanteria 305 e 334 occupavano il lato orientale. Di fronte avevano le truppe alleate della VI divisione sudafricana, la IV divisione di fanteria britannica, la I brigata corazzata canadese e neozelandese e una divisione di fanteria marocchina. 

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Le carte che precedono e seguono (8) riportano la posizione delle varie divisioni il 26 giugno 1944. In quella in alto è ben visibile la linea di demarcazione e del fronte conosciuta come “linea Albert”. Sono riportate dettagliatamente anche le posizioni delle truppe alleate. Partendo da est troviamo le truppe indiane, inglesi, canadesi e neozelandesi, sudafricane e marocchine.

La carta in basso focalizza il medesimo stanziamento delle truppe tedesche nella zona nord est della Linea Albert, con i relativi comandi dei corpi di armata e di divisione rappresentati rispettivamente dalle bandierine quadrata e triangolare

In entrambe le carte e soprattutto nel successivo particolare, estratto dalla seconda, è ben visibile come la vallata del Niccone (evidenziata dalla punta della freccia) sia interamente occupata dalla 305ma divisione di fanteria.

 

 

  

 

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(Con le righe, dall’alto in basso, sono evidenziate le località di Niccone, Montalto e la Dogana)

 

La battaglia del Trasimeno fu un tipico esempio di battaglia di rallentamento, già sperimentata dall’esercito tedesco sul fronte russo, attraverso quella che i militari definiscono "difesa attiva", caratterizzata da piccoli ma molto cruenti scontri lungo tutta la linea del ‘fronte’. Lo scopo dell’esercito tedesco era principalmente quello di contenere i tempi dell’avanzata alleata, con un ritiro ordinato verso la linea di difesa posta più a nord e che doveva ancora essere completata: la linea Gotica. 

Nella zona direttamente a ridosso della linea dei combattimenti stanziavano le truppe tedesche addette alla gestione operativa della ritirata: stabilizzazione di ponti, azioni di sminamento o posizionamento di mine, sopralluoghi e ispezioni volte a scoraggiare o combattere eventuali formazioni partigiane, sfollamento della popolazione civile dai luoghi di interesse militare, o da cui si potessero ricavare facili rifornimenti per la truppa o ripari per la stessa.

Tutta la vallata del Niccone divenne, in questo senso, territorio di stanziamento delle truppe tedesche impegnate nella battaglia del Trasimeno e, in seguito, nella ritirata verso nord. Vari erano i ponti stradali che si trovavano sulla via principale che collega il Lago Trasimeno alla statale verso Città di Castello. Assolutamente prioritario proteggerli per permettere la ritirata dei mezzi pesanti e, successivamente, minarli e distruggerli, per impedire l’avanzata delle truppe alleate. 

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La carta sottostante è una sezione di una pianta più grande (9) che riporta la situazione al 1 luglio 1944 delle vie di comunicazione e dei ponti minati o fatti saltare. 

Al centro della carta, con il numero 133, è ben visibile il ponte presso Penetola, sulla strada provinciale che costeggia il torrente Niccone (evidenziati con le frecce il ponte e la località di Penetola). 

   

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A guardia di questo ponte stavano costantemente due soldati tedeschi. Dina  vi si recava ogni mattina per portare del latte alle due sentinelle. Spesso mandava il piccolo Antonio a portare il latte ai soldati, tanta era divenuta la confidenza, da non temere alcun rischio per il figlio appena undicenne. Dina li ricordava molto giovani e molto magri. Una delle due sentinelle, al vederla sbucare dalla stradina dopo il torrente, le andava sempre incontro e ripeteva continuamente la parola ‘mutti’, termine confidenziale che in tedesco significa mamma. Non era chiaro se volesse ringraziarla di quel gesto o parlarle della propria madre, ma è certo che Dina aveva ben scolpiti in mente i volti di quei soldati e che nessuno di loro venne né ferito né ucciso nei giorni precedenti la strage di Penetola, come qualcuno volle far credere agli uomini di Molino Vitelli due giorni prima. Con questa giustificazione il 27 giugno 1944 i militari tedeschi di stanza nei paraggi rinchiusero tutti gli uomini dell’abitato di Molino Vitelli nel vicino essiccatoio, minacciando di ucciderli a causa del ferimento della sentinella posta a guardia del ponte sulla strada per Mercatale. 

 

Molino Vitelli è un piccolo borgo che si trova lungo la strada principale, due chilometri più a ovest di Niccone. Poco dopo l’abitato c’è un podere, all’epoca conosciuto come Casa Trinari, dal nome del mezzadro che lo abitava, anche noto come località La Dogana, proprio perché da lì passava e passa tutt’ora un’antica via di collegamento tra Umbria e Toscana, conosciuta come ‘via di Sant’Anna’, dal nome della località di passaggio. Tale via è importante perché collega le due strade, parallele tra loro, che uniscono la città di Cortona con la statale SS 3bis nei due punti cruciali a ridosso degli abitati e dei torrenti di Niccone e di Nestore. Proprio a difesa e sbarramento di queste due vie erano stati posti due battaglioni di genieri, rispettivamente il 305mo (Pi. Btl. 305) e l’818mo battaglione genieri di montagna (818 Geb. Pi. Btl). 

 

   

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(La freccia indica la località La Dogana. In evidenza le strade principali di collegamento tra Cortona e la SS 3 bis che congiunge Città di Castello e Umbertide. Tra le due vie evidenziate è possibile vedere decine di vie trasversali, percorribili dalle truppe dei genieri tedeschi che si muovevano principalmente a piedi).

 

 

Il casolare dei Trinari a La Dogana, rappresentava per i militari tedeschi una di quelle postazioni strategiche da controllare e presidiare, mentre per gli abitanti era una zona assolutamente poco tranquilla e quindi da sfollare. Infatti fu una delle prime case ad essere occupate dalle truppe tedesche arrivate nella vallata. Vi si sistemarono una ventina di soldati. 

 

I nomi di questi uomini e dei loro comandanti, esecutori materiali della strage di Penetola e feroci assassini di uomini, donne e bambini, sono scritti nel registro di arruolamento alla seconda compagnia del 305mo battaglione genieri di montagna dell’esercito tedesco di stanza in Italia centrale nella primavera-estate del 1944. 

 

In un comunicato del 26 giugno 1944 del Comando generale del LXXVI Corpo d’armata corazzato (10) si stabilisce che la 305ma divisione di fanteria assumerà il comando delle operazioni ad est del Tevere a partire dalle ore 12,00 del 27 giugno 1944. Al comando della 305ma divisione c’è il Generale Hauck.

Risale invece al giorno prima, al 25 giugno 1944 il documento più significativo per quanto riguarda l’accertamento delle responsabilità del 305mo battaglione genieri nei confronti della strage di Penetola e già riportato al termine del secondo capitolo. In esso è fondamentale il riferimento esatto al luogo di stanziamento della seconda compagnia del 305° battaglione genieri: 1,5 chilometri a nord ovest di Mita, che corrisponde esattamente alla località La Dogana, nota all’epoca come ‘Casa Trinari’ e da dove sono partiti i soldati autori della strage.

 

Dino Trinari, allora diciassettenne, era rimasto insieme al padre e allo zio a La Dogana, perché campi e bestiame non potevano essere abbandonati. I soldati tedeschi occuparono il piano abitabile della casa e fecero alloggiare Dino e i suoi nelle stalle, chiamandoli ogni volta che avevano bisogno di cibo o di altre cose. 

Tra i circa venti soldati presenti nella casa, Dino ne ricorda due in modo particolare. Un ragazzo originario di Trieste, con il quale scambiava qualche frase di tanto in tanto, vista la sua ottima conoscenza della lingua italiana e un altro soldato, che era solito occuparsi anche del vettovagliamento del gruppo, di cui non si poteva non notare la dentatura con denti metallici (11).

Gli ufficiali comandanti alloggiavano poco distanti, al Castello di Montalto, da dove impartivano i vari ordini scendendo ogni tanto a valle dalla truppa. 

Il 26 giugno del 1944, Dino Trinari vide alcuni ufficiali arrivare alla Dogana a bordo di una macchina e parlare con i soldati. Uno di questi gli disse che gli ufficiali venivano dal Comando di Montalto.

La mattina del 27 giugno i soldati di stanza a casa Trinari rinchiusero tutti gli uomini che riuscirono a catturare in zona all’interno di un essiccatoio per il tabacco di Molino Vitelli. Sostenevano che una delle sentinelle poste a guardia del ponte sulla strada verso Mercatale era stata ferita e che sarebbero state giustiziate delle persone (12). 

A Dino Trinari, suo padre e suo zio, i soldati ordinarono di stare rinchiusi nella stalla, rassicurandoli che non sarebbe accaduto loro niente. 

Una volta rinchiusi tutti gli uomini rastrellati, Dino vide di nuovo arrivare gli ufficiali del giorno prima, sempre a bordo della stessa vettura. Li vide salire al piano abitabile della sua casa, seguiti da alcune donne del posto, condotte a forza sotto la minaccia delle armi. 

Più tardi seppe che quelle donne erano state violentate dagli ufficiali, mentre i soldati tenevano rinchiusi i loro uomini nella scuola di Molino Vitelli, ignari di tutto e con l’angoscia di poter essere giustiziati per una cosa che non avevano commesso. 

Gli ufficiali lasciarono casa Trinari intorno a mezzogiorno. Subito dopo i soldati liberarono gli uomini rinchiusi nella scuola sostenendo che la sentinella non era in pericolo di morte e che quindi nessuno sarebbe stato ucciso per rappresaglia. 

Nessuna sentinella risultava essere stata ferita o tantomeno uccisa. Tuttavia, secondo le misure di vendetta stabilite da Kesserling, le temute Sussmassnahmen contenute nella famigerata ordinanza del 16 giugno 1944,  anche in caso di ferimento di soldati, non solo per la loro morte, si doveva procedere ad esecuzioni e quindi non si spiega affatto il ‘sequestro lampo’ e il rilascio di tutti gli uomini della zona da parte dei soldati, senza alcuna rappresaglia, nonostante l’addotto ferimento della sentinella del ponte.

Il sequestro si comprende invece benissimo se lo si pone in relazione alla violenza sulle donne da parte degli ufficiali del comando.

La stessa violenza carnale potrebbe essere stata un fatto occasionale, purtroppo molto frequente nel comportamento dei militari di quel periodo, visto che la visita degli ufficiali era in realtà dovuta alla necessità di impartire ordini ai soldati per la strage della notte seguente.

Infatti, appena gli ufficiali se ne furono andati, uno dei soldati si avvicinò a Dino Trinari con in mano una carta con sopra riportate le case coloniche della zona. Il soldato chiese a Dino di indicargli dove si trovasse la casa già segnata tra altre riportate sulla cartina: era il casolare di Penetola e Dino inconsapevolmente indicò la via per raggiungerla al soldato che, evidentemente, aveva già ricevuto ordini ben precisi sul da farsi.

 

Quella sera i soldati cenarono all’aperto davanti alla casa dei Trinari: mangiarono e bevvero forte. Quello che fungeva da cuoco, nel pomeriggio, era stato visto aggirarsi armato insieme  ad un commilitone, nei paraggi dei casolari della zona per racimolare, togliendolo alle bocche dei contadini, tutto ciò che poteva servire al banchetto dei soldati. I due avevano anche esploso diversi colpi di fucile diretti a minacciare alcuni contadini. Avevano anche cercato di violentare delle donne (13). 

Lo zio e il padre di Dino vennero fatti sedere a tavola ed obbligati a bere per il divertimento dei loro commensali. Dopo aver mangiato e soprattutto bevuto in gran quantità i soldati cominciarono a fare confusione fuori e dentro la casa, tirandosi acqua, oggetti, distruggendo tutto quello che trovavano a portata di mano. Appena passata la mezzanotte si misero gli zaini in spalla e si avviarono verso Niccone, evitando la via principale, percorrendo il più nascosto sentiero ai margini del bosco che costeggia il torrente. Sentiero che conduce fino all’aia di Penetola.

 

Quando raggiunsero la casa erano circa le una. Svegliarono gli abitanti, li derubarono di tutti i loro averi e li rinchiusero dentro un’unica stanza: 24 persone tra uomini, donne e bambini.

 

Dino Trinari, che appena fatto giorno si preparava ad andare nei campi, vide tornare i 18 soldati lungo il torrente e attraverso i campi, gli zaini molto più gonfi di quando erano partiti, alcuni semiaperti tanto erano pieni delle cose rubate alle famiglie dei coloni e degli sfollati di Penetola. Uno di loro gli disse: “abbiamo bruciato tre case e ucciso 30 partigiani”. 

Salirono al piano superiore, a dormire. 

All’inbrunire del 28 giugno, in totale tranquillità, se ne andarono dicendo a Dino che dovevano raggiungere Firenze. Presero la direzione verso S.Anna, attraversando le colline, lontano dalla via principale. A riprova della veridicità di questa testimonianza, basti osservare la carta allegata al documento tedesco del 25 giugno 1944 precedentemente citato: i soldati di stanza a La Dogana si misero in marcia la sera del 28 giugno 1944 verso nord attraverso la via che da La Dogana, conduce sulla strada di collegamento tra Cortona e Città di Castello. Nella carta è ben evidente la direzione di marcia e la data dello spostamento: bis 28. 6. (fino al 28 giugno, ndr). 

 

 

 

 

 

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(la linea indica la località La Dogana)

 

Nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1944 la divisione H.u.D., già di stanza presso Umbertide, prende il posto della 305ma divisione di fanteria e il relativo controllo della zona (14). Il comando della divisione H.u.D. si insedia al castello di Montalto nel tardo pomeriggio del 30 giugno 1944, come risulta chiaramente da un documento della divisione stessa (15).

 

Probabilmente furono alcuni ufficiali di questa divisione, già sul posto la mattina del 28 giugno, a dare l’ordine di portare i feriti Mario e Dina Avorio al Seminario di Città di Castello e ad interrogarli nei giorni successivi. Il fatto che durante l’interrogatorio gli ufficiali avessero dichiarato a Mario e Dina di non aver avuto notizia di alcun ordine di rappresaglia, rafforza la convinzione che i soldati autori della strage non rispondevano alla loro divisione, ma alla 305ma divisione di fanteria, che aveva già evacuato la zona. 

 

Nel caso di Penetola, non si possono sottacere due forti ‘stridii’ rispetto alle dinamiche che precedono e seguono una strage nazista.

Singolare il soccorso prestato dai soldati tedeschi alle vittime di un massacro compiuto dalle stesse truppe tedesche; soccorso prestato a rischio della propria vita, percorrendo un lungo tragitto e presentando le vittime come ‘banditen’ (partigiani) alle persone di cura. Comportamento che, come esaminato in tante altre stragi compiute dai tedeschi, non sembra essersi mai verificato in conseguenza di un ordine di strage. 

Ancora più singolare il doppio interrogatorio a Mario Avorio e Dina Orsini, ricoverati presso il Seminario di Città di Castello, da parte di militari tedeschi, i quali cercavano dai sopravvissuti della strage nazista le ragioni della stessa. 

 

Appena 6 giorni dopo la strage di Penetola, il 6 luglio 1944, alle ore 15,45, il quartier generale del  comando tattico alleato arriva al Castello di Montalto, dove il 9 luglio alle ore 19,30, il parroco Don Ettore celebra una messa insieme agli ufficiali del comando alleato (16) . Dal castello questi ultimi non poterono certamente evitare di osservare la devastazione di Penetola, né mancò loro l’occasione per informarsi sugli avvenimenti, visto che si trovavano in casa del proprietario del casolare, ma il tutto fu liquidato con un lapidario e impreciso resoconto di tre righe. E per anni tutti vollero credere che a Penetola si era ucciso perché “alcuni spari erano stati diretti dalle colline verso alcuni soldati tedeschi”, come recita l’unico cenno alla vicenda nei documenti alleati (17). 

 

Il 28 giugno 1974, a trent’anni dalla strage, una lapide e un cippo monumentale vennero posti rispettivamente sulla parete del casolare di Penetola e sulla strada provinciale, in prossimità del sentiero per raggiungerlo.

 

Non odio chiediamo a chi resta,

soltanto memoria,

perché altri non debban morire

per mano assassina.

 

 Il cippo in memoria delle vittime di Penetola sul quale sono riportate queste parole è posto sul ciglio della strada, ben visibile anche al veloce automobilista. Con i suoi pochi ma incisivi versi esso ricorda a tutti i passanti gli eventi fin qui narrati e ne consegna la memoria alle generazioni future. I monumenti in onore a vittime e caduti sono un po’ come i segnali stradali di pericolo: impediscono a chi non è accorto o non ha memoria del baratro di finirvi dentro. 

La nostra responsabilità civile e morale verso le generazioni future è quella di continuare a rendere significativi questi ‘segnali’, i versi e le vicende che essi tramandano e, se possibile, ampliarne l’eco, con verità e giustizia, tramite testimonianze scritte e orali. 

 

Paola Avorio

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NOTE:

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1. Per quanto riguarda la definizione di ‘strage nascosta’ si rimanda allo studio di Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascismi 1943-2001,Mondatori, Le Scie, 2002.

 

2.  Il termine ‘guerra ai civili” viene coniato e ampiamente illustrato da Battini e Pezzino in Guerra ai civili, Venezia, Marsilio 1997.

 

3. Monsignor Beniamino Schivo è nato a Gallio (Vicenza) il 28 giugno del 1910. Compiuti gli studi nei seminari di Città di Castello e Assisi è stato ordinato sacerdote il 24 giugno 1933. Ha rivestito numerosi e prestigiosi incarichi nell’ambito della diocesi di Città di Castello. Il 16 giugno 1983 Papa Giovanni Paolo II lo ha nominato protonotario apostolico. Durante il passaggio del fronte attraverso l’Alta Valle del Tevere nell’estate del 1944, rimase a Città di Castello,  prestando aiuto ovunque occorresse anche approntando un ospedale di fortuna presso i locali del Seminario. Riuscì a nascondere e mettere in salvo la famiglia  tedesca Korn, di origine ebrea, internata a Città di Castello. Gli sono stati conferiti il riconoscimento di ‘Giusto tra le Nazioni’ da parte della fondazione Yad Vashem di Gerusalemme e la medaglia d’oro al valore civile da parte del Presidente della Repubblica Italiana, il 24 gennaio 2008. La motivazione a quest’ultima onorificenza recita: “Sacerdote di elevate qualità umane e civili, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, in atto le persecuzioni razziali, con eroico coraggio ed encomiabile abnegazione, aiutava una famiglia tedesca di origine ebrea a fuggire da Città di Castello, dove era stata internata, procurandole successivamente nascondigli, cibo e capi vestiario. Mirabile esempio di coerenza e di rigore morale fondato sui più alti valori cristiani e di solidarietà umana”. 

Il 28 giugno 2010 Monsignor Beniamino Schivo ha compiuto cento anni.

 

4. G. Bottaccioli, “Penetola. Non tutti i morti muoiono.  28-6-1944”, p. 26, (dal racconto di Dina) .

 

 5. Archivio storico di Umbertide, Cat.2, Cl.4, Richieste di risarcimento danni in seguito al bombardamento aereo del 29 giugno 1944 dell’abitato di Niccone da parte dell’aviazione alleata, presentate da Edgarda Forni, Aldo Forni, Medici Decio, Caprini Medici Adele, Pietro Giunti, e altri, in data 5 settembre 1944.

 

 

6.  Relazione del Psychological Warfare Branch- Servizio Alleato di informazioni politiche e di propaganda, in Public Record Office (PRO) War Office (WO) 204/11008 8 Army reports: No29, 13-07-44 in Roger Absalom, (a cura di),

 Perugia liberata. Documenti anglo-americani sulla occupazione di Perugia (1944-1945), Firenze, Olschki editore, 2001

 

7.   Archivio Militare di Friburgo,   RH 24-76/13

Anlage zum KTB nr 2, rda

 

8.  Archivio Militare di Friburgo, in RH 24-51/85.

 

9.  Archivio Militare di Friburgo, in RH

 

10.  Archivio Militare di Friburgo, RH 24-76/13 Anlage zum KTB nr 2 s. 51

 

11.  Di questo soldato si ricorda bene anche Giovanni Bottaccioli che nel suo scritto "PENETOLA Non tutti i morti muoiono" op. cit., che  così riporta “Il soldato con il cesto aveva indosso anche una ‘zinarola da cuoco’. Ricordo la sua dentatura che intravedevo fra le labbra e che per circa la metà era fatta di denti in acciaio. Certi particolari non si scordano più”.

 

12.  Dell’episodio racconta anche Giovanni Bottaccioli, op. cit. p.9.

 

13.  Si veda G. Bottaccioli, op. cit..

 

14.  Archivio Militare di Friburgo, RH 24.51/101 Anlage zum KTB nr 2.

 

15.  Archivio Militare di Friburgo RH 26-44-60, s. 131.

 

16.  Gli Alleati in Umbria 1944-45, Atti del convegno Giornata degli Alleati, Perugia, 12 gennaio 1999, Fondazione Uguccione Ranieri di Corbello, Perugia, 2000, p.71 e ss.

 

17.  Vedi nota 9 al Capitolo Primo "Tre Croci"di  Paola Avorio.

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