storia e memoria
LA FRATTA DEL SEICENTO
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a cura di Fabio Mariotti
La vita in Fratta
Nella terra di Fratta il Seicento, fatta eccezione per la "Guerra del Granduca" (1643-44) (1), fu un secolo di pace che scorreva tra le difficoltà di sempre e tra le numerosissime manifestazioni religiose (feste, processioni, ecc.). La vita dei frattegiani era dura fin dalla nascita: le “arcoglitrici”, dette anche mammane, non frequentavano corsi speciali per svolgere il loro lavoro e ci si doveva affidare alla sola pratica che potevano avere. Probabilmente era una delle componenti della forte mortalità infantile, specie quella del primo giorno che - consultando gli archivi parrocchiali - era del cinque per cento. La percentuale restava alta anche nel primo anno di vita, se si guarda una statistica del decennio 1661-1670 relativa alla parrocchia di Sant'Erasmo. Qui morirono, in tale periodo, 166 persone (circa 17 all'anno) e di queste ben 45, cioè il 27 per cento, entro il primo anno di vita.
Nello stesso decennio ben 88 persone (il 53 per cento) morirono prima di aver compiuto il decimo anno. Nascevano più maschi che femmine e la tendenza proseguirà fino alla seconda metà dell'Ottocento, quando comincerà l'andamento inverso. Le donne avevano una vita media di due anni e due mesi superiore a quella degli uomini che era di 25 anni.
Erano molte, come si è detto, le possibilità di morire nel primo giorno: le "arcoglitrici", anche se esperte, mancavano di ogni nozione di igiene, come mancavano le indispensabili e pronte cure mediche da farsi nei primi minuti dopo il parto in caso di difficoltà. Esistendo pericolo di morte, era la mammana a battezzare il bambino.
I nomi con cui le persone venivano battezzate erano tre (potevano anche essere quattro o cinque, i nobili o le famiglie più facoltose ne davano anche otto o nove). Quando erano molti, tre erano sempre quelli dei Re Magi: Baldassarre, Gaspare e Melchiorre. Spesso le persone non conoscevano la propria data di nascita.
A seguito delle disposizioni del Concilio di Trento si cominciò a fare le pubblicazioni
dei matrimoni. La dote della sposa era legata all'effettiva consumazione del
matrimonio ed in difetto di ciò doveva essere restituita.
Si cercava di lasciare il patrimonio ai maschi ed in particolare al maggiore.
Il capo famiglia escludeva per tempo quante più figlie femmine poteva,
destinandole da piccole a una futura vita monastica. Queste, crescendo,
venivano tenute in casa, lontane dal vivere sociale pur ristretto dei tempi,
affinché il distacco dalla famiglia e l'entrata in monastero fossero meno
pesanti. Ecco una ragione del crescere dei vari conventi femminili anche
in Fratta dove, nel 1604, ha inizio la costruzione del monastero di Santa
Maria Nuova (in fondo alla Piaggiola scendendo sulla sinistra, dove c’era
il meccanico Remo).
La famiglia Petrogalli. ricchi proprietari terrieri di Fratta con casa padronale
lungo il Tevere, nel 1610 era composta da due fratelli, Marcello e Cristoforo, che
avevano due figlie ciascuno da sistemare. Risolsero il problema mandandone una
in un monastero di Perugia, mentre altre due le fecero entrare nel monastero di
Santa Maria Nuova di Fratta da pochi anni istituito, dando loro come dote quanto
richiesto dalla regola, cioè più di quattrocento scudi per figlia. Questa somma
potrebbe sembrare elevata, in realtà non lo era, in quanto la quarta ragazza, figlia
di Marcello, riuscita in qualche modo ad evitare il convento e a sposarsi, dovette
portare come dote duemila scudi, cifra quattro o cinque volte superiore a quella
pagata dal padre per la sorella e le due cugine più sfortunate.
Ciò avveniva anche per i figli maschi, non primogeniti. In questo periodo si cambiò poco anche nel modo di vestire. Apparirono abiti alla francese, per cui le donne lasciavano vedere la parte superiore del petto dalla larga scollatura quadra. Gli uomini accorciarono il vestito sotto la cintura e, deposto il lungo calzone di lana bianca o colorata, adottarono le brache corte, anche se non ancora legate al ginocchio come nel Settecento. Ciò che non cambiò fu quel mondo di abitudini antiche, di tabù, di presenze diaboliche, stregonerie varie, dove le fattucchiere operavano senza sosta facendo o sciogliendo “fatture” ed aumentando le paure che si tramandavano di generazione in generazione.
Era molto praticata la caccia, usando per lo più cani bracchi e levrieri. Oltre gli “schioppi” erano di moda le “reti da lepori” (cioè da lepri) e le “cortinelle”, per le starne. Gli animali maggiormente appetiti erano “lepri, starne, fagiani, quaglie, coturnici, capri et porci”.
La pesca era praticata con la “cannicciaia” (trappola di canne, costruita in modo che i pesci, una volta entrati. non potessero più uscirne), con il “ghiaccio”, attrezzo di rete piombato per restare sott'acqua, oppure con il “tramaglio”, lunga rete a strascico. Questo mezzo di pesca, cui si applicavano piombi per immergerlo e sugheri per tenerne a pelo d'acqua la parte superiore, ha varcato la prima metà del XX secolo restando quasi immutato.
Tra i giochi, un inventario del 1662 cita “una forma per fare le palline”. Erano sfere di terracotta con le quali i bambini hanno sempre
giocato, usandole anche ad Umbertide fino agli Anni Cinquanta (del Novecento) prima dell'avvento delle palline di vetro colorato. Era molto in voga anche il “Gioco dell'oca”, passatempo da tavola come l'odierna tombola, concretizzato in un grande cartellone ove erano disegnate 63 vignette, numerate progressivamente. Potevano partecipare più persone usando un dado che serviva per procedere avanti, con la prospettiva di incontrare stazioni penalizzanti.
Note:
1. Il resoconto completo della “Guerra del Granduca”
si trova in questo sito, nella Sezione Storia
Disegno di Adriano Bottaccioli
Foto Tevere di Fabio Mariotti
Foto levriero (Wikipedia)
Fonti:
- Storia di Umbertide – Vol. V – Sec - XVII – Renato Codovini –
Manoscritto inedito
- Calendario di Umbertide 2002 – Ed. Comune di Umbertide - 2002
Il Boccaiolo (Disegno di Adriano Bottaccioli)
Il Tevere poco prima delle vecchie schioppe
Un antico Gioco dell'oca
Le botteghe artigiane e il commercio
I vasai
La lavorazione dei vasi in terracotta, come pure di tegami, scaldini, orci, scine ed altro, utili per la vita familiare di ogni giorno, era molto in auge nella Fratta del XVII secolo. Era un'attività che veniva da lontano, assieme a quella dei laterizi da costruzione che portavano un certo benessere a quella nostra società. Che la fabbricazione di vasi fosse rilevante viene confermato dal frattegiano Costantino Magi il quale, nel suo manoscritto sulla Storia di Fratta (1725), ci dice: “Le attività artigiane di Fratta sono principalmente intorno al ferro ed alla terra, che lavora con molto artifizio. I suoi vasai porgono all'Italia maioliche finissime di varie sorti, cioè bianche, negre, macchiate, le bianche e le marchiate sono vaghissime. Le negre poi, ornate di rabeschi e fogliami d'oro e di figure con vivi colori effigiate, riescono di tanta bellezza che fanno nobile ornamento anche alle credenze dei grandi”. La lavorazione dei vasi avveniva nel Borgo Superiore e nella piazza del mercato (Mercatale di Sant'Erasmo).
Altro storico che si occupò dell'argomento fu l'ingegner Vincenzo Funghini che nella sua opera Cenni storici e osservazioni sulle antiche maioliche italiane (1889) fa sapere che gran parte della produzione vasaia di Fratta era lavorata "a graffio" (detto anche "graffito" o "a stecco"), fatta sulla ingobbiatura. Era superiore a quella di Città di Castello, detta "alla Castellana". Anche in questa città si lavorava "a graffio" (dice sempre il Funghini) ma con poche e semplici tinte di verde o di giallo, mentre la produzione di Fratta era più ricca di colorito e di decorazioni.
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Le fabbriche e le botteghe dei vasari sorgevano nel Mercatale di Sant' Erasmo (l'odierna piazza Marconi). L'origine risale ai secoli XIII e XIV, quando furono costruite fuori dalle mura castellane perché evidentemente non c'era più posto nella piccola e tortuosa via "degli Scodellari", all'interno del castello. Zona vicina al Castello Vecchio, era facile e comodo andare al lavoro, ma c'era anche una pronta possibilità di rifugiarsi entro le mura in caso di imminente pericolo di guerra o di scorrerie di malfattori.
Nell'anno 1643 fabbriche e botteghe furono volutamente distrutte dai soldati del presidio a causa della guerra del Granduca di Toscana e non è rimasta traccia di esse perché sulle loro macerie vennero poi edificate le case oggi esistenti in quella piazza e nella via adiacente.
Le fabbriche e le botteghe furono poi ricostruite un po' più a nord, sempre sulla strada per Montone, nella zona fra il molino e la chiesa dei Francescani osservanti. In questa zona c'era pure la fabbrica di vasi dei Martinelli, l'unica famiglia di artigiani della quale ci sia rimasta memoria.
La forma dei piatti di Fratta era uguale a quella di Deruta, di Pesaro, di Urbino, dei "Durantini" (della città di Castel Durante, poi Urbania). Erano diversi nella vernice. Ciò che rivestiva le manifatture di Fratta non era "smalto", ma semplice "vetrina", ossia vernice a base di piombo e silice, traslucida, o appunto mezza maiolica. La forma-calco usata
era di gesso, imitazione delle "burrine" di Deruta e delle "durantine", che davano un piatto con un orlo molto largo, ricoperto di fregi, di foglie ed altri ornamenti. Le tazze erano assai profonde, per lo più piccole ed avevano appena un embrione di bordo. Ciò vale anche per le coppe, posate sopra un piede base, più grandi e spesso munite di manici. I vasi erano foggiati a seconda del capriccio dell'artista, in un epoca in cui il gusto delle belle arti era penetrato in tutti i luoghi anche i più umili e perfino gli artisti minori sapevano dare ai loro prodotti un aspetto assai gradevole. Nel lavoro "a graffio" il pezzo, in terra rossa, essiccato naturalmente all'aria aperta, veniva sottoposto ad un fuoco leggero che gli dava una certa consistenza, impedendogli di disgregarsi quando veniva immerso nel liquido che formava 1'ingobbiatura.
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Nella prima metà del Seicento questo liquido era formato da terra di Vicenza e tartaro bruciato o terra bianca presa in altre zone (si producevano in Fratta anche maioliche bianche). Al posto del tartaro si poteva a volte usare la feccia dell'uva anch'essa bruciata, dalla quale si prendeva poi la parte bianca. Questi componenti, ben macinati e rimescolati con l'acqua, venivano portati a una certa densità, come si fa con lo smalto. Nel liquido si immergeva il vaso, lo si metteva di nuovo ad un fuoco leggero perché si asciugasse sollecitamente, anche se si conservava sempre allo stato crudo. Tirato fuori dal forno, l'oggetto era coperto da vernice trasparente in modo che la decorazione risultasse in bianco, sul fondo rosso originario di partenza. Dalla seconda metà del Seicento 1'ingobbiatura viene ottenuta con una terra più chiara, tendente al giallo chiaro o paglierino, come si riscontra in molti lavori di Palaia, di Castelfiorentino, di Castelli dell'Abruzzo. I vasi di Fratta si presentano specialmente con questo colore, da attribuire all'assenza della terra bianca di Vicenza o di Valenza o di altre località ed all'uso della giallastra terra di Trequanda, località della provincia di Siena, poi adoperata per tutti i dozzinali del secolo seguente. La lavorazione "a graffio" non era il solo metodo usato nelle fabbriche di Fratta; alcuni pezzi avevano una vera e propria pittura sulla terra bianca o gialliccia dell'ingobbiatura in modo da formare una modalità nuova che si colloca tra la decorazione ad ingobbiatura e quella della mezza maiolica. I colori erano il turchino chiaro, ottenuto mediante l'impiego della zaffera unita al bianchetto, il verde con il verde-rame molto diluito, il rosso ed il giallo. Le decorazioni adoperate nelle nostre fabbriche erano diverse fra di loro: nei bordi del piatto di solito si dipingevano penne di pavone, fiori, corone di foglie; al centro invece uccelli, piante, stemmi o scudi araldici, figure, chimere, grotteschi e qualche volta soggetti sacri, cherubini, amorini, raramente rilevati, tutti graffiati e molto colorati.
I fabbri
Arte fiorentissima in Fratta, ne parlano tutti gli storici. I nostri fabbri comperavano il ferro a Foligno (nel 1646 per farne il cerchio della cupola della chiesa di Santa Maria della Reggia), ma anche a Senigallia e riuscivano a forgiare molti degli articoli di uso comune: chiodi, martelli, lime, caldai, pentole, padelle, catini, che poi vendevano nel loro laboratorio. Stesso discorso per il piombo, che veniva da Gubbio o da Roma, che essi poi lavoravano trasformandolo in oggetti per la casa o per altri artigiani. Molto usato anche il filo d'ottone, che comperavano a Perugia, principalmente per guarnire i propri lavori. Erano abili nella fusione dei metalli per piccoli oggetti d'uso. Avevano in tali casi delle forme che facevano essi stessi di volta in volta, ripiene di
una speciale terra molto fine e compressa, nella quale colavano
il metallo fuso, traendone oggetti che poi vendevano nelle proprie
botteghe. L'arte dei fabbri ferrai era la maggiore praticata in Fratta, tanto
da renderla rinomata in tutto il territorio dello stato romano. Gli annali
della città di Perugia ricordano la costruzione della cancellata per la
fontana della piazza Maggiore fatta dai fabbri di Fratta.
Dal 1647 al 1667 esistono numerosi contratti che riguardano la
produzione di falci per mietere il grano e la relativa vendita a Roma.
Il primo, dell'anno 1647, dice che alcuni fabbri di Fratta, riunitisi
in società, si impegnano a costruire in un anno e poi a vendere
14.000 (quattordicimila!) falci di vario tipo. Altro elemento
notevole lo troviamo in una clausola per la quale lo stesso contratto
potrà subire variazioni qualora vengano portate nella piazza di Roma,
contemporaneamente, altre partite di falci per mietere, prodotte
in altre città o in Fratta.
Ciò vuol dire che, oltre a quel gruppo, in Fratta esistevano anche
altre società, capaci di tale produzione e relativo commercio nella
città di Roma. Ulteriore particolarità: sono i fabbri di Fratta a stabilire
il prezzo di vendita dei loro prodotti, che i grossisti acquirenti di quella
città si impegnano contrattualmente a praticare. E' una clausola ben strana:
il venditore infatti oggi pratica il prezzo che vuole, al produttore
interessa solamente di essere pagato, nei tempi stabiliti. Troviamo un
nuovo contratto interessante per la vendita delle falci nel 1667: una delle
parti è una donna che opera nel campo commerciale di Fratta.
E' Camilla Mazzoni, moglie di Annibale Burelli, e fornisce "acciaro" ad
alcuni fabbri dai quali poi compera le falci che essi produrranno nell'anno.
"Da una parte donna Camilla Mazzoni... di Fratta, dall'altra parte... mastro
Angelo e mastro Cristoforo promettono e convengono di fabbricare falci
grandi da grano ad uso delle campagne di Roma numero quattromilia, e
falci piccole parimenti da grano, dette campagnole numero dui milia...". Come risulta da altre scritture, la signora Burelli è avvantaggiata in tale lavoro da suo marito che ha in affitto il mulino di Sant'Erasmo. situato fuori dell'odierna porta di San Francesco. Questo molino aveva dei meccanismi e delle ruote per l'arrotatura delle falci, che si muovevano con l'acqua del Tevere fino a lì canalizzata: insomma, è facile per la signora Mazzoni intraprendere affari commerciali con i fabbri di Fratta. Anche questo documento ci prova che erano diversi gli artigiani che producevano falci a migliaia di pezzi, destinate al mercato romano. Dovevano essere pronte nel mese di maggio e, subito dopo l'arrotatura. venivano consegnate a carrettieri che, con carri a quattro ruote, le portavano a Roma.
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Esiste un documento in archivio: è del 1666, viene rilasciato ad un carrettiere di Fratta che deve trasportare falci a Roma, via Foligno. Il vetturale si chiama Antonio del Cuoghi, trasporta ottocento falci del peso di tremila libbre, fabbricate in Fratta "con acciari comprati da Girolamo Francesconi in Sinigaglia da Rafaele Matrici”.
Le botteghe
Fin dagli inizi del secolo troviamo in Fratta un discreto numero di botteghe di vari generi che nel loro insieme sviluppano una certa mole di lavoro commerciale, tale da essere uno dei perni dell'economia del paese. Tutte avevano la caratteristica comune nella grande promiscuità degli articoli. La bottega di "aromataria", che avrebbe dovuto avere, stando al nome, spezie (aromi) e medicinali, vendeva invece anche cera, chiodi, latta, vetri. Non c'era specializzazione in alcuni articoli, come si comincerà a fare verso la fine dell'Ottocento, ma una notevole confusione di merci messe in un grande disordine. Di cubatura modesta, erano oscure e multiodoranti. Unica eccezione alla promiscuità dei generi era la bottega del "macellatore" (macellaio), conteneva solo carni. Erano esposte in massa sulle pareti, in pezzi grandi e piccoli agganciati ad uncini. La sequela non terminava alla porta, proseguiva anche fuori, sulla pubblica via, insieme a salumi e collane di salsicce. I "macellatori" non usavano carta per avvolgere la carne, la infilavano in un venco ed il cliente, se proprio non aveva una "sportola", se la portava via ciondolante ai fianchi.
La bottega del pane non aveva vendita regolare in quanto il pane era venuto dal fornaio nel proprio forno. Ciò non toglie che fosse venduto altrove, andando a finire fra vetri, chiodi, vernici e "baccalari".
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Botteghe e proprietari
- Pellicciari Adriano: nel 1600 ha una "aromateria", nel 1603 passata ai suoi eredi
- Pellicciari Gapocho Pietro: dal 1605 al 1615 vende refe, seta e vari altri generi
- Pellicciari Tommaso: nel 1603 vende fioretto
- Giovan Francesco: nel 1601 ha una "aromateria", nel 1610 è "spetiale"
- Zeppe: nel 1603 è merciaio. E' detto anche "il pettenaro", cioè venditore di pettini
- Cecco D'Angiolo: nel 1605 è merciaro
- Stella Anton Maria: nel 1609 vende tela
- Santi: nel 1612 è merciaro
- Garognoli Fabritio: nel 1606 è "spetiale"; nel 1607 vende cera; nel 1609, cera e fàcole; nel 1611 ha una "aromateria" e nel 1630 vende "robbe per gli infermi" ed altre cose
- Cibo Bernardino: nel 1612 vende pane
- Burelli Ruggero: nel 1601 ha una "aromateria" situata in "strata regali", cioè la via Diritta (odierna via Cibo). Questa si trova sotto la casa di Orfeo Burelli. Nel 1603 ha una "apoteca aromataria", nel 1607 è "spetiale" e tale risulta fino al 1619
- Burelli Pompeo: nel 1605 vende cera, funi, facolette, aguti (grossi chiodi) e "altre robbe"; nel 1609, medicamenti. Pompeo ha una "apoteca" situata in "strata regali" (odierna via Cibo), confina con Ruggero Burelli e sul retro con lo "steccato" della comunità (verso il Tevere). Nel 1619 Pompeo ha la qualifica di "spetiale" (vende spezie e medicine, ma anche aguti, cera, funi, facolette ed altro)
- Burelli Scipione: nel 1613 (fino al 1648) vende cera, medicine, torce, facole e "robe da spetiaria" per l'ospedale di Santa Croce. Vende anche berrette da prete. Nel 1614 dà medicine ad una povera inferma. Nel 1621a bottega esiste ancora a suo nome, probabilmente gestita da un figlio
- Tartagli Erasimo: nel 1623 vende cera
- Pellicciari Giovan Paolo: nel 1633 è "spetiale". Vende "giulebbe, zucaro, olio rosato, termentina, pane"
- Bottari Giulio Cesare: nel 1637 vende mercerie
- Spunta Alfonso: nel 1611 ha una bottega di mercerie
- Stella Cosimo: nel 1654 vende sale
- Lazzari Agostino: nel 1638 ha una bottega di alimentari
- Forani Giuliano: nel 1634 (fino al 1653) è speziale e vende anche cera
- Fracassini Francesco: nel 1641 vende ferro
- Erasimi Giovan Battista: nel 1654 (fino al 1664) è "drogiero". Vende cera, pennelli, latta, stoffa per abiti
- Mosè di Leone: nel 1656 vende tela per "camisci" ed anche ortichino. Probabilmente è ebreo
- Farmacia di Montecorona: nel 1658 viene trasferita dall'eremo alla sottostante abbazia.
- Ercolano di Bilardino: nel 1659 vende uova
- Massi Francesco: nel 1663 vende cera
- Morti Francesco: nel 1666 vende cera e altre "robbe"
- Cristiani Ludovico: nel 1667 vende polvere da sparo
- Burelli Filippo: nel 1672 (fino al 1692) vende facole, medicine, medicamenti
- Martinelli Vincenzo: nel 1683 vende panno
- Iacomini Antonio: nel 1686 vende oro e remosino
- Leoni Samuele: nel 1696 vende pianete da chiesa ed altro. Probabilmente è ebreo
Disegni di Adriano Bottaccioli
Fonti:
- Storia di Umbertide – Vol. V – Sec XVII – Renato Codovini – Manoscritto inedito
- Calendario di Umbertide 2002 – Ed. Comune di Umbertide - 2002
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1996. Veduta aerea del centro di Umbertide. In primo piano piazza Marconi (antico Mercatale di Sant'Erasmo).
In basso a destra si può vedere la vecchia Fornace e più in alto, lungo il Tevere, l'ex Draga (Foto Amedeo Massetti)
Attrezzi dei vasai (Disegno di Adriano Bottaccioli
Disegno di Adriano Bottaccioli
Gli attrezzi dei fabbri - Martelli e falci (Disegni di Adriano Bottaccioli)
Antica bottega
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(Disegni di Adriano Bottaccioli)
Scuola, musica e teatro, alberghi
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La scuola
La scuola era tenuta da un ecclesiastico che abitava in una casa nel Borgo Inferiore e veniva pagato sia dalla confraternita di Santa Croce che dalla comunità. Situata nella stessa casa abitata dal maestro, era accanto all'ospedale di Santa Croce, con il lato "a retro" (nord) prospiciente il torrente Reggia
Le materie erano il leggere, lo scrivere e fare le quattro operazioni: un corso che non andava oltre l'attuale terza o quarta elementare.
Un insegnamento di grado superiore esisteva in Fratta già nel secolo precedente e nel Seicento, anche se ne abbiamo scarsissime notizie.
Questa scuola "superiore" pensiamo fosse frequentata da pochissimi ragazzi, tutti di famiglia ricca, che dovevano avviarsi alla carriera ecclesiastica e quindi avevano bisogno di un'istruzione superiore atta ad immetterli al liceo di Perugia.
La confraternita di Santa Croce era proprietaria della sede della scuola e della casa del maestro e pensava alle spese relative all'immobile, all'arredo e a quanto serviva all'insegnante il quale, probabilmente, viveva solo, veniva quasi sempre da città vicine e si tratteneva in Fratta qualche anno prima di essere sostituito. Un documento del 1605 fa sapere come i cittadini che mandavano i figli a scuola dovessero pagare una certa somma al comune. Questo poi dava al maestro un compenso, comprendente le quote versate dai familiari. Il pagamento avveniva ogni quadrimestre.
L'introito mensile bastava al maestro per una vita quasi agiata. Non pagando l'affitto, tenuto conto di quanto percepiva dal comune e dalle varie confraternite, dei servizi extra, della scuola di musica a privati, riscuoteva circa sessanta / settanta baiocchi al giorno, mentre le spese per vivere erano una trentina.
Nel 1604 il maestro è don Mariotto Ciarli, di Citerna, che ha anche l'incarico dalla confraternita di San Bernardino di celebrare messe nella propria chiesa.
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Gli vengono dati dieci baiocchi per ogni messa "bassa". Nel 1606 è don Battista Gatti di Castel Durante (Urbania dal 1631). Il maestro poteva essere pagato anche con beni in natura. Nel 1639 è maestro don Horatio Pulcinelli. Nel 1644, a causa della "Guerra del Granduca", fra i tanti danni subiti dal paese, ce ne furono anche alla scuola pubblica. Si dovettero rifare le finestre della scuola e i banchi dei ragazzi che pur erano stati costruiti nel 1632. Dal 1661 al 1669 il maestro è don Giobelardino, cappellano di Santa Croce, incaricato di officiare questa chiesa. Nel 1689 il maestro è don Giuseppe Traversini. Resterà fino al 1694, sostituito nel 1695 da don Pietro Paolo Vincenti, di Nocera.
Musica e teatro
Dai libri delle confraternite sappiamo che queste società laiche di Fratta avevano un proprio cappellano (poteva prestare servizio a più confraternite contemporaneamente), il quale svolgeva anche le funzioni di maestro di cappella. Questa persona era addetta alla parte musicale dei vari uffici religiosi quando vi era l'obbligo di fare musica e, assieme a lui, c'era il gruppo dei suoi allievi. In una registrazione del maggio 1669 la confraternita di Santa Croce pagò una certa somma a don Giambattista Fuli, arciprete di San Giovanni, per rimborsarlo delle spese fatte nell'acquisto di "alcuni libri di musica per servitio di alcuni giovinetti che vanno a imparare e vengono a onorare la nostra chiesa in tutte le occasioni".
Esisteva quindi un'attività musicale che, oltre al maestro di cappella, coinvolgeva anche alcuni giovani i quali andavano ad imparare. Esisteva, cioè, una scuola vera e propria, atta a formare una certa istruzione musicale.
Per quanto riguarda l'attività teatrale, si hanno le prime notizie negli anni 1614 e 1615. Riguardano la seconda costituzione (una prima - lo sappiamo dall'atto - era infatti avvenuta agli inizi del secolo) in Fratta di un'accademia denominata, secondo i modi in uso in quel tempo, degli "Inestabili" e che, fra alterne vicende, vedremo arrivare fino al XX secolo.
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Tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento si formano nei vari stati d'Italia associazioni di persone che sentono il bisogno di fare teatro. Avevano una prima denominazione generica (Accademia, Congregazione) seguita poi da un termine più qualificante, in senso volutamente umoristico (Sbalzati, Insensati, Illuminati). Coloro che ne facevano parte erano in maggioranza persone istruite, professionisti e letterati, ma anche possidenti terrieri e rappresentanti del mondo commerciale paesano, accomunati tutti dalla voglia di calcare il palcoscenico. Sapevano di costituire un'avanguardia e di essere circondati da una larga maggioranza di persone non istruite, con grandi limiti riguardo all'arte teatrale. Ogni socio doveva scegliersi un soprannome, anch'esso alquanto umoristico (lo "Stracco", lo "Stolto", ecc.), registrato nei libri, usato per chiamarsi fra di loro quando si trovavano in quella sede. Il capo era "il prencipe", nome che poi si trasformò in "presidente".
Nella nostra Fratta si volle seguire la moda del tempo e l'associazione teatrale fu chiamata "Congregazione degli Inestabili", cioè degli Instabili, quasi fosse formata da persone che nel modo di agire, parlare, pensare, non fosse "stabile", ferma, decisa. Erano invece persone istruite, sapevano quello che volevano, provenivano da famiglie ben note in paese, accomunate dalla voglia di fare teatro, anche se più per se stessi che per un eventuale pubblico.
Della costituzione abbiamo due atti notarili: uno del febbraio 1614, uno del marzo 1615.
Questa associazione si trasformò, verso la metà del Settecento, nell'Accademia dei Signori Riuniti e tanto si imporrà nei secoli seguenti fino a diventare la nostra attuale Accademia dei Riuniti. Nell'atto costitutivo del 1614 compaiono Scipione Burelli, Paolo Cibo, Mutio Flori, Pietro Giovanni Martinelli, Pietro Magi, Paolo Spunta, Angelo Francesconi e Cristiano Christiani, tutti di Fratta. Ogni anno, la prima domenica di Quaresima, si dovevano riunire per nominare il capo della Congragazione (il "Prencipe"), colui che aveva ottenuto il maggior numero di voti. Venivano inoltre eletti un "Viceprencipe", un "Consigliero", un "Secretario" e un "Depositario". Le cariche assegnate non si potevano rifiutare una volta avvenuta l'elezione, pena il pagamento di una somma di denaro. Il "Prencipe" aveva una grande autorità sulle altre cariche e su tutti i soci della Congregazione, che in occasione di commedie e rappresentazioni "tanto spirituali che profane" si tassavano la somma stabilita. Era vietato, poi, entrare nella sala prove prima che si recitasse la commedia, mentre gli attori avevano l'obbligo di non rifiutare la parte assegnata dal "Prencipe". Colui che lo faceva era tenuto a pagare tutte le spese sostenute per 1'allestimento dello spettacolo. Ogni mese veniva fatta la contabilità ed eventuali entrate erano date al "Depositario".
Un anno dopo, sabato 7 marzo 1615, ci fu un'altra riunione dei soci presso il notaio. Sono sempre le stesse persone: è "Prencipe" Mutio Flori e si vogliono ammettere nella Congregazione tre nuovi soci, considerati degni di farne parte: Francesco Maria Soli, Alessandro Bartolelli e Giulio Santi.
Gli alberghi
Gli "hospitji" erano, nella più vasta accezione della parola, luoghi di ricovero e di alloggio per viandanti. Ve n'erano all'interno dell'abitato e nei borghi circostanti, ma anche lungo le vie di maggior transito fra paesi. Gli ospizi delle città avevano solo la funzione di ricettività che oggi definiamo alberghiera; quelli in aperta campagna assommavano in sé sempre altre e diverse attività più o meno inerenti al traffico su quelle strade. Data la pericolosità dei tempi e la concentrazione della popolazione in città, paesi, ville e castelli (luoghi chiusi e protetti) le campagne erano scarsamente abitate ed erano pochissime le case fra le città, quindi si dovevano percorrere molte miglia prima di incontrare la sicurezza di quattro mura.
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Questo stato di cose, oltre a provocare problemi per il viandante, ne creava anche per colui che decideva di gestire un ospizio in un luogo non difeso (ad es. l'osteria di Pier Antonio, vicino alla sola chiesa e casa parrocchiale di San Paterniano, odierna Pierantonio), di fronte a una certa malavita che infestava le strade d'Italia. Data la pericolosità del vivere sociale, queste osterie-locande potevano considerarsi luoghi sicuri solo nelle immediate vicinanze di una casa-forte o di un posto militare. Un esempio, l'osteria di Galera, al confine di Fratta, dove Perugia aveva costruito una casa-forte (visibile tuttora anche se molto diroccata) presidiata da propri soldati. Essendo molto pericoloso tenere un ospizio in aperta campagna e in un luogo non difeso, solo il tornaconto economico spingeva i gestori, che cercavano più attività atte a procurar loro il guadagno necessario. Negli ospizi di campagna c'era infatti l'osteria, per il vitto; l'alloggio (locanda); una stalla abbastanza capace, perché tutti usavano il cavallo negli spostamenti; la rimessa per le carrozze (i carri a quattro ruote restavano all'aperto); la sede per la diligenza, i "corsi postali", dovere al quale i gestori non potevano sottrarsi e che comprendeva, oltre al servizio di linea, anche la sosta e il cambio del cavallo per i corrieri privati; dimora e alloggio temporaneo per le guardie di pubblica sicurezza (sbirri), un servizio obbligatorio anche se pagato; i gestori dovevano dare inoltre ospitalità ai viandanti più miseri, o addirittura malati, benché fosse potenzialmente antieconomico.
In Fratta esisteva un ospizio al Borgo Superiore, di proprietà dell'abbazia di San Salvatore di Monte Acuto (Montecorona). Era situato vicino all'odierna piazza Marconi. Ne esisteva uno anche al Borgo Inferiore "in loco ditto le fabrecce" (piazza San Francesco), chiamato "ospizio della Campana".
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Nel 1601 si ha la prima notizia dell'esistenza dell'osteria della Corona, detta anche ospizio della Corona. E` situata nel luogo chiamato "le fabrecce" (Borgo Inferiore, appunto, piazza San Francesco, sede di molte officine di fabbri). E' di proprietà del conte Ranieri di Civitella. Questi l'affitta, nel 1611 ad Antonio del fu Mariano Savelli per quindici anni. L'osteria era all'inizio della piazza "davanti la pubblica via e dietro il Tevere" (pressappoco dov'è adesso il meccanico Edilio Belia). La famiglia Savelli era allora una delle più ricche del paese: Antonio assume a dirigere l'osteria Francesco Mori, detto San Marco. Nel 1626 oste della Corona è Jacomo Mori, figlio di Francesco.
A Pierantonio, oste di Pier Antonio, nel 1637, è un certo Baldino.
A Montalto, oste nel 1637, è Guerriero. Lavora vicino al Tevere, sotto la collina di Montalto, lungo la strada che da Fratta conduce alla villa del Niccone.
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Foto di Fabio Mariotti (Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)
Disegni di Adriano Bottaccioli
Fonti:
- Storia di Umbertide – Vol. V – Sec XVII – Renato Codovini – Manoscritto inedito
- Calendario di Umbertide 2002 – Ed. Comune di Umbertide - 2002
Interno della chiesa di San Bernardino
Disegni di Bottaccioli
Disegni di Adriano Bottaccioli
1929. Il castello di Montalto da dietro Disegno di Adriano Bottaccioli
L’abbigliamento e le abitazioni
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I vestiti
Le Leggi Suntuarie (1) proibivano di portare abiti con ornamenti preziosi e ricami ed il cardinale Bevilacqua emise un bando, nel 1600, per ricordare con rigore queste disposizioni e comminare pene severe contro i trasgressori, che dovevano essere molti.
Tra i tipi di tessuto usati troviamo l’“accia di canapa”, con cui si confezionavano coperte da tavola ed anche calzetti; l’“accia di lino”; 1'"amuer", stoffa usata per fare parati da chiesa e guanciali, costava quattro paoli il braccio; la "bambage", adoperata per vestiti dei bambini, padiglioni da letto, coperte da letto, calzette da donna e da neonati; il "broccato", usato per parati e pianete da chiesa, guanciali da chiesa e da sala, vestiti per donna; il "cambellotto", tessuto fatto di peli di cammello per vestiti da donna, maniche, sciugatori e busti; la "cambraia", proveniente della città di Cambrai in Francia; il "camorrino", stoffa di panno, dava il nome a un capo di vestiario; il "damasco", originario della città di Damasco, a tessitura complessa e a disegno; 1"'ermesino", proveniva dalla città di Ermuz in Persia, usata per guanciali e coperte da letto, vesti, pianete da chiesa, guanciali da sala; il "filo in dente", tessuto di canapa o lino che si faceva anche sui telai di Fratta (a volte troviamo "filo un dente", il che ci fa pensare al numero dei denti del pettine del telaio adoperati nel confezionarlo); il "mezzolano", molto resistente, di canapa e lana, caldo, impiegato di solito per vestiti da lavoro, con cui si cucivano anche vestiti da donna maggiormente nei colori giallo, verde e grigio (si lavorava in tinta unita o anche rigata, a volte misto a seta). C'era poi la "saia", di lana leggero, spinato, confezionato con la "saia", cioè quell'armatura che dava alla stoffa la trama a spina. C'era la seta per i capi di vestiario più costosi, come pure gli accessori. C'era infine la "sgarza", con la quale si rivestivano le sedie economiche e le "impennate" delle finestre (in quest'ultimo caso poteva essere trattata con olio per resistere all'acqua). Il velluto serviva per vesti, poi rifinite in oro. Le stoffe provenivano da Bergamo, Brabante (Paesi Bassi), Brescia, Cambrai (Francia), Camerino, Cipro, Città di Castello, Damasco, Perpignano (Francia), Ermuz, Fiandra (Paesi Bassi), Mossul (Medio Oriente), Pergola, Perugia, Torino, Verona.
L'abito ricco, da donna, aveva la scollatura quadrata, con trine, collana di perle e maniche corte.
Il busto copriva la parte superiore della vita e di solito era un capo esterno. I calzoni per uomo potevano avere le brache con i tagli; le camicie, trine ai polsi e al collo.
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La "camorra" era un vestito di panno, da uomo e da donna. Poteva essere di tessuto di saia e trinato. Nel tipo da uomo era lunga fino ai piedi e aperta davanti, con una lunga fila di bottoni.II "ferrajolo" era un capo da uomo,
di lana, nero o marrone, lungo, eventualmente con un giustacuore. Il mantello era invece tipicamente femminile. Le "manighe" erano molto usate perché facevano risparmiare la spesa di un capo intero. Infatti si usavano le maniche ma non le camicie relative. Sono ricordate in molti inventari del XVII e XVIII secolo.
Lo "sciugatoro" era un capo di vestiario da spalle, rettangolare, abbastanza ben rifinito. Aveva però anche altri usi: portare i neonati al battesimo o altre occasioni. Se, ad esempio, bisognava caricare sul capo un oggetto pesante, si metteva fra lo "sciugatoro" e la cesta una "cercina" (panno attorcigliato).
La "zàzara" era la zazzera, cioè una parrucca. Poteva essere di capelli veri o fatto con canapa.
Note:
1. Le leggi suntuarie erano dispositivi legislativi atti a disciplinare l’ostentazione del lusso per classi sociali, sesso, status economico, religioso o politico. Note in Italia fin dall'epoca romana, tali norme assumono rilievo dal Duecento, con l’espandersi degli scambi commerciali e la nascita di nuove necessità e dei relativi simboli di ricchezza. Sono sempre più numerosi coloro che possono sfoggiare abiti e ornamenti preziosi, col rischio di minare le barriere fra gruppi sociali ed entrare in contrasto con la moralità invocata dalla Chiesa.
Nonostante la loro severità le leggi suntuarie si dimostrarono di scarsa efficacia e alla fine del ‘700 erano quasi totalmente trasgredite.
Le case
Ogni casa del paese è un blocco a se stante, l'altezza è la dimensione preminente (di solito piano terra più tre piani). Dopo l'altezza viene la profondità e la larghezza sul fronte strada che è la dimensione più piccola. Ogni blocco non è unito al vicino da un muro comune, fra l'uno e l'altro c'è il vuoto, un'intercapedine, non è visibile dall'esterno in quanto sul fronte strada il muro è continuo per ragioni di sicurezza pubblica, di igiene e di estetica.
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Le caratteristiche:
Primo tipo - casa per una famiglia di medio stato economico
Un unico proprietario la abita con la famiglia. Ha quindi un ingresso di uso proprio e scale ad una sola rampa, unidirezionali, spezzate piano per piano. A pian terreno in genere c'è una bottega (ma ci può essere anche un "cellario" o uno "stabulo"). Ha la porta sulla via principale e quando la casa è divisa in due un'altra porta si apre sulla strada opposta.
Dall'ingresso si sale al primo piano ed il primo gradino è a meno di un metro dal portone. Sotto la prima rampa di scale c'è sempre un sottoscala usato come ripostiglio. Ai piani alti la superficie è la stessa, ma si può trovare una diversificazione nell'uso della scala: qualcuno ha una o due stanze di passaggio; altri hanno un corridoio che elimina il disagio del passaggio dentro le camere. Vedi la casa situata in via Leopoldo Grilli, al n. 11.
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Secondo tipo - casa abitata da famiglie povere
Quando si costruivano case per le quali l'affitto sarebbe stato minimo, si cercava di eliminare alcune spese, di cui la maggiore era quella delle scale. Quindi si costruiva una sola rampa, unidirezionale e continua. Partendo dal portone esterno, a terra, saliva direttamente fino al terzo piano, con una unicità spezzata, ai vari piani, da un pianerottolo. Per un maggior risparmio si usufruiva, nel costruirla, dello spazio esistente fra i due blocchi, cioè l'intercapedine.
Da ciò risultava una scala rigida, ad alti gradini. Ai pianerottoli c'era poi l'ingresso, a destra e a sinistra, di due piccoli appartamenti per piano. Esempi se ne possono vedere nell'odierna via Alberti, ai numeri 24 e 26. I locali a piano terra erano fatti a volta.
All'interno delle mura castellane sorgevano case dalla tipologia delineata che costituivano un insieme armonico ben inserito nel complesso architettonico del paese. C'erano, però, anche spazi abitativi di piccola superficie, casette di forma irregolare con la scala a doppia rampa, molto angusta, a volte unita ad una scala a chiocciola. Esistevano poi, seppur in numero esiguo, nei borghi esterni (il Borgo di Sopra e il Borgo di Sotto), costruzioni che nelle linee riecheggiavano quella costruzione di campagna che si era andata affermando nella metà del secolo precedente (nel Cinquecento), la casa contadina con la scala esterna. Una di queste è ancora visibile, abitata, all'estremità nord del Boccaiolo.
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Altro tipo di costruzione presente in Fratta è la casa signorile
Aveva un portone d'ingresso usato solo dal proprietario e famiglia, una scala a
doppia rampa abbastanza larga, costruita su volta a botte, molte camere ad ogni
piano e l'appartamento per la servitù all'ultimo piano. Nessuna di queste fu costruita
con portone e cortile interno da permettere l'ingresso e la manovra per le carrozze
a cavalli, come nelle vicine Città di Castello e Gubbio.
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Disegni di Adriano Bottaccioli
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Fonti:
- Storia di Umbertide – Vol. V – Sec XVII – Renato Codovini – Manoscritto inedito
- Calendario di Umbertide 2002 – Ed. Comune di Umbertide - 2002
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Disegni di Adriano Bottaccioli
Case nella piazzetta del Trocascio
(Disegni di Adriano Bottaccioli)
Ultima pagina di copertina del Calendario di
Umbertide 2002 realizzata
da Adriano Bottaccioli
Il servizio postale, la viabilità e la sanità
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Le poste
Nel Seicento Fratta era già dotata di un servizio postale. Non essendoci ancora i francobolli, le lettere venivano tassate al loro arrivo, pagate da colui al quale erano dirette. Il costo variava a seconda della distanza. Una lettera da Roma, ad esempio, pagava molto di più di una da Perugia. Era chiamata "piego": non esistendo le buste, si piegava nei lati destro e sinistro, poi quello inferiore e superiore, come si fa oggi con i telegrammi. Il postiglione veniva pagato anche dalla comunità di Fratta. Il ricevitore e dispensiere della posta (chiamato anche il "custode delle lettere") era responsabile e gestore dell'ufficio postale. Era impiegato unico, doveva fare tutto: riceveva lettere e plichi da spedire (ricevitore), consegnava le lettere e plichi in arrivo (dispensiere). Nel 1634 tale incarico era affidato a Cosimo Stella che ritroviamo anche nel 1637. Il servizio nello Stato romano era regolato da un bando del cardinale Aldobrandini il quale stabiliva, fra l'altro, che solo i principi e i cardinali potessero avere un servizio di posta proprio. Tutti gli altri dovevano usare il sistema statale ed era loro vietato inviare lettere "a mezzo di propri corrieri o a mezzo di pedoni, mulattieri, carrozzieri, barcaroli, senza licenza espressa e in scriptis del Mastro generale (di posta)". Severe pene per chi contravveniva.
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Le strade
La strada principale che attraversava il nostro territorio percorreva l'alta valle del Tevere, da Borgo San Sepolcro a Fratta. Terminava alla confluenza dei fiumi Niccone e Tevere, alla fine del territorio di Città di Castello. Era una discreta carrabile, come pure il piccolo tratto fra la villa del Niccone e Fratta, spettante alla nostra comunità. Nel punto di passaggio sul Tevere, poco a monte dell'odierna Montecastelli, all'angolo fra la strada e il fiume, c'era una casa-torre di origine militare costruita dalla comunità di Città di Castello nel Quattrocento per proteggere il transito sul fiume, distrutta nel 1980. L'attraversamento avveniva in barca e la strada risaliva l'opposta sponda girando sulla sinistra, su un percorso ancora visibile, passando accanto alla "casa dei fabbri", esistente tuttora. Terminata questa curva, c'era la Parrocchiale di Montecastelli e poi l'ultima casa-torre di sorveglianza nell'odierna località Cioccolanti (ancora esistente), dopo di che la strada si dirigeva alla confluenza per la valle del Niccone e la Toscana (Mercatale). A sud est di Fratta la strada proseguiva verso Perugia, attraverso la pianura, ed era chiamata la "strada del piano" per distinguerla dalla "strada del monte". La "strada del piano" usciva da Fratta da due punti diversi. Uno di periferia, a nord-est dell'abitato e precisamente dal confine con Civitella Ranieri (odierno incrocio bar Italia); si dirigeva lungo il lato nord della pianura toccando le prime colline (il "Macchione") sull'odierno percorso di via Morandi fino alla zona industriale Buzzacchero; si dirigeva quindi verso la casa-torre ancora esistente al vecchio vocabolo Cenerelle. Da qui proseguiva verso quella collinetta per scendere a Pian d'Assino dove c'era il guado del fiume. Si è sempre chiamata via "vicinale". L'altra strada usciva dall'abitato di Fratta attraverso la porta di San Francesco, prendeva il nome di "strada della Caminella" (dall'Ottocento si chiamerà via Secoli) e si dirigeva verso la Madonna del Moro: da qui volgeva un poco a nord per ricongiungersi con la strada vicinale di cui sopra. La risultante, come abbiamo detto, arrivava all'Assino uscendo così dal territorio di Fratta ed entrando in quello del castro di Serra Partucci (e parrocchia di Poggio Manente).
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Una strada dall'abitato di Fratta si dirigeva verso il castello di Civitella Ranieri: si svolgeva lungo l'odierna via Roma fino alla Pineta Ranieri, scendeva verso il vallone per risalire verso il castello. E' ancora esistente. La strada per l'abbazia di Montecorona iniziava dopo il ponte sul Tevere volgendo a sud (come oggi) e dopo trecento metri c'era il bivio per Romeggio (a lato esiste ancora un antico pozzo). Da qui proseguiva per l'odierna strada che conduce al Palazzo del Sole; dopo centocinquanta metri proseguiva in discesa verso il fosso dei Cardarelli, lo attraversava e risaliva fino alla casa colonica, passando sulla destra (ovest) per poi proseguire verso la chiusa del molino di Casanova, da dove proseguiva con il tracciato odierno.
La strada per la Toscana risaliva la valle del Niccone fino a Reschio, poi verso la val di Pierle. Il primo tratto (valle del Niccone) era nel territorio di Città di Castello, il secondo (val di Pierle) in territorio dei marchesi Bourbon del Monte, ramo di Sorbello. Era importante sia dal punto di vista militare, sia da quello economico per i passaggi di merci dalla Toscana al territorio di Urbino.
La strada per Città di Castello aveva inizio dal Borgo Superiore di Fratta (zona Sant' Erasmo, Piazza Marconi), si dirigeva ad ovest passando per il Molinello e la Petrella, evitando, così, sia il ponte sul Tevere di Fratta che il passo della barca di Montecastelli (si arrivava a Città di Castello costeggiando la sponda sinistra del Tevere).
La strada per Montone, che aveva inizio nel Borgo Superiore di Fratta all'altezza del convento di Santa Maria, proseguiva verso nord con un tracciato leggermente ad ovest dell'odierna strada (verso via P. Burelli, via degli Ostaggi).
La salute
Vari documenti tramandano i nomi dei medici che svolsero il loro lavoro in Fratta nel Seicento
I medici
Dall'inizio del secolo, fino al 1644, il dottor Piero Lignani di Città di Castello viene pagato dalla confraternita di Santa Croce. Alternerà il suo incarico, nel corso degli anni, con Jacobo Pachetto, Pier Gentile, Bonaventura Spinetti, Cova, Ascanio Spinetti. Il compenso annuale, all'inizio del secolo e fin verso la metà, è di dieci scudi per il lavoro che svolgeva all'ospedale di Santa Croce. Veniva anche pagato come medico della comunità che gli passava novanta scudi l'anno.
Nel 1638 è medico il dottor Agatoni e nel 1640 Alessandro Garognoli. Abita in una casa di proprietà della confraternita di San Bernardino.
Nel 1652 è medico Costantino Magi. E' il nonno di quel Costantino Magi che nel 1715 scriverà la "Storia di Fratta Perugina".
Nel 1654 abbiamo Pier Matteo Mancini, che veniva da Mercatello, e dopo di lui Gio Tommaso Spoletini. Nel 1663 ritroviamo Costantino Magi. Seguono poi Ascanio e Francesco Spinetti, Carlo Ranni, Innocenzo Fracassini, Alfonso Spunta. Dal 1667 al 1670 esercitano Spoletini e Costantino Magi insieme ad Alessandro Pellicciari. Dal 1680 al 1682 è ancora medico Gio Tommaso Spoletini e poi, alla fine del secolo, Agostino Fracassini, Paolo Santinelli e Giovan Battista Cherubini che nel 1694 visita i malati ricoverati all'ospedale di Santa Croce. Gli vengono pagati settanta baiocchi per ciascuna delle quattordici visite.
Oltre ai medici, svolgevano la loro professione anche i cerusici. Erano persone molto capaci ed esperte nel cavare il sangue agli ammalati, aprendo una vena del braccio o applicando le sanguisughe (mignatte). Queste operazioni venivano eseguite anche dai dottori e a volte anche dai barbieri. Persona particolarmente esperta è un certo Lutio, barbiere, spesso chiamato ed anche ben pagato. C'erano poi le ostetriche o arcoglitrici, o mammane, o obstetrici: donna Marsilia del Cerusico, donna Mila di Giovan Battista, ' Faustina Remeri, Margarita de Censi, Giustina Mancinelli, donna Olinda e una tale Giulia.
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Le malattie
Le malattie peggiori, nel secolo, erano la peste, il colera, la febbre di Maremma (malaria) e la lebbra. La peste ed il colera erano ricorrenti, anche se a periodi di 15-20 anni. Infierivano direttamente in paese o si arrestavano ai confini del territorio; qui potevano essere fermate o dagli sbarramenti doganali (poi si chiameranno cordoni sanitari) con sorveglianza continua o per semplice e casuale affievolirsi del male. La febbre di Maremma colpiva coloro che si recavano per lavori stagionali nelle terre dell'alto Lazio e Toscana del sud e molti di essi, tornando in paese, dovevano essere ricoverati perché assaliti da questo male a carattere ricorrente. La lebbra poi colpiva diverse persone e c'era un apposito istituto per ricoverarle, la Casa degli Incurabili, in Castel Nuovo (dalle parti di piazza Marconi).
Nel 1630 ci fu la peste a Milano (vedi Manzoni, I Promessi Sposi). Si estese nel 1631 all'Emilia, quindi alla Toscana e il pericolo si avvicinò ai territori di Fratta. Si misero allora i "cancelli" ai luoghi di confine, sorvegliati da militari e sanitari. Il più vicino era nella zona dove termina la val di Pierle ed inizia la valle del Niccone, fra i castelli di Sorbello e di Reschio, al confine con la Toscana. Il 12 dicembre 1632 la peste era già in Toscana. Per passare il confine bisognava avere, oltre al passaporto normale, anche il "passaporto di sanità". Il contagio fu contenuto, ma nel 1643 un'altra ondata invase il territorio perugino. Arrivò in Fratta a novembre. Era il tempo della guerra col Granduca di Toscana e negli ospedali di Fratta, oltre ai soldati feriti, c'erano anche diversi ammalati di peste che, nel febbraio dell'anno dopo (1644), non si era ancora attenuata. "Contagiosa e maligna, con delirio e con copia grande di vermi per la grande putredine propria di detta febbre", colpiva persone di ogni età e sesso. Molti ne morivano e per lo più erano persone che svolgevano attività produttive, come capi di bottega e capi famiglia, in quanto più esposti ai contatti con la gente. Non fu trovato rimedio "se non lo smeraldo preparato e l'applicazione delle mignatte ("i vivificatori") messe immediatamente dopo il quarto giorno dall'inizio del male". A Fratta morirono una trentina di persone, per lo più capi di bottega e di famiglia, benché si fossero ammalati in più di trecento in due mesi ed a marzo morirono ben centocinquanta soldati. La peste tornerà a Città di Castello nel 1656 e nel 1689.
Nel 1658 la farmacia dei Padri camaldolesi di Montecorona, situata all'eremo, fu portata a valle, nell'abbazia. L'anno seguente scoppiò ancora un'epidemia di peste, ma Fratta ne rimase indenne e in occasione della Festa della Immacolata Concezione fu fatta una processione di ringraziamento ("per rendimento di gratie per haverci preservato dalla peste").
Gli ospedali
All'inizio del XVII secolo nel castello di Fratta non ci sono più gli otto ospedali del secolo precedente (del Cinquecento). Ne sono rimasti soltanto due: nel Borgo Inferiore, a lato della chiesa di Santa Croce, e nel Borgo Superiore, l'ospedale di Sant'Erasmo. Questi ospedali appartenevano alla confraternita di Santa Croce. In uno prestavano l'opera i frati Cappuccini. L’"ospedale de sotto", detto anche "di Santa Croce", seguitò nella sua opera umanitaria fin verso il 1845 quando, in attesa che si costruisse l'ospedale nuovo (1877), fu chiuso e trovò sede in alcuni locali presi in affitto in più case del paese. L'ospedale "de sopra" era quello situato nel Borgo Superiore, nella piazza del mercatale, aderente alla chiesa di Sant'Erasmo. L'edificio è visibile tuttora, disposto in direzione nord-sud ed è costituito dal piano terra e dal primo piano.
La sua volumetria ci fa pensare che fosse il maggiore dei due ospedali ed infatti, nel corso della Guerra del Granduca, molti feriti furono trasportati dall'ospedale di Santa Croce a quello di Sant'Erasmo "...per meglio loro salute". In questo ospedale prestavano la loro opera i Frati Zoccolanti di Santa Maria, cioè i Minori Osservanti, che svolgevano la funzione di infermieri.
C'era anche un ospedale a Galera, una villa posta alla base di Monte Acuto, al confine con Perugia.
Disegni di Adriano Bottaccioli
Foto di Mariotti Fabio
Fonti:
- Storia di Umbertide – Vol. V – Sec - XVII – Renato Codovini – Manoscritto inedito
- Calendario di Umbertide 2002 – Ed. Comune di Umbertide - 2002
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La rovinosa piena del Tevere del 1610
La violenza dell’acqua distrusse due arcate del ponte sul Tevere che
rimase inagibile fino al 1617, anno in cui fu ultimata la ricostruzione
Il 1609 ed il 1610 furono anni di grandi e devastanti piogge che ingrossarono la portata del Tevere. Il Bonazzi definisce la piena del 1609 “Immensa”. Alla Fratta fu catastrofica quella del 20 ottobre dell'anno successivo che distrusse un pilone del ponte e fece crollare due arcate. Rimase in piedi solo quella adiacente alle mura castellane. Fu un grosso colpo per tutta l'economia della zona perché si interrompevano i collegamenti con il nord e quelli con la Toscana attraverso la valle del Niccone.
Passarono quattro anni prima che iniziasse l'opera di ricostruzione, nonostante le pressioni di Giovan Battista Spoletini, personaggio influente e introdotto presso la corte del Papa Paolo V.
I lavori iniziarono nel 1614 ed il progetto di ricostruzione prevedeva la riedificazione del ponte con due arcate soltanto, secondo i piani del progettista G. Rinaldi di Roma, incaricato direttamente dal Papa Paolo V. L'impresa del capo mastro muratore Bernardo Cappelli vinse l'appalto per la somma complessiva di 7.000 scudi che furono addossati per 9/12 alla città di Perugia (scudi 5.250), per 2/12 a Città di Castello (scudi 1.167) e per 1/12 alla Fratta e a Montone nella misura di 2/3 (scudi 389) e 1/3 (scudi 194) rispettivamente.
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Spoletini fu nominato sovrintendente alla costruzione, che ebbe un inizio disastroso perché il 30 agosto del 1614 un'altra piena del fiume distrusse i lavori già fatti e travolse le impalcature predisposte.
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Anche allora quando succedevano cose del genere, si mettevano in moto i processi per la ricerca delle responsabilità. Giovan Battista Spoletini fu subito accusato di frode all'amministrazione pontificia per aver permesso alla ditta l'utilizzazione di materiali scadenti e il 15 giugno 1615 fu arrestato. Ottenne la libertà provvisoria versando mille scudi di cauzione e alla fine del processo fu assolto con formula piena e risarcito dei danni subiti.
Per certi versi la piena del 30 agosto fu provvidenziale perché costrinse i responsabili della ricostruzione a rivedere interamente il progetto. L’impeto della corrente e la portata del fiume convinsero i tecnici più riottosi che due arcate erano poca cosa per un manufatto del genere e avrebbero lasciato un varco troppo esiguo al deflusso delle acque, con il prevedibile crollo dei piloni inadeguati a sopportare l'impeto delle piene. Fu disegnato di nuovo il progetto con tre arcate, esattamente uguali a quelle crollate nel 1610.
Intanto i lavori erano stati bloccati e si rifece una nuova gara d'appalto, che fu vinta dal mastro muratore Ercolano di Civitella per 6.050 scudi.
La ricostruzione riprese il 4 settembre 1617, condotta dai mastri muratori Francesco Valentini e Filippo Marinelli sotto la direzione dell'architetto Guido Bettoli e la sovrintendenza di Filippo Fracassini.
La cerimonia di inaugurazione e di posa della prima pietra si svolse con un rito solenne,
presieduto dal rappresentante del Papa, monsignor Antonio Diaz, Governatore di Perugia,
accompagnato dalle più alte Autorità locali. Costantino Magi, nel suo manoscritto,
racconta nei particolari lo svolgimento della celebrazione e a lui ci riferiamo per riportare
gli elementi essenziali di quel lunedì 4 settembre 1617.
La solenne processione partì dalla chiesa di San Francesco dove si era radunata tanta gente
non solo della Fratta, ma anche delle località vicine. In testa sfilavano le quattro
Confraternite: quella di Sant'Antonio della Morte, con le cappe nere, apriva il corteo; seguiva
quella di San Bernardino, o Buon Gesù, con le cappe bianche, e dietro la Compagnia di Santa
Croce, con le cappe azzurre; chiudeva la serie delle Confraternite quella del Santissimo
Sacramento, con le cappe rosse. Dietro a loro sfilava tutto il clero regolare e secolare tra due
cori di Musici e due Trombetti. “Ultimo a tutti questi seguiva il Prelato, accompagnato dal
Magistrato e da molte altre persone e della Terra e Forestieri più principali, e poi la frequenza
del popolo d'uomini prima e poi di donne e suonando intanto tutte le campane della Fratta
con molt'allegrezza, si passò il fiume per un ponte di legno fatto per tale effetto”.
Vicino al fondamento era stato eretto un altare con un grande baldacchino ricoperto da drappi
di seta rossa. Il Governatore vi prese posto con al fianco due Priori della città di Perugia, nel cui
territorio si trovavano le arcate crollate, i quattro difensori della Fratta in abito da cerimonia, e il personale ecclesiastico che assisteva l'alto prelato. Il rito si svolse tra applausi scroscianti uniti agli squilli delle trombe e al rullo dei tamburi, mentre tutte le campane del castello suonavano a distesa. Dall'alto delle torri si fece sentire un nutrito crepitio di artiglieria e ci fu chi pianse di commozione e di gioia.
La prima pietra, benedetta e posata da monsignor Antonio Diaz, recava su di un lato una croce ed il nome di Gesù; sull'altro la scritta:
“D.O.M. Deipare Virgini
Ill.mi Praesidis Antonii Diaz Rom. Episcop. Casert. manibus ad totius reparationis molem fulciendam vimque demolientis amnis derimendam
hic primus iniit lapis
Pridie nonas Septembris - Anno humanitatis reparatae MDCXVII
Pauli V - Pont. Max. - An. XIII”.
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I due archi crollati furono ricostruiti in mattoni posati sull'originario pilone, ritenuto idoneo a reggere la spinta delle piene. Nei primi giorni di settembre del 1619 il ponte era finito e le due arcate ancora oggi resistono alle sfuriate del Tevere.
Nell'agosto 1673, la superficie carrabile “dalla Madonna del Ponte sino alla Porta del suo capo ovest”, cioè la parte che era stata ricostruita, venne lastricata con mattoni e con lastre di pietra (le due grandi guide su cui scorrevano le ruote dei carri), dal mastro Horatio Angelini per un importo di “tre quattrini il piede”.
Fonti:
“Umbertide nel secolo XVII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2004
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Le mura che circondano il castello di Fratta
a cura di Fabio Mariotti
Relazione ritrovata nell'Archivio Comunale di Umbertide, Fondo Amministrativo Storico.
Risale alla prima metà del 1600 e l'estensore è ignoto. Potrebbe trattarsi
di un sopralluogo effettuato in occasione della predisposizione
delle difese per fronteggiare l'esercito del Granduca di Toscana nel 1643.
"Nella Terra della Fratta è situata una fortezza con una torre di forma quadrata alta piedi(1) 110 e larga(2) 2,86 e le sue mura di larghezza piedi 4 e once 8, la quale ha due porte principali, una a ponente e riguardante verso la Terra con suo ponte levatoro(3), fossa e controfossa aldidentro, qual porta viene guardata da due bocchette per due pezzi di artiglieria. L’altra porta verso levante(4), parimente con ponte levatoro, che appoggia in un rivelino(5) a tondello, chiamata “del Soccorso” in cui vi sono due bocche per l'artiglieria. Nei fianchi della medesima Rocca vi sono due torrioni in forma rotonda che abbracciano la medesima con i suoi merli larghi piedi 60.
Tutto questo forte contiene al primo piano una caminata a andito dove sono 1'impostatura per 14 pezzi d'artiglieria; sotto di esso vi sono due stanze per uso di polveriera, una per uso di cantina e l'altra per la legnara con carcere e segrete e da un lato due pozzi d'acqua perenne e in fondo della detta Rocca vi è sempre l'acqua.
Nel secondo piano vi è una stanza col camino e due altre contigue per quartiero delli soldati dove si possono alzare comodamente dieci letti. Vi è anche il forno per comodo per la cucina. Vi è ancora una stanza con quattro buche per le sentinelle che corrispondono sopra la porta grande di detta Rocca e in questo piano vi sono otto imposte per pezzi otto di artiglieria.
Nel terzo piano vi è lo scoperto di detti due torrioni con sua sentinella dalla parte del fiume Reggia, nel quale si richiedono sei pezzi d'artiglieria per ciascheduno.
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Nella medesima Rocca, principiando dal piano dei torrioni, vi sono cinque stanze una sopra l'altra, una dando l'ingresso all'altra mediante le scalette di pietra, tutte a volta con loro camini ed altri commodi, quali ponno servire per abitazione del castellano e sua guardia potendosi alzare letti sei per ciascheduna.
Nella sommità poi della Rocca vi si possono mettere pezzi quattro di artiglieria.
Ai lati di questo forte, dalla parte esteriore, si producono le mura castellane de detta Terra, fatte a scarpata di altezza di piedi 30, tutte terrapienate; e dalla parte di mezzogiorno per la distanza di piedi 316 dalla Rocca c'è un torrione sopra il fiume Reggia alto 50 piedi con i suoi fori per l'artiglieria, il fondo fatto a volta.
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Continuando la muraglia da questo torrione per piedi 227 sino ad altro torrione che riguarda la Porta di San Francesco, alto piedi 60 dall'alveo di detta Reggia. Questo torrione ha la comunicazione con altro fortino sopra la Porta di San Francesco e il ponte, con i suoi merli, luogo per le sentinelle e fori per l'artiglieria.
Alla testa poi del medesimo ponte posto sopra il Tevere vi è un altro baluardo con muro di grossezza di piedi 6 in circa, detto della Saracina continente due stanze per uso dei soldati con fori quattro per l'artiglieria e buche per le sentinelle, dove vi è la saracinesca per serrare la porta e impedire l'ingresso al ponte.
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Dalla parte poi di ponente sino a settentrione continua la suddetta muraglia castellana per piedi 250, bagnata dal fiume Tevere sino ad un angolo a forma di torrione e da questo sino alla porta della Piaggiola, cioè per piedi 200, si erge un torrione alto piedi 60 e largo 48 ed ha la comunicazione sopra le muraglie castellane dalla porta di settentrione terrapienate come le altre.
Queste muraglie per altri piedi 514 si uniscono al fortino o Rocca come sopra descritto".
La relazione evidenzia alcuni aspetti che è bene sottolineare:
1. il perimetro delle mura castellane era di 1800 piedi circa;
2. la porta principale della Rocca, nella Piazza del Comune, aveva ancora il ponte levatoio con fossa e controfossa;
3. la Porta del Soccorso era munita di ponte levatoio che si gettava sopra un ramo della Reggia;
4. la Rocca poteva essere munita di 42 pezzi di artiglieria, fra pesante e leggera;
5. l'altezza delle mura castellane era di 30 piedi;
6. la Saracina sopra il ponte del Tevere non disponeva più del ponte levatoio e veniva chiusa con una saracinesca (da cui il nome). Essa aveva due locali soprastanti, comunicanti tramite una scala a chiocciola (quello superiore conteneva i meccanismi per azionare il ponte levatoio) e poteva essere armata con quattro pezzi di artiglieria.
Note:
1. Un piede perugino corrisponde a cm.36,54
2. Per larghezza, qui e più avanti si intende la misura del perimetro del quadrato
3. E’ l’odierna porta d’ingresso alla Rocca, sulla piazza omonima
4. Oggi non esiste più. Consentiva l’uscita verso la piazza del Mercato
5. Era una sporgenza in muratura posta sopra la Porta del Soccorso. Se ne vedono ancora le tracce. E’ stato eliminato tra il 1910 ed il 1920
Disegni di Adriano Bottaccioli
Foto dall’Archivio fotografico del Comune di Umbertide e di Fabio Mariotti
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Fonti:
“Umbertide nel secolo XVII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2004
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L'Abbondanza di Fratta
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Un servizio di assistenza per mantenere basso il prezzo del grano
in favore della popolazione più disagiata
a cura di Fabio Mariotti
Erano molte, nel Seicento, le opere di assistenza e beneficenza messe in piedi dagli organismi religiosi. Tra queste primeggiava l'Abbondanza, un particolare servizio che aveva il compito di fare provviste di grano e di rivenderlo al prezzo di costo, o addirittura inferiore, nei periodi di scarsità del prodotto. In altre parole, l'Abbondanza era la versione Seicentesca di quello che nei secoli successivi sarà il Monte Frumentario.
La prima notizia certa sulla sua esistenza risale al 1630, quando il Comune si fece prestare 2.000 scudi dal conte Ranieri “... per servitio dell'Abbondanza”. Il prestito, garantito dalla vendita successiva del pane, era un'operazione senza rischi e il rientro del denaro era sicuro.
L’addetto al servizio veniva chiamato “Procuratore dei Grani” e aveva la responsabilità della gestione complessiva del settore, comprese le provviste, il commercio e la tenuta della contabilità.
Per chiedere il prestito di 2.000 scudi prima accennato, fu necessario avere il consenso del vescovo di Gubbio e non delle Autorità perugine e centrali. Il che fa supporre che l'Abbondanza, almeno all'origine, fosse un'iniziativa inserita nel programma degli interventi umanitari della diocesi, anche se gli organi del Comune avevano un ruolo determinante per quell'intreccio solido e costante tra il momento amministrativo e quello religioso, che era la caratteristica dei tempi.
Il riconoscimento formale avvenne nel 1678, quando il Governatore di Perugia, monsignor Lorenzo Lomellini, emanò l'atto ufficiale della costituzione dell'Abbondanza di Fratta. Il nuovo "status" poneva questo importante e delicato settore sotto la tutela ed il controllo rigido del governo centrale e del Governatore di Perugia, ma indipendentemente dal rispetto formale delle procedure le cose continuarono a svolgersi in stretta collaborazione tra il Comune di Fratta, il Procuratore dei Grani e la Curia di Gubbio.
In omaggio alle norme generali impartite dal cardinale Cibo, fu creato un consiglio di tre Abbondanzieri, che duravano in carica un quadrimestre, e venne istituito l'organo dei revisori dei conti, composto da due membri, per il controllo di tutta la parte amministrativa. L'avvicendamento quadrimestrale degli incarichi e l'organo del revisorato dei conti stavano ad indicare l'importanza di questo presidio umanitario, e non a torto se si considera che l'Abbondanza, con i suoi 3.000 scudi di bilancio annuale, era l'azienda più grande della Fratta, di gran lunga superiore allo stesso Comune.
In una nota del 29 maggio 1655 della Confraternita di Santa Croce venne registrato uno scudo in entrata “... hauto dalli Signori Abbondanzieri della Fratta quali pagano per cinque mesi per appigione della stalla dove essi tengono le fascine...”. Il riferimento alle fascine chiama in causa il Forno Pubblico e quasi con certezza in quel periodo l'Abbondanza gestiva il forno, anche se non sappiamo sotto quale forma, se dell'appalto o ad altro titolo.
Documentazione d’archivio
Alla Fratta c'era bisogno di grano e i Magistrati e gli Abbondanzieri si erano subito attivati per avanzare la richiesta al Governo Centrale, seguendo la via gerarchica, in ossequio alle disposizioni impartite.
Al Governatore di Perugia
“... Dovendo la Comunità della Fratta provvedere nell'anno corrente di grani per servitio pubblico per la tenuità del raccolto, ha ordinato la Sacra Congregazione del Buon Governo che, quando fatte le necessarie diligenze non si trovi chi offerisca all'appalto del forno, si esamini prima che quantità ne possa occorrere per lo spiano del pane da farsi dal Forno Publico, e poi conceda licenza all'Abondanzieri eletti di prendere a nome proprio sino alla somma di scudi mille cinquecento a Censo al minore interesse possibile, con 1'obligo loro d'estinguere detto Censo nel corso di tutto l'anno con ritratto che si farà del grano nello spiano del quale si dovrà non solamente calcolare il prezzo, ma anche ogni altra spesa che ne fosse occorsa senza che ne segua scapito di sorta alcuna e non vi s'interessi in conto alcuno la Comunità, ma tutto resti a carico degli Abondanzieri, i quali dovranno essere rilevati indenni dal publico consilio dello scapito che fortuitamente facessero, con far osservare poi per regola di buon governo gli ordini dati sin sotto li 18 agosto dell'anno scorso e Dio la prosperi”.
Roma 30 luglio 1678
Di Vostra Signoria come Fratello
Il cardinale CIBO
Giovanni Bussi Segretario
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Stralcio del verbale dei revisori dei conti che documenta il riconoscimento ufficiale da parte del Governo Pontificio dell’Abbondanza di Fratta che esisteva ed operava già negli anni precedenti in forma non ufficiale
Adì 20 agosto 1680
“Furono rivisti li conti della loro amministrazione alli signori dottor Giovan Tommaso Spoletini Cassiero, Cristofano Stella e per esso al signor Monti suo figlio, Vittorio Spunta e Francesco Illuminati Abondanzieri della Terra della Fratta, quale Abondanza fu eretta con ordine di Mons. Ill.mo e Rev.mo Lorenzo Lomellini, Governatore di Perugia, l'anno 1678 adì 21 di agosto dalli molto illustri signori Annibale Pellicciari e Compagni, moderni Difensori di questa Terra della Fratta e fu trovato nell'anno della loro amministrazione haver detti Abondanzieri comperato some di grano quattrocentosettantacinque (475) comprate da essi in conti in diversi partiti come appare da libri..... Alla quale Abondanza è stato dato principio con scudi quattrocentonove (409) e baj quarantacinque (45)”.
Foto:
Archivio fotografico del Comune di Umbertide
Fonti:
“Umbertide nel secolo XVII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2004
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Le fornaci, l'attività edilizia, la caccia e la pesca
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Le fornaci di laterizi
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Le fornaci di laterizi erano strutture produttive importanti e diffuse alla Fratta e nel suo territorio. Ci riferiamo ai grandi impianti che producevano materiale edilizio e non alle numerose aziende familiari, munite di piccoli forni, che si dedicavano alla produzione di vasellame di ceramica e di altri oggetti del genere. In questi grandi impianti i prodotti più ricorrenti erano i mattoni, la calce “viva” e “smorzata”, le “scine” per il bucato, gli orci e altri tipi di vasi di grandi dimensioni.
Si trattava di un lavoro impegnativo, con orari particolari che reclamavano una presenza costante, per cui spesso era tutta la famiglia che si dedicava all'attività della fornace.
Alla Fratta quella più rinomata e importante si trovava nei pressi di Santa Maria ed apparteneva al conte di Civitella Ranieri. La sua struttura edilizia esterna esisteva fino a qualche anno fa, dove oggi è stato realizzato il quartiere “La Fornace”.
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Si producevano due tipi di mattoni: “quadri” e “scorniciati”. Il primo tipo era quello maggiormente diffuso e comprendeva mattoni comuni, pianelle da tetto e da solaio, mezzanelle, quadrucci, quadroni per pavimenti, tegole e coppi per la copertura dei tetti. Ad eccezione di questi due ultimi prodotti, il resto era costituito da paràllelepipedi di terra cotta di varie dimensioni per cui tutta la produzione si indicava con il termine di “lavoro quadro” e “lavorare in quadro” aveva il significato di realizzare un prodotto comune che richiedeva minori tempi di esecuzione.
Il materiale “scorniciato” aveva finalità ornamentali ed aggraziava l'aspetto estetico degli edifici. Non si trattava di un lusso o di una ricercatezza esagerata poiché il gusto del secolo, e anche di quelli successivi, ricorreva a simili ricercatezze anche per le case coloniche. Si era soliti abbellire le facciate con rilievi sporgenti, marcare le sagome delle finestre e dei portoni d'ingresso con tratti meno spigolosi, evidenziare con i “marcapiani” i vari livelli delle abitazioni, collocare accanto alle finestre i “reggi-vaso” che non si utilizzavano per i gerani ma per poggiare il vaso da notte, ricavare nicchie per l'immagine di qualche santo protettore. Questo tipo di laterizi veniva eseguito su ordinazione del costruttore. Il fornaciaio predisponeva “lo stampo” di legno dalle giuste dimensioni che dava la forma voluta all'argilla e poi la cottura avrebbe pensato a rendere stabile il manufatto.
Oltre alla fornace di Santa Maria del conte Ranieri, c'era quella di Poggio Manente, detta la "Fornace del Poggio", che apparteneva ai conti di quel territorio, e la fornace della Badia dei frati Camaldolesi di Monte Corona, situata lungo il Tevere, a poca distanza dall'Abbazia.
Quella di Monte Acuto attraversò un periodo di particolare fortuna perché apparteneva al mastro e valido architetto Filippo Fracassini, l'appaltatore delle opere più importanti della Fratta. È chiaro che i mattoni necessari alle opere prese in appalto se li fabbricava da solo, realizzando un doppio profitto. Costui, infatti, nel 1637 vendette tremila mattoni alla chiesa della Madonna della Reggia di cui stava rifacendo la cupola. Nel 1641 ricevette dalla stessa 25 scudi “per le cotte della fornace” e nel 1646 altri trenta scudi “per coprire la fabbrica”; l'espressione lascia supporre che si trattasse delle tegole di copertura del tetto.
Il 25 gennaio 1610 i frati Camaldolesi affittarono la loro fornace ad Agostino Meneconi di Villa del Colle di San Savino, per tre anni. Riportiamo una parte del contratto per renderci conto in modo diretto dell'attività che si praticava:
“In prima Agostino conduttore si obbliga a dare gratis et amore al detto locatore et suoi successori tutta la calcina che cuocerà in detta fornace et anche tutti i pezzi del lavoro che nel cuocersi si rompessero.
Item che il locatore sia obbligato a portargli la legna per cuocere, a sue proprie spese, mentre per tutte le altre spese deve essere tenuto il conduttore.
Il conduttore deve dare al locatore la metà di tutto il lavoro che cuocerà nella fornace, mentre l'altra metà resta per il conduttore Agostino che la venderà a chi vuole. Se però questa metà gli fosse richiesta dai frati, egli di preferenza dovrà venderla a loro e questi gliela pagheranno a scudi due e due giuli ogni mille pezzi di lavoro quadro, cioè di lavoro comune”.
L’attività edilizia
Se si metteva il naso fuori dalle mura, un aspetto colpiva l'occhio in quei primi anni del secolo: la periferia del paese costituiva un cantiere edilizio imponente e affaccendato. Erano in fase di realizzazione opere di grande mole come il tempio della Madonna della Reggia, la costruzione del convento di Santa Maria Nuova e il livellamento della piazza di San Francesco.
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Proseguivano, infatti, i lavori di costruzione della Chiesa della Madonna della Reggia diretti dall'architetto Mariotto da Cartona. Nel 1601 il capo mastro Vincentio aveva completato la scala “lumaca”, ossia la scala a chiocciola che dal piano terra saliva ai livelli superiori.
La costruzione del monastero di Santa Maria Nuova iniziò nel 1604 e nel giro di tre anni fu completata da parte del costruttore Giovan Battista ser Migni (o Sermigni). Il 13 luglio 1608 un decreto del vescovo di Gubbio, monsignor Andrea Sorbolonghi, destinò l'edificio a convento femminile precisando che non poteva ospitare più di sedici suore. Il convento, oltre alla sua funzione specifica, rivestiva una importanza notevole ai fini della difesa perché chiudeva un tratto della sponda sinistra del Tevere, rendendo più sicure le vie della Piaggiola e del Boccaiolo.
A pochi passi dal convento c'era la chiesa di Sant'Erasmo e la Piazza del Mercatale lambita dalla “forma” del mulino, cioè dal canale artificiale scoperto di adduzione dell'acqua della Carpina che alimentava il Mulinello e il Molinaccio, quest'ultimo proprio a ridosso delle mura castellane.
Qualche anno dopo, proprio davanti al monastero delle monache, iniziarono i lavori del convento e della chiesa di Sant'Agostino. I padri Agostiniani in precedenza risiedevano presso la chiesa di Santa Croce in angusti locali e nel 1616 chiesero ed ottennero l'autorizzazione a costruire “un convento sopra le mura castellane e sul davanti la chiesa rispondente nella via di Castel Nuovo”.
La chiesa aveva sull'altare maggiore una tavola rappresentante la Madonna del Soccorso, tanto che veniva chiamata anche Chiesa del Soccorso. Nell'altare di sinistra c'era uno stupendo dipinto di Bernardino Magi raffigurante la Vergine con i Santi Eremiti Paolo ed Antonio.
Il convento ebbe una vita breve per la mancanza di fondi ed il 7 di agosto del 1656 il Papa Alessandro VII Ghigi lo soppresse. Nel 1613 presero il via i lavori della Piazza di San Francesco. Nella circostanza si verificò una convergenza di interessi tra la municipalità della Fratta e la Confraternita di San Bernardino (o del Confalone). La prima vedeva nell'opera non solo una bonifica urbanistica, ma un baluardo di sicurezza e di difesa a ridosso della sponda sinistra del Tevere. Il piano, infatti, prevedeva la costruzione di una grande porta sul lato sud della piazza (poi detta Porta del Borgo Inferiore, ancora esistente) in aderenza al vecchio mulino di Sant'Erasmo. Il Borgo Inferiore sarebbe stato così completamente chiuso alla penetrazione dall'esterno.
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La seconda, oltre al vantaggio di disporre di un comodo spazio pianeggiante davanti alla chiesa, avrebbe potuto costruire altri due edifici, di modeste dimensioni, per unire la porta agli altri fabbricati esistenti, proprio nell'angolo sud del lato della chiesa.
I lavori furono avviati con rapidità e nello stesso anno erano finiti. A ricordo della costruzione della porta fu murato un mattone di laterizio con l'incisione: “S.F. 16XIII” (San Francesco 1613), visibile anche oggi sull'angolo destro in fondo alla piazza.
Terminati i lavori in muratura, si doveva mettere mano a quelli di livellamento della piazza che degradava verso il Tevere e di conseguenza alla sistemazione dei fabbricati della scarpata per adattarli al nuovo livello. Ma non c'erano i soldi e bisognava aspettare tempi migliori, che non si fecero attendere.
Successe, infatti, che nei primi giorni del 1614 morì donna Lavinia di Oratio, moglie di Giovan Battista Cherubini, che lasciò 100 fiorini (66 scudi romani) alla Compagnia di San Bernardino per la celebrazione di Messe in suffragio della sua anima, come si era soliti fare in quel tempo.
Il marito di donna Lavinia, d'accordo con la Confraternita di San Bernardino che deliberò in merito il 17 gennaio 1614, decise di utilizzare la somma per l'edificazione del muro di sostegno sul lato del Tevere per consentire il contenimento dei materiali di riporto necessari al livellamento. I lavori furono eseguiti da un certo Giovanni di Matteo, del Colle di San Savino, sotto il controllo dei “soprastanti” Pietro Magi e Ludovico Tartaglia, nominati dalla Confraternita. L’atto notarile di Paolo Cibo, stipulato il 17 marzo dello stesso anno, formalizzò gli impegni e dette il via ai lavori.
Una giornata di lavoro
La popolazione locale è sempre stata intraprendente e laboriosa e le avverse vicende che si accanivano contro le prospettive di una vita tranquilla non furono mai causa di scoraggiamento. Il vero signore del secolo era la povertà, anzi la miseria, ma gli abitanti del castello strappavano la vita con dignità e tenacia, vivendo alla giornata perché non è possibile programmare il futuro quando si dipende totalmente dagli altri. Si vedevano persone impegnate nei lavori più umili, che andavano dalla raccolta dello stabbio nelle adiacenze del paese, al taglio dell'erba sulle greppe delle strade per rivendere fieno e concime a coloro che lo chiedevano. C'era chi si dedicava alla raccolta delle foglie di gelso nei mesi di maggio e di giugno per il piccolo allevamento di bachi da seta custodito gelosamente in cucina, e chi andava in campagna a ritirare i prodotti della terra per conto delle varie Confraternite del paese.
Ma la prima metà del secolo offrì ulteriori risorse alla solita vita di sempre che incrementarono la possibilità di racimolare qualche baiocco per le famiglie locali.
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La Fratta era diventata un grande cantiere edile che fremeva di opere e di braccia con la ricostruzione del ponte sul Tevere, della cupola della Madonna della Reggia, del convento di Santa Maria Nuova, della chiesa di Santa Croce, dei lavori per il livellamento della Piazza di San Francesco, della costruzione del convento di Sant'Agostino, solo per ricordare le opere maggiori e più in vista.
C'era bisogno di tante braccia e di una grande diversificazione dei ruoli. L’indotto che ruotava intorno a queste opere era davvero notevole e metteva in moto una buona serie di attività artigianali che raggiunsero una vivacità elevata. Il settore dei trasporti fu quello che ne beneficiò maggiormente perché il legname, i laterizi, le pietre, la calcina e tanti altri materiali necessari per i lavori edilizi dovevano essere trasportati con i mezzi del tempo, basati esclusivamente sulla trazione animale.
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La richiesta di facchinaggio era grande perché nei cantieri, ad eccezione dell'opera specializzata dei muratori, operava tutta manovalanza generica che eseguiva gli ordini impartiti dai vari mastri. Non era raro vedere i carri che andavano e venivano in continuazione trasportando il materiale necessario e scaricarlo con cura, mentre poco distante, il fabbro, con la forgia in piena efficienza modellava i ferri occorrenti vicino al sollecito manovale che, dentro una grande buca scavata per terra, “spegneva” la calce viva da impastare poi con il mucchio di rena lì accanto.
La regola fondamentale era quella di fare economia di tutto e tra i beni personali da salvaguardare con cura, oltre ai vestiti “buoni”, c'erano le scarpe. Dovevano durare a lungo, soprattutto se avevano la suola di cuoio, e si usavano solo per le grandi occasioni. Negli altri casi, specie d'inverno, si mettevano gli zoccoli con il fondo di legno, imbottito di bullette di ferro perché l'attrito con il terreno non li deteriorasse tanto presto. Gli operai del cantiere viaggiavano così e i loro movimenti si avvertivano bene, perché quel tipo di suola cingolata faceva tanto rumore.
Alla fine di maggio c'era chi prendeva la via della Maremma per i lavori della mietitura e della trebbiatura del grano. Si ritornava con qualche baiocco, ma più spesso con quella febbre che ti toglieva dal mondo.
Caccia e pesca
Oggi sono due attività del tempo libero che rivestono le caratteristiche di un piacevole svago. Nel secolo di cui stiamo parlando non era del tutto così, in particolare per una grande categoria di persone che vedeva nella loro pratica la possibilità di ricavare qualcosa di utile per lo stomaco.
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Un bando emanato dal Governatore di Perugia nel 1604, oltre al calendario venatorio, ci fornisce molte altre notizie relative alla caccia e il suo esame è interessante per ricostruire i comportamenti dei cacciatori e le tecniche per la cattura degli animali.
Anche a quel tempo il cane era l'amico e il collaboratore indispensabile dell'uomo per le battute di caccia che volessero avere esiti positivi. Le razze più diffuse erano il bracco e il levriero. Negli inventari e nelle annotazioni del secolo sono ricorrenti le "catenelle" per queste due razze, mentre non vengono segnalati altri tipi di cani che certamente erano presenti, in particolare quelli da guardia.
Si cacciava con lo “schioppo”, ma venivano usate spesso le “reti per lepori” (lepri) e le “cortinelle” per prendere le starne. Gli animali più diffusi, e pare ce ne fossero in abbondanza, erano “lepori, starne, fagiani, quaglie, coturnici, capri et porci”. Nella seconda metà del secolo fanno apparizione i “carnieri” per riporre la selvaggina cacciata (ma sicuramente c'erano anche prima) e le “borscette da migliarino”. Il migliarino è un uccello dell'ordine dei passeracei, lungo circa 16 centimetri, con un piumaggio bruno rugginoso nella parte superiore, bianco nel ventre macchiato di nero. È un volatile gregario e si associa ai fringuelli, insettivoro d'estate e granivoro d'inverno. In Italia si trova di passo da ottobre a marzo, ma può anche essere sedentario nelle zone paludose dove viene comunemente chiamato zigolo palustre.
In data antecedente al bando del 1604 era stato emanato un editto (14 settembre 1602) che regolava il calendario venatorio e ribadiva il divieto di caccia dal primo di marzo alla fine di luglio con le solite sanzioni “... sotto la pena a chi contrafarà di tre tratti di corda e di 50 scudi da dividersi secondo il solito”. In caso di recidiva il contravventore veniva incatenato in una gabbia di legno e messo alla berlina di fronte alla gente. L’editto prevedeva addirittura la pena dell'esilio per i casi più gravi.
Non si facciano turbare dalle contestazioni i responsabili del cosiddetto “sport” della caccia, fonte permanente di opposte vedute, perché il cardinale Bevilacqua era molto più severo di loro e per un uccello si rischiava l'esilio, in un periodo in cui la selvaggina abbondava.
Anche la pesca si praticava abbastanza, considerato che il castello era da ogni parte circondato dall'acqua. Il tratto di fiume che andava dalla torre crollata nella piena del 1610 fino al ponte, era chiamato “la pescaia” e anche alcuni poderi vicini ai corsi d'acqua disponevano di un piccolo bacino per la conservazione dei pesci.
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Ma a parte questo espediente, lungo il corso del Tevere, della Carpina, dell'Assino, della Reggia e del Niccone si pescava in diversi modi e con diversi sistemi un ottimo pesce, perché le acque non erano inquinate come adesso.
Una buona raccolta si faceva presso i molini, con il sistema della “cannicciata”. Essa consisteva in una specie di trappola di canne, all'interno della quale il pesce entrava e non poteva più uscire. Nei canali artificiali di adduzione dell'acqua alla ruota del molino non era difficile organizzare un tranello simile. Il pesce pescato doveva essere abbondante se nei contratti di affitto di alcuni molini, tra gli obblighi dell'affittuario, spesso rientrava quello di dare al proprietario una certa quantità di libbre di pesce.
Un altro sistema di pesca molto in voga era quello con il “ghiaccio”, storpiatura locale del “giacchio”. La notizia è riportata in un'annotazione del 1611 e Lorena Beneduce Filippini ci informa che il giacchio era “una rete circolare piombata tutta intorno alla circonferenza, che presentava al centro, dove convergevano le maglie, una cordicella che il pescatore al momento del lancio legava intorno al polso.
Esso veniva sistemato sulla spalla a mo' di mantello e al momento opportuno veniva lanciato come un disco. La rete, dopo una breve traiettoria, ricadeva aperta ad ombrello sull'acqua. In virtù del peso dei piombi si chiudeva a campana, rinserrando il pesce. Il pescatore a questo punto si serviva della corda legata al polso per recuperare il giacchio con la preda”.
Il metodo più comune, però, era quello del tramaglio, usato fino a pochi decenni fa.
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Disegno di Adriano Bottaccioli
Foto:
Archivio fotografico storico Comune di Umbertide
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Fonti:
“Umbertide nel secolo XVII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2004
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Disegni di Adriano Bottaccioli
Mappa di Fratta (Disegno di Adriano Bottaccioli)
La porta di San Francesco o della Caminella
Disegni di Adriano Bottaccioli
1998. Veduta aerea dell'Eremo di Montecorona
LA GUERRA DEL GRANDUCA DI TOSCANA
Cronaca dell’assedio del castello di Fratta dal novembre 1643 all’aprile 1644
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La cosiddetta "Guerra del Granduca di Toscana" si svolse dal 1642 al 1644 tra il papa Urbano VIII e la lega formata dal duca Odoardo Farnese, signore di Parma e Piacenza, della quale facevano parte Ferdinando II granduca di Toscana (le cui truppe assediarono la Fratta), Alfonso III duca di Modena e la Repubblica di Venezia. Scoppiò per l'occupazione e la distruzione del luogo fortificato di Castro, vicino Roma, feudo di proprietà del duca Odoardo Farnese per il quale non pagava più da anni le tasse al papa e rifiutava l'annessione allo Stato della Chiesa (come rivendicava il pontefice) nonostante l'offerta di questi di comprarlo.
Fu nell'autunno 1643 che la guerra fece ingresso nell'alta valle del Tevere e nel territorio della Fratta. La guerra terminò il 1º aprile 1644 e la pace fra la lega ed il papa fu firmata il 4 aprile seguente.
Nel 1642 si inizia a fortificare il castello di Fratta
Nei primi decenni del Seicento la fortezza di Fratta era presidiata da un corpo di soldati Corsi. Nel 1642 già erano tanti i "rumori di guerra" che la nostra magistratura cominciò dei lavori di fortificazione, iniziando dall'allestimento del fortino di Porta Nuova non più usato militarmente da molti anni.
Dopo di ciò si rifece il parapetto della cortina est e poi si lavorò alla porta della Campana, sostituendo le vecchie ed ormai arrugginite ferramenta e munendola di uno "sportello". Si portarono a termine le porte di Castel Nuovo, cioè quella del mercato (si affacciava sul Mercatale di Sant'Erasmo e chiudeva l'entrata prima dell'attuale meccanico) o di Sant'Antonio (dal nome della chiesa che si trovava pressappoco dietro all'attuale pasticceria della Sandra) e quella di metà del Boccaiolo, costruendo grossi muri di mattoni dalla parte esterna. Quindi si rifecero i due ponti levatoi della Rocca, quello che guardava all'interno del paese e quello esterno, detto porta "del Soccorso".
Il passaggio delle truppe nel territorio
Per tutta l'estate 1643 passarono soldati d'ogni genere verso Città di Castello, la piazzaforte più a nord, a confine con lo stato nemico della Toscana. Per Fratta una volta transitarono ben 5.000 fanti e 500 cavalli con le armi in mano e munizioni per 150 some fra polvere, piombo e micce.
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Nominata una congregazione per la difesa di Fratta
La magistratura di Fratta, considerati i pressanti "rumori di guerra", nominò una che doveva sovrintendere agli eventuali futuri bisogni bellici. I membri della congregazione si misero subito al lavoro e per prima cosa fecero ripulire i fossati attorno alle mura e tagliare le piante di olmo, i pergolati ed i canneti che vi erano cresciuti negli anni.
Ricostruirono il parapetto della cortina nord (fra la Rocca e la Piaggiola) che passa dietro al palazzo del comune, accomodarono il torrione a lato della porta della campana e costruirono un ponte levatoio a questa porta, in cima alla Piaggiola. La porta di Sotto, che conduce a San Francesco, fu murata e terrapienata e sul davanti si mise un "cancello", come sul ponte del Tevere, continuo ai muri della "Madonna", probabilmente la "Maestà" costruita all'inizio del ponte sul Tevere. Un terzo cancello fu posto a metà della Piaggiola, davanti al ponte levatoio. All'estremo ovest del ponte sul Tevere rifecero il portone alla torre detta"Saracina" ed accomodarono la saracinesca vecchia ed arrugginita, in modo che si potesse alzare ed abbassa
re velocemente, sbarrando il passo a chiunque volesse entrare sul ponte.
Furono chiuse dal di fuori le porte della chiesa della madonna della Reggia (Collegiata) con un muro di mattoni largo quattro piedi. Attorno alla cornice sotto la cupola vennero costruiti dei parapetti e realizzate delle feritoie alle finestre. La chiesa, così fortificata, divenne deposito di viveri e di munizioni, presidiato continuamente da dodici soldati. Custodivano seicento libbre di polvere da sparo, duecento di piombo, cento piedi di miccia e dodici moschetti, cui il Cardinale Legato aggiunse una soma di polvere, un'altra di palle e una di miccia.
Fratta premeva molto a Roma e alla fine di agosto il cardinale Francesco Barberini ordinò alla magistratura locale di dare un minuzioso ragguaglio delle fortificazioni e delle trincee esistenti, dei viveri e munizioni che si trovavano nella fortezza, del numero dei soldati di presidio. Avendo avuto risposta che mancava il comandante, il Barberini incaricò Giovan Battista Bono, piemontese di Cuneo, con il titolo di "Governatore delle Armi". Inoltre inviò a Fratta, poco dopo, una compagnia di milizie da Pesaro, formata da duecento soldati, seguita poi da un'altra, di stanza a Fossato, costituita da duecento uomini.
Giovan Battista Bono fece erigere con gran celerità una trincea a forma di mezzaluna davanti alla "Saracina" del ponte sul Tevere, che copriva tutta la vista della strada per Città di Castello, terminata il 30 agosto.
Dalla valle del Niccone arriva la cavalleria fiorentina
Il 6 novembre la maggior parte della cavalleria fiorentina partì dalla val di Pierle ed entrò nella valle del Niccone. Passò poi sotto Montalto evitando il contrasto con quel presidio, quasi ignorandolo benché sapesse che era privo di artiglieria, e verso mezzogiorno giunse nelle vicinanze di Fratta. Qui si portarono due squadroni, uno diretto verso Romeggio e l'altro al "Palazzo della Tramontana", in vocabolo "il Bagno". Ciò vedendo, il governatore Bono fece ritirare gli operai che lavoravano al Prato, munì le mura di soldati, ne mise alle porte e nella chiesa della Madonna della Reggia, distribuì le munizioni necessarie ed aspettò la venuta dei nemici, per contrastare i quali fu anche fortificato il posto di Santa Maria degli Zoccolanti (Santa Maria della Pietà).
I fiorentini, intanto, dopo aver dimostrato la loro presenza e forza, andarono via passando per Polgeto e Montacuto, saccheggiando la campagna come erano solite fare tutte le soldatesche, lasciando dei presidi di dragoni nei due castelli (Polgeto e Montacuto). II grosso dell'esercito, passando per il Colle del Cardinale, tornò al campo di Magione, dove erano acquartierate altre forze. Il giorno dopo, 7 novembre, i soldati in Fratta provarono a riconquistare quei due castelli, ma riuscirono a sopraffare solo i fiorentini asserragliati a Montacuto e, alle due di notte, portarono in Fratta quei prigionieri alla casa del governatore Bono, residente vicino alla Rocca, nella via che da porta della Campana conduceva alla piazza del Comune (ora piazza Fortebracci).
La mattina dell'8 arrivò Tobia Pallavicino, maestro di campo comandante della piazza di Città di Castello. Si mise d'accordo con la cavalleria nemica che andava a soccorrere i pochi dragoni rimasti a presidiare Polgeto: l'assedio terminò ed i fiorentini se ne tornarono a Magione al campo. La cosa non piacque al governatore Bono in quanto a Polgeto c'era un ufficiale fiorentino che insieme ai soldati aspettava l'arrivo del grosso dell'esercito: l'appuntamento era dopo quattro giorni per dare l'assalto finale a Fratta. Prima di sera si videro squadroni di cavalleria nemica sulla collina di Romeggio, parte dei quali erano venuti da Magione per la via di Monestevole e parte dal Colle del Cardinale, la Nese e Montacuto. Dalla Fratta si sentiva il rumore dei carri che conducevano dodici pezzi di cannoni con il bagaglio necessario e la circostanza provocò molto timore fra i difensori, nonostante quaranta muli carichi di vettovaglie fossero stati sottratti dai contadini che avevano assalito quelle salmerie non difese dai soldati.
Da Romeggio si attacca il ponte sul Tevere
Il giorno seguente, a Romeggio, altra cavalleria nemica si appostò sotto la torre del castello con dodici bandiere spiegate al vento, ben visibili dalla Fratta. Dal castello alla sottostante chiesetta di San Pietro si vedevano la fanteria, un altro squadrone di cavalleria vicino a Montalto e un corpo di fanteria al "Palazzo della Tramontana", poco distante dal "Bagno".
Il grosso dell'armata fiorentina si fermò a Romeggio ed a Polgeto dove erano il loro comandante, il principe Matthias dei Medici, ed il generale Borra. Parte dei soldati di Romeggio cominciarono a scendere dai campi sotto San Pietro fino al ponte sul Tevere, ma i moschettieri del presidio di Fratta, che ne erano a guardia, sparando di continuo, li tenevano a distanza non permettendo loro di avvicinarsi. Mentre era in corso la battaglia, i soldati del ponte aumentarono le difese della trincea a mezzaluna fatta sul Prato. Di fianco furono posti due cancelli, così vicini che vi poteva passare solo un uomo alla volta.
Con una grande quantità di terra vennero terrapiedati il portone e la porta fatta poco tempo prima, il cancello posto circa a metà del ponte, all'altezza della chiesina della Madonna del Carmelo (ogni sera chiuso a chiave). Anche la chiesetta della Madonna del Ponte (costruita sul pilone a valle) ebbe feritoie dietro le quali si potevano appostare i soldati. Furono chiusi i due borghi costruendo delle trincee, mentre le case furono munite di feritoie.
In San Francesco e nel convento non vi era muro che non avesse aperture atte a sparare. Furono terrapienate le porte che davano sull'orto del convento, i muri delle case e della chiesa di San Bernardino, dell'osteria della Corona, delle botteghe dei fabbri, delle case lungo la sponda sinistra del Tevere e di quelle dove c'erano soldati all'erta, armi alla mano.
Quella notte fra 1'8 e il 9 novembre le pianure ed i colli erano illuminati da grandi e numerosi fuochi: il nemico ne aveva accesi verso la valle del Niccone, a Monte Migiano, Romeggio e Polgeto; nella pianura "di Sopra" rispondevano i falò ben più grandi e dolorosi di case e pagliai che bruciavano.
La piena del Tevere frena l’attacco
Verso le 4 di mattina fu dato l'allarme affinché si stesse con le armi in mano perché si vedevano i nemici avvicinarsi al ponte del Tevere. Aveva piovuto molto, dalla sera prima e l'acqua continuava a cadere copiosamente e senza tregua. Il Tevere cominciò ad ingrossarsi. La piena tolse ai fiorentini la possibilità di attraversare il fiume e di assalire il paese dagli altri lati. Rimasero fermi nei posti raggiunti con l'esercito "squadronato", come se dovesse iniziare l'assalto da un momento all'altro: aspettavano che il fiume diminuisse la portata. Cominciarono a spostare verso il Niccone le salmerie, i carri e tutto il bottino che avevano fatto a Romeggio, Polgeto e Palazzo del Corvatto. Il passaggio durò tre ore continue, con grande meraviglia delle nostre genti e dei soldati i quali, avendo avuto l'ordine di difendere solamente il paese, si trovavano nell'impossibilità di reagire per impedire la perdita di tanto bestiame.
L'esercito fiorentino, portati i propri carriaggi e le prede al Niccone, aspettava che le acque diminuissero. In considerazione di ciò, Tobia Pallavicino, comandante dei soldati di Fratta, decise all'improvviso dà dar fuoco anche alle case e alle botteghe del Borgo Superiore, comprese quelle del mercato dove erano i laboratori dei vasai. Nella circostanza, per un banale errore, fu incendiata anche la chiesa di Sant'Erasmo, ma alcuni soldati spensero le fiamme non prima che si producessero gravi danni.
Arriva anche la neve in soccorso di Fratta
La notte fra il 9 e il 10 novembre fu propizia al paese: soffiò un vento di Grecale da levante che portò freddo e la mattina tutte le colline erano ricoperte di neve, con gravi impedimenti al nemico. In aiuto della Fratta venne il generale della cavalleria pontificia Cornelio Malvasìa con duecento cavalieri e diverse some di munizioni e strumenti da guastatori: si schierarono subito nel Prato con le sciabole sguainate per scoraggiare il nemico dai piani d'attacco. II Malvasìa fece costruire anche una trincea nel campo dietro la Rocca e un'altra in mezzo alla piazza del mercato, dal fosso fino alla chiesa di Sant'Erasmo, per proteggere la ritirata ai difensori delle trincee più esterne. Di fronte ai pericoli incombenti, il vescovo di Gubbio decise di trasferire le monache di Santa Maria Nuova nella sua città, in un convento di clausura, fino a quando non fosse tornata la calma.
In questo giorno arrivò un altro rinforzo, voluto dal comandante di Perugia. Era il "Terzo" di Pier Francesco del Monte, che aveva con sé soldati migliori e meglio equipaggiati degli altri due "Terzi" che si trovavano in Fratta, perciò fu destinato alla difesa del convento di Santa Maria. Pier Francesco del Monte era molto generoso e assai prudente nelle decisioni; si comportò da gentiluomo e anche la truppa agì correttamente, rispettando i beni dei frattigiani, non causando liti. Nella notte fra il 10 e 1'11 novembre l'esercito fiorentino era ancora appostato sulle colline laterali della valle del Niccone, a Montecastelli, Civitella Guasta e al Bagno, e teneva sempre i fuochi accesi, aspettando di passare sull'altra sponda. Verso le 2 di notte si videro lumi spostarsi verso il fiume e in Fratta si sparse la voce che il nemico era riuscito a guadare il Tevere. Nel paese accesero luci alle finestre e stavano con le armi alla mano; un piccolo nucleo di cavalleria verificò al Faldo che il nemico non aveva attraversato.
Ciò avvenne due giorni dopo: la mattina del 13 novembre. Una squadra di cinquecento cavalli, tra i migliori, guadarono il Tevere sopra Fontesegale e si spinsero verso Montone e il convento dei Cappuccini. Si era messo a piovere di nuovo e questi cavalieri, vedendo che il resto dell'esercito non li aveva seguiti, pensarono bene di tornare indietro, preoccupati dal rischio che le acque, elevandosi ancora, li avrebbero isolati dal resto.
La cattura del comandante Tobia Pallavicino
La mattina del 13 novembre Tobia Pallavicino, dopo aver scritto due lettere ai suoi superiori di Perugia, decise di andare a controllare le difese a Montone. Prese pochi uomini con sé, pensando che lo squadrone di fiorentini fosse tornato dall'altra parte. Invece, giunto al torrente Rio se lo trovò di fronte, venne circondato e fatto prigioniero.
Fu quindi condotto davanti al principe Matthias de' Medici, che però lo trattò con gentilezza ed umanità. Il comando generale di Fratta passò a Cornelio Malvasìa. La sera del 12 novembre i fiorentini se ne andarono via dalle vicinanze di Fratta portandosi nelle valli del Niccone e del Nestore, a causa della pioggia che impantanava le strade ed ingrossava i fiumi, della bontà delle fortificazioni di Fratta (che avevano visto da vicino) e della forte difesa di numerose truppe.
La conquista del castello di Montecastelli
Il 18 novembre si verificò un fatto d'armi a Montecastelli, dove l'esercito fiorentino aveva lasciato un presidio di sessanta soldati. In quei giorni comandante in Fratta era Pier Francesco Bourbon dei Marchesi del Monte e costui, desiderando che la campagna fosse totalmente libera, decise di conquistare quel castello, per rendere sicura la strada verso Città di Castello. Inviò soldati armati di moschetti e di "petardi" che arrivarono sul far dell'alba. Dopo un'ora riuscirono a sfondare una porta ed entrarono; i fiorentini si arresero e furono condotti prigionieri prima alla Fratta e poi a Perugia. Successivamente si fecero a Fratta nuove fortificazioni; nel gennaio 1644 si rasero al suolo due palazzi bruciati dei padri Camaldolesi e un terzo posto nella via Nuova, appartenente al cavalier Soli, per usare i mattoni alla costruzione di fortificazioni alla porta del Prato.
II 12 gennaio si realizzò una nuova porta contrapposta a quella del mercato, dal cantone della chiesa di Sant'Antonio alla casa della stessa. Il 15 febbraio fu rifatta di nuovo la porta di legno nella cortina della trincea del Prato.
La fine della guerra
Il 6 aprile arrivarono lettere in cui si comunicava l'avvenuto ristabilimento della pace fra lo stato romano del papa ed il granduca di Toscana.
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Fonti:
Calendario storico di Umbertide 2002 - Ed. Comune di Umbertide - 2002
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Disegno del ponte sul Tevere con la chiesetta del
Carmelo sul pilone (demolita nel 1867)
Lo stemma del
Granducato
Ferdinando II
La mappa dell'assedio - disegno di Adriano Bottaccioli - Dal Calendario di Umbertide 2002
La nuova cupola della Collegiata e la chiesa di Santa Croce
La cupola della Madonna della Reggia
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La cupola della Madonna della Reggia che sovrastava il massiccio e agile tempio a base ottagonale, dopo pochi anni di vita si stancò del suo solitario splendore e della sua altezza superba che superava quella Rocca antistante. Galeazzo Alessi e Giulio Danti avevano fatto del tutto per collocarla in un trono prestigioso, ma essa cominciò presto a dare seri segnali di instabilità, minacciando di scendere in basso per vedere com'era la facciata della chiesa che ricopriva.
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Sembra quasi certo che non ce la fece a crollare, solo perché l'attento e scrupoloso controllo degli addetti del culto intervenne prima, altrimenti avrebbe prodotto danni incalcolabili ad un monumento raro nelle sue caratteristiche e caro alla pietà dei fedeli. Così nel 1619 ebbe inizio l'opera di smantellamento, con il massimo rispetto per la sottostante struttura di costruzione recente(1).
La cupola originaria, ultimata sotto la direzione tecnica del perugino Bino Sozi, subentrato all'Alessi e al Danti che erano morti, era a sesto ribassato, di ispirazione romanica, e si allontanava dal gusto ufficiale di un secolo che celebrava i trionfi del Rinascimento con le sue ardite spinte architettoniche protese verso il cielo.
Esternamente era rivestita di piombo,
materiale malleabile
ma pesante, come tutte le cupole
di quel tempo.
Non sappiamo se per il peso
eccessivo o per vizi delle strutture
portanti che la sorreggevano,
si dovette procedere al suo
smantellamento.
Ma il ricordo e l'immagine non
sono andati interamente perduti.
In una tela attribuita a Bernardino
Magi, del 1602, che tuttora si
trova nella chiesa di San
Bernardino sebbene in uno stato
pietoso,
è riprodotto uno scorcio paesaggistico
della Fratta del tempo. Tra le altre cose interessanti del documento
pittorico, è ben visibile la cupola di piombo che svetta alta sopra ogni
altra struttura urbanistica.
Terminata l'opera di demolizione, ebbe inizio la copertura provvisoria
del tempio, almeno a giudicare dalle numerose commesse di materiale
edilizio che le registrazioni del tempo riportano. Nel frattempo si
lavorava alla stesura di un nuovo progetto che Rutilio presentò nel 1621.
I lavori non vennero diretti dall'architetto Rutilio che, consegnato
il disegno, scompare dalla conduzione della fabbrica, ma da Bernardino
Sermigni della Fratta che si avvalse dell'opera di un valente collega come
Filippo Fracassini, reduce dalla recente ricostruzione delle due arcate del
ponte sul Tevere e impegnato nella fabbrica della chiesa di Santa Croce.
La nuova cupola, questa volta a tutto sesto, fu ultimata nel 1641 con felici
e gradevoli intuizioni tecniche, come il colonnato interno che non sappiamo
se attribuire al Rutilio o al Sermigni.
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Il tocco finale della lanterna sovrastante la cupola è di qualche anno posteriore e si colloca tra il 1646 ed il 1647, mentre la palla e la Croce furono alzate nel 1663(2). La guerra del Granduca, in atto in quel periodo, aveva rallentato anche i lavori della chiesa più cara alla gente di Fratta.
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Le foto antiche sono tratte dall'Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide
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La storia della chiesa di Santa Croce
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All'inizio del secolo la chiesa manteneva il suo aspetto originario di piccola pieve, in posizione arretrata rispetto alla piazza, sul cui altare maggiore troneggiava la Deposizione del Signorelli che vi era stata collocata intorno al 1516. Aveva due cappelline lungo le pareti laterali, quasi sicuramente le uniche. In una di queste c'era un quadro di San Vincenzo, come sembrerebbe confermare un appunto allegato ad un atto notarile del 1605 con scritto: “Giuseppe Laudati, pittore perugino, dipinse il quadro di San Vincenzo in Santa Croce. Fu allievo di Carlo Maratta”.
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L’altare della seconda cappella si fregiava del dipinto di Marino Sponta, della Fratta, che rappresentava la Presentazione al Tempio. L’opera risaliva al 1618 circa, perché in quell'anno lo Sponta ebbe otto scudi in anticipo per il suo lavoro; altri cinque ne prese il 21 dicembre 1620, e il 19 gennaio del 1621 il saldo definitivo di nove scudi. La modestia della cifra è riconosciuta anche da Antonio Guerrini(3) con l'annotazione che la Presentazione al Tempio è costata “la mera gratificazione di 22 scudi”.
A cavallo tra il 1614 ed il 1615, le due cappelle, una delle quali era dedicata a San Francesco da Paola, furono indorate(4). Il lavoro fu eseguito da Muzio Flori e da Berardino Sermigni. Ma qualcosa doveva essere andato storto perché nel 1620 furono commissionati alcuni lavori non meglio precisati: “Messer Berardino Sermigni si obbliga a rifare le due cappelle... per scudi sei”.
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Sempre allo stesso periodo risale il capolavoro della “grande mostra lignea” per incastonare la Deposizione del Signorelli, appesa alla parete di fondo, dietro l'altare maggiore. L'autore fu Pietro Lazzari, di Sant'Angelo in Vado. La mostra fu voluta e ordinata dalla Confraternita per dare una collocazione più degna all'opera dell'artista cortonese e nelle varie annotazioni esistenti essa viene indicata con diverse espressioni: “Mostra Lignea”, “La Cappella”, “L’Ornamento dell'Altare Maggiore”, “L'Ornamento della Cappella”.
Il 30 aprile 16131a grande opera in legno di noce, costata 212 scudi, doveva essere terminata e montata perché una nota di pagamento del collaboratore del Lazzari dice: “... e più hauto il detto Giovanpiero baj cinquanta e un barile di vino per mettere su l'Ornamento”. Dove “mettere su” dovrebbe essere sinonimo di montaggio definitivo.
Qualche anno dopo, nel 1615, Flori e Sermigni, che avevano terminato da poco i lavori nelle due cappelle, indorarono la mostra del Lazzari. Si trattò di un intervento lungo e paziente che finì nel 1619 e costò 216 scudi.
Nonostante i ripetuti interventi di ampliamento e di ornamento della chiesa, la Confraternita di Santa Croce, la più attiva ed economicamente più solida del tempo, non era soddisfatta e pensava ad un tempio più grande e maestoso. Ebbero così inizio, tra il 1632 ed i1 1634, i lavori definitivi che dettero all'antica cappella l'aspetto attuale.
Per la circostanza la mostra lignea, da poco realizzata, fu smontata pezzo per pezzo e con il suo prezioso dipinto riposta in luogo sicuro: non solo per ripararla dal rischio di danni, ma anche per consentire il consolidamento della parete di fondo sulla quale poggiava. Solo a lavori ultimati riprese il suo posto.
Il progetto e la realizzazione furono opera dell'architetto locale Filippo Fracassini che “sacras aedes Sanctae Crucis a fundamentis erexit”. Essa si collocava sulla stessa linea frontale delle altre due chiese (San Francesco e San Bernardino) nella piazza di San Francesco, da tempo esistenti.
Filippo Fracassini, dunque, nella prima metà del secolo, si impegnò nella realizzazione di tre opere importanti: il ponte sul Tevere, la cupola della Madonna della Reggia e la chiesa di Santa Croce. Don Silvio Fidanza, parroco della villa di Monte Migiano e suo contemporaneo, che Antonio Guerrini definisce “dottissimo”(5), alla morte dell'architetto autodidatta, avvenuta nel 1650, gli dedicò questa epigrafe:
DEO CRUCI VIRGINI
PHILIPPUS DE FRACASSINIS
SINE LITERIS NUMERIS DISERTISSIMUS
PONTEM INFECTUM ARTE REFECIT
POST DILUVIUM
TRIA MILIA NONGENTA DECEM
PRIDIE NONAS SEPTEMBRIS
SACRAS AEDES
SANCTAE CRUCIS A CRISTI MORTE
1649
OPERE A FUNDAMENTIS EREXIT
SANCTAE MARIAE DE REGIA A PARTU VIRGINIS
INGENIOSE PERFECIT
ANNO IUBILEI 1645
[Onore a Dio, alla Croce e alla Vergine. Filippo Fracassini, molto celebre pur non avendo studiato, ricostruì a regola d'arte il ponte distrutto 3910 anni dopo il diluvio universale, il giorno 4 settembre(6). Edificò dalle fondamenta la chiesa di Santa Croce, dedicata alla morte di Cristo, nel 1649. Completò con creativi accorgimenti la chiesa di Santa Maria della Reggia, dedicata alla natività della Vergine, nel 1645.]
La nuova chiesa, come ricordato, sostituiva la piccola e antica cappella, officiata dai Padri Agostiniani, già dedicata al culto e alla venerazione della Santa Croce, fin da epoca anteriore al 1338(7). In questa piccola pieve era eretta la Compagnia dei Disciplinati(8) che nel 1556 prese il nome di Confraternita di Santa Croce.
La chiesa, d'ispirazione vagamente barocca secondo lo stile del tempo, ricca di stucchi e di decorazioni (oggi completamente rimossi), è lunga 23 metri e larga 11, con tre altari per ogni
fiancata laterale, oltre all'elegante altare maggiore. I lavori ebbero termine nel 1649. In seguito, nel 1677, due delle cappelle furono ornate di stucchi dal mastro stuccatore Giovanni Fontana, di Foligno.
Oggi la chiesa, che la diocesi di Gubbio ha ceduto al Comune di Umbertide, è stata trasformata in Museo Civico e proprio sull'altare maggiore troneggia la stupenda tavola della Deposizione dalla Croce di Luca Signorelli (integralmente restaurata), una delle opere più importanti dell'artista cortonese, dipinta nel 1516.
La Compagnia dei Disciplinati prima, e la Confraternita di Santa Croce poi, avevano una particolare venerazione per la Croce e la passione di Cristo perché la loro chiesa era ad Esse dedicata. Non è da escludere pertanto che, quando nel corso del 1515 o nei primi giorni del 1516 fu commissionata l'opera a Luca Signorelli, sia stata indicata anche una traccia del lavoro da eseguire. Il dipinto “su tavola” fu realizzato in tempi rapidi nello stesso anno 1516 e ciò sta a significare che l'artista disponeva di una organizzata bottega e di validi collaboratori.
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Il tema principale, messo in risalto nell'opera, è quello di Cristo mentre viene deposto dalla Croce che spicca in tutta la sua drammatica plasticità in primo piano. Ma il dipinto, nel suo complesso, ha un respiro più ampio e rappresenta una sintesi dei momenti salienti della passione di Cristo e un'epopea della Croce, raffigurata nei tre pannelli della predella. La scena centrale, posta in primo piano, vede due seguaci, arrampicati su scale sorrette da Nicodemo e Giuseppe, intenti a sostenere, con bianchi lini, il corpo di Gesù liberato dai chiodi che lo appendevano alla Croce. Ai suoi piedi, un gruppo di figure, al centro delle quali appare la Madonna, svenuta e abbandonata sulle ginocchia di una pia donna; più discosta, la Maddalena in piedi sotto la Croce, nel pietoso e simbolico gesto di raccogliere il sangue del Crocifisso nelle mani congiunte e aperte a forma di conca. C'è anche Giovanni, il discepolo prediletto, che non poteva mancare nel momento del dolore. Con un salto storico notevole, per collegare le scene rappresentate nella predella sottostante al tema centrale, accanto alla Madonna si staglia la figura di Elena (la madre di Costantino), riccamente vestita, con le dita intrecciate tra loro ed assorta in meditazione. Ma il ciclo non si chiude qui e si scorgono sullo sfondo, in alto a sinistra, le tre croci, simbolo della crocifissione, mentre a destra si svolge la traslazione della salma nel sepolcro.
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In basso, nei tre piccoli pannelli della predella, è affidata ai colori la leggenda del ritrovamento della vera Croce di Cristo, secondo una tradizione molto diffusa nel Medioevo che affondava le radici nella “Legenda Aurea” di Iacopo da Varagine. La storia incomincia con la regina di Saba in visita a Salomone (curiosamente riportata sulla tavoletta di centro) che, ispirata dall'alto, si inginocchia per adorare un grosso tronco di legno che faceva da ponte sopra un piccolo corso d'acqua. La leggenda vuole che proprio quel tronco diventasse la Croce di Cristo. Il ciclo narrativo dell'epopea della Croce continua con Costantino che getta lo scompiglio nelle armate di Massenzio, sfoderando una croce d'oro come gli era stato suggerito nel sogno (tavoletta di sinistra), e con la madre Elena che ritrova la vera Croce sul Golgota (tavoletta centrale). Nella tavoletta di destra si fa un balzo nel tempo fino al VII Secolo, quando il re persiano Cosroe, conquistata Gerusalemme, si impadronì della Croce e la trafugò. La narrazione pittorica si chiude con 1'imperatore Eraclio che, recuperata la Croce, la porta trionfalmente a Gerusalemme.
Sulle fiancate del quadro si innalzano due colonne da cui rimbalzano i profili di eleganti candelabri, finemente lavorati e sormontati dalla scritta. “Lucas Siquorellus de Cortona Pictor pingebat”.
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Note:
1. Vedi in proposito il pregevole lavoro di Pietro Vispi, La Collegiata di Santa Maria della Reggia, Ed. Scuola Radio Elettra & M. S.p.a., Città di Castello, 2002.
2. Cfr. Umberto Pesci, Storia di Umbertide, pag. 112, Tipografia R. Fruttini, Gualdo Tadino. 1932.
3. Op. Cit., pag. 234.
4. Archivio di Santa Croce, catalogo n. 22, anni 1609/1686, carta 32.
5. Op. Cit., pag. 332.
6. È un modo insolito e ingegnoso per indicare la data del 4 settembre 1617, giorno in cui vennero inaugurati solennemente i lavori di ricostruzione del ponte. Per capire questa strana datazione bisogna rifarsi alla mentalità e alla cultura del tempo, che vedevano in alcuni avvenimenti biblici, tra cui il diluvio universale che rigenerò l'umanità corrotta, le tappe fondamentali della storia dell'uomo. Secondo la cronologia biblica, che non ha alcun fondamento scientifico, il diluvio avvenne 1.657 anni dopo la creazione di Adamo (vedi Genesi, capitoli 5, 6, 7 e 8) e la nascita di Cristo dopo 3.950 dalla stessa creazione. Per cui si ottiene: 3.950 - 1.657 = 2.293 anni avanti Cristo, che sommati ai 1.617 dopo Cristo corrispondono ai 3.910 anni dell'epigrafe.
7. Antonio Guerrini, Op. Cit., pagg. 221 e segg. / Umberto Pesci, Op. Cit., pagg. 115 e segg.
8. Francesco Mavarelli, “Notizie storiche e Laudi della Compagnia dei Disciplinati di Santa Maria Nuova e Santa Croce nella Terra di Fratta”. Si trova in “Umbertide, l'opera di Francesco Mavarelli”, a cura di Bruno Porrozzi, Tibergraph, Città di Castello, 1998.
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Fonti:
“Umbertide nel secolo XVII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2004
La ceramica della famiglia Martinelli – l’agricoltura,
i vocaboli e gli animali del podere
La ceramica dei Martinelli
La famiglia Martinelli, con quella dei Burelli, è una delle più antiche della Fratta ed abbiamo notizie certe che essa esercitasse l'arte figulina fin dagli inizi del secolo XVI. Continuò l'attività fino al 1940, quando cedette ad altri la fabbrica che cessò la lavorazione nel 1967. In questo secolo lavorava a graffio su ingabbiatura, con una buona tecnica di realizzazione, e non è da escludere che alcuni pezzi che si conservano nei musei di Londra e di Parigi e in alcune collezioni private provengano dal loro laboratorio. D'altra parte ancora non usava imprimere il marchio sugli articoli prodotti e ciò rende più difficile l'opera di attribuzione dei lavori. Filippo Natali, che si è occupato del problema con la competenza dell'esperto, osserva:
“... e non erro dicendo che i lavori a graffio che si vedono in alcune collezioni, dei secoli XVII e XVIII sieno usciti dalla fabbrica del Martinelli, giacché anche oggi si confezionano oggetti che hanno una impronta arcaica, e se non s'incide più, si usa la ingobbiatura, come facevano gli antichi, la quale invece di essere manipolata con terra di Vicenza ora si fa con una terra che proviene da Trequanda in provincia di Siena, la quale per la sua qualità eminentemente plastica si adopera anche per eseguire veggii(1) ed altri lavori che debbono resistere all'azione del fuoco, avendo anche il carattere di terra refrattaria. La tinta di questa terra è paglierina, ed io opino che questa ingobbiatura possa essere adoperata nei prodotti delle fabbriche del cinquecento e del seicento giacché molti dei lavori alla castellana, con qual nome si distinguono i lavori di Fratta, che si vedono nelle collezioni, compresi i piatti ritenuti di Palaia, e quelli di Padova, tendono al gialliccio”.
La fabbrica dei Martinelli fu la più fedele nell'uso della tecnica del graffio e della ingobbiatura che dava al prodotto un'impronta arcaica sia nelle forme che nelle figure, anche quando nelle zone circostanti (Deruta, Gubbio, Gualdo Tadino), essa era stata superata e si usava la vernice di maiolica o stannifera, diventata ormai di uso comune. L’unico elemento di rilievo è dato dal fatto che per eseguire 1'ingobbiatura, alla terra bianca del vicentino si sostituì quella color paglierino del senese che, provenendo da Trequanda, aveva un costo di trasporto inferiore.
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I Martinelli avevano la casa e la bottega, dove vendevano i pezzi di loro produzione, lungo la strada montonese, di fronte al molino, non lontano dalla loro fabbrica di ceramica. Sulla facciata c'era lo stemma di famiglia scolpito a rilievo su un blocco di pietra serena: un vaso tra due rami frondosi. Sebbene corroso dal tempo, il rilievo è ancora visibile, mentre l'iscrizione sottostante è illeggibile.
Un certo Antonio, discendente da un ramo dei Martinelli, nel secolo XVIII lasciò la Fratta per andare a lavorare a Milano, nel laboratorio di maioliche di Felice Clerici, con la qualifica di “pittore di ceramiche”. Le tecniche di colorazione locale, spesso segrete, si fusero così con quelle milanesi e fecero la fortuna di Antonio. Le prospettive economiche offerte, infatti, dovevano essere molto allettanti per invogliarlo a lasciare il paese natale, disponendo di una competenza professionale ricercata e ben remunerata in una regione in cui l'arte della maiolica andava per la maggiore.
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L’agricoltura
Le risorse più significative dell'economia del secolo provenivano da un'agricoltura povera di mezzi e di idee. La rendita di terreni, anche di quelli migliori, era minima a causa delle tecniche di lavorazione e di concimazione del suolo. L’aratura dei campi avveniva con rudimentali arnesi trainati dai buoi aratori e il fertilizzante usato consisteva esclusivamente nello stabbio animale. All'indigenza di espedienti tecnici più sofisticati si univa la miopia di molti proprietari che, per ottenere guadagni maggiori e sicuri, erano soliti smembrare l'unità poderale in piccole parti di non più di tre mine ciascuna e affittavano i lotti così ottenuti a diversi soggetti(2). Contratti di questo tipo sono molto frequenti in quel tempo e l'ottica ristretta di un'economia familiare fine a se stessa andava a scapito di un progetto aziendale agrario a più lunga scadenza. Gli unici che oltre alla terra possedevano idee valide e innovative sulla gestione del podere, erano i Frati Camaldolesi di Monte Corona che fin da allora praticavano la rotazione della semina dei prodotti agricoli, piantavano vigne e pergolati, miglioravano la proprietà con la posa di alberi adatti alla natura del suolo.
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I terreni erano indicati sulla base delle loro caratteristiche morfologiche, degli alberi che vi crescevano sopra, o delle coltivazioni a cui si prestavano maggiormente. Venivano perciò classificati in arativi, arborati, buscati, canapinati, casteneati. cannetati, cerquati, laborati, olivati, pergolati, vineati, sodati, silvati, e così via.
Il mondo dei campi era nelle mani di pochi proprietari, conti o marchesi, che disponevano di grandi tenute. Seguivano le comunità religiose, le Confraternite, i nobili locali non blasonati, e le parrocchie.
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Lasciando da parte il sistema dell'affittanza che, sebbene diffuso, rappresentava pur sempre un'eccezione, la regola rimaneva quella della mezzadria, con il podere condotto dal contadino (lavoratore) che divideva a metà (medietate) con il padrone i prodotti del suolo. Gli usi atavici e le clausole dei vari contratti prevedevano deroghe consistenti alla medietate, come avveniva per l'uva e per le olive che erano sottoposte alla regola del “tre alle due”, ossia i 3/5 del prodotto al padrone (60%) e 12/5 al contadino (40%).
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La casa colonica cominciò a manifestare quei segnali evolutivi che diventeranno la regola costruttiva del secolo successivo. Ancora era in auge la casa-torre e questa struttura resisterà a lungo per motivi di sicurezza. Ma fecero le prime apparizioni, soprattutto nelle zone in cui i pericoli di aggressione da parte delle bande di malviventi erano minori, le prime tipologie di case coloniche moderne, sul tipo di quelle che ebbero larga diffusione in seguito. Intanto si affermò l'annesso della capanna per il rimessaggio degli attrezzi agricoli, appoggiata ad un lato della casa, e perciò detta “poggiata”.
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Alcune case coloniche, site in prossimità di fiumi o di ruscelli, disponevano della “pescaia”, detta anche “peschiera”, molto diffusa nelle campagne perugine. La sua funzione era quella di consentire la cattura del pesce con poca perdita di tempo, in una società contadina che non ne aveva molto a disposizione. Su questo argomento non disponiamo di documenti certi, ma più di un podere, prossimo al corso del fiume, era indicato con questo vocabolo e ciò legittima un'ipotesi del genere. L’impianto riproduceva in miniatura la “pescaia” della Fratta a nord del ponte sul Tevere, che aveva anche riconoscimento e protezione negli Statuti del 1521.
Il costo del terreno variava moltissimo in relazione alla sua natura e alla posizione. Se poi ad essere oggetto di vendita era un intero podere, sul prezzo incidevano non poco lo stato e le caratteristiche degli immobili che vi si trovavano sopra (casa colonica e annessi agricoli). Agli inizi del secolo, tanto per avere un'idea sull'andamento del mercato, una mina di terra (arativo, arborato, pergolato, olivato) nel vocabolo “Caldese” di Romeggio valeva 32 scudi; la stessa quantità e qualità a San Giuliano delle Pignatte, 33 scudi; a “Seripole”, a circa un chilometro a nord della Fratta, 32 scudi. A San Paterniano (Pierantonio), nel vocabolo “Campo Longo”, una mina di terreno costava 43 scudi e alle Petrelle 88. I prezzi rimarranno costanti per tutto il secolo e dalle poche indicazioni riportate si evince che i terreni della Petrella, come quelli della zona del Faldo, della Caminella e del vocabolo Buoteni, a sud della Caminella, avevano un valore quasi triplo rispetto a quelli collinari.
I vocaboli dei poderi
La vasta campagna intorno al castello della Fratta era suddivisa in molte località, ciascuna con un toponimo specifico, e al suo interno i singoli poderi venivano indicati con un proprio vocabolo. Località, ville e vocaboli erano importanti non solo come riferimenti geografici per la gente del posto, ma avevano assunto anche una vera e propria valenza giuridica, tanto da essere le uniche indicazioni ricorrenti e certe nei contratti di compravendita dei terreni. D'altra parte, in assenza di un catasto basato su dati di maggior precisione, la descrizione fisica dell'estensione poderale era l'unico sistema per indicarne l'identità e i limiti.
Lasciando da parte i toponimi delle località, molti dei quali sono in uso anche a giorni nostri, ci soffermeremo sui vocaboli dei poderi, che sono scomparsi dall'uso corrente da un pezzo. Alcuni di essi avevano radici lontane e risalivano addirittura all'epoca longobarda; altri erano più recenti e traevano origine dalla natura o dalla posizione del terreno (le Lame, le Lamette, il Piano, il Colle); dalla presenza di falde acquifere o di sorgenti (il Pozzo) o di impianti di pesca (la Pescaia); da un dissodamento recente del suolo (il Ranco, le Roncole); dalle destinazioni agricole dei campi (la Stoppiaccia); dal nome di santi, di personaggi celebri e di persone comuni ( Sant'Isidoro, Fortebraccio, Osteria di Piero Antonio).
Data l'origine dei vocaboli dei poderi, non dobbiamo stupirci se alcuni di essi si ripetono anche in più di una località. Calavanne, ad esempio, lo troviamo sia nella Villa di Sportacciano che in quella di San Savino; Buzzacchero è presente sia a San Giuliano delle Pignette che a Colle San Savino; la Casella, sia a Pieve di Cicaleto che a Monte Acuto; le Vaglie sia a Monte Acuto che a Polgeto; Campo del Pozzo sia a Migianella che a Polgeto; Chiusa del Molino sia a San Giuliano delle Pignatte che a Romeggio.
E l'elenco potrebbe continuare, ma preferiamo fermarci per non annoiare il lettore. Per gli appassionati di questo argomento, in allegato riportiamo tutti i vocaboli poderali che è stato possibile reperire nei vari atti notarili stipulati nel secolo.
Gli animali del podere
I prodotti del suolo erano sottoposti alla regola fissa della medietate che caratterizzava la conduzione mezzadrile, salvo rare eccezioni come l'uva e le olive in cui vigeva un criterio di ripartizione più svantaggioso per il contadino, come abbiamo visto poco sopra. Altre deroghe alla divisione dei prodotti non c'erano, a meno che, per motivi molto particolari e contingenti, il contratto ne prevedesse qualcuna.
I rapporti erano più complessi, invece, per la divisione degli utili e delle perdite derivanti dalla commercializzazione degli animali del podere. Mancano, ad esempio, notizie precise sul regime cui erano sottoposti gli animali da cortile (polli, piccioni e oche; sembrerà strano, ma non si parla mai di anatre e conigli). Erano di proprietà comune, oppure appartenevano per intero al contadino che li governava con mangime proprio, salvo qualche regalia spontanea o imposta al padrone nelle ricorrenze più solenni? È difficile dare una risposta in mancanza di fonti sicure. Gli unici elementi certi sono riposti nelle annotazioni delle Confraternite che, pur disponendo di numerosi poderi, registrano spesso in uscita somme di denaro per l'acquisto al mercato di simili animali, mentre non risultano addebiti al contadino allo stesso titolo. Il che farebbe supporre che gli animali minuti appartenessero al contadino che li vendeva al mercato dopo aver trattenuto quelli destinati a finire nel suo povero desco.
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Il bestiame medio (suini e ovini), nato nella stalla, seguiva la regola della mezzadria. Ma in fatto di bestiame, dal medio al grosso, le cose potevano essere più complesse in relazione alle quote di proprietà possedute. Poteva capitare, infatti, che esso fosse acquistato interamente, o per una quota maggioritaria, dal padrone. In tal caso dalla vendita veniva defalcato il prezzo d'acquisto che andava per intero al padrone, o diviso secondo le quote spettanti, ed il restante ricavo (o la perdita) veniva diviso a metà.
Il più delle volte, però, l'acquisto del bestiame avveniva in parti uguali ed allora non si ponevano problemi sulla ripartizione degli utili o delle perdite.
Per quanto riguarda il bestiame grosso, che rappresentava il vero capitale del podere, questo secolo non offre varianti alla prassi seguita nel secolo successivo per cui rimandiamo il lettore a questo capitolo trattato nel volume relativo al 1700.
Note:
1. Scaldini di terracotta
2. L’estensione dei terreni si indicava con le misure di capacità per aridi: rubbio (4 mine), mina (2 stara), staro (8 coppe), coppa (4 scodelle). Negli atti notarili del tempo, le unità più usate sono la mina e la tavola, un sottomultiplo che equivaleva a 1/150 di mina. La mina era pari a 160 libbre romane, (libbra = 333 grammi; per cui il terreno di 1 mina, indicava un'estensione in cui era possibile seminare Kg. 53,280 di grano.
Fonti:
“Umbertide nel secolo XVII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2004