storia e memoria
LA FRATTA DEL SETTECENTO
a cura di Fabio Mariotti
IL CASTELLO DI FRATTA
Il castello entro le mura era diviso in tre zone: il Terziere Inferiore, il Terziere di Mezzo, il Terziere Superiore che comprendeva la parte nord del castello (Rocca, baluardo di nord-ovest e si chiamava anche Terziere della Campana).
Il Terziere di Mezzo comprendeva la parte verso il Tevere, le case davanti alla chiesa di San Giovanni, la piazzetta centrale (piazza del marchese di Sorbello), la parte nord del vicolo delle Petresche con il retrostante ospizio dei Padri Cappuccini di Montone, la parte nord della strada di mezzo vicino alla piazzetta centrale. Era noto anche come Terziere della Greppa.
Il Terziere inferiore (o Terziere della porta di sotto, detta anche porta del macello) comprendeva la zona intorno al baluardo sud ovest, la parte sud della via delle Petresche (via Spunta attuale), della via regale (o diritta, via Cibo), della via di mezzo e della strada di San Giovanni che portava alla chiesa omonima.
Le mura castellane
Nel 1736 il Tevere, con le sue piene, rovinò la parte centrale della cortina ovest e distrusse quattro case costruite su quel punto delle mura. Il preventivo dei difensori di Fratta ammontava a 1.032 scudi. Volendo affrettare la ricostruzione, fecero richiesta a Clemente XII per avere un sussidio e il papa rispose che avrebbe dato cinquecento scudi quando però Fratta dimostrasse di aver trovato i rimanenti.
I difensori riuscirono in poco tempo a reperire la loro parte ma, vedendo che quella promessa dal papa non arrivava, cominciarono ad acquistare il legname per l'armatura, i mattoni e la calce ed affidarono i lavori al capomastro Bartolomeo Ferranti di Roma. Posero mano il 15 settembre 1739, ma il papa alla fine dell'anno non aveva ancora versato il sussidio promesso. I difensori diedero l'incarico a un Mariotti, frattegiano residente a Roma, e questi rispose che Clemente XII stava molto male e che i difensori di Fratta dovevano darsi da fare per avere i cinquecento scudi.
Aggiunge che se il papa fosse morto, sarebbe stato molto più difficile ottenerli. Non si sa quando il lavoro terminò, ma certamente fu fatto molto alla svelta visto che si avvicinava l'inverno. Sulla muraglia fu apposta una lapide con la scritta "Clem XII Pont Max MDCCXXIYIX.", che tuttora si può vedere a una cinquantina di metri prima del ponte.
Il Tevere
Aveva un andamento diverso da quello attuale ed era pericoloso per due motivi:
- la corrente era perpendicolare alla strada che si dirigeva alla valle del Niccone e a Città di Castello, anche allora di grande comunicazione, quindi avrebbe potuto tagliarla. Nel 1758 era arrivato a quindici metri dalla strada e minacciava d'interromperla.
- qualora ciò si fosse avverato, il ponte sarebbe rimasto in secca, con evidente danno per il paese e con grave compromissione di attività quali difesa militare, pescaia, mulini, orti, lavatoio pubblico, smaltimento fognario.
Si fecero dei lavori, usando molti grossi pali.
Nel 1726 si consolidò il ponte della Reggia, su cui passava tutto il traffico, anche pesante, che da Santa Maria si dirigeva alla chiesa della Madonna della Reggia e a San Francesco e per Montone. Il ponte era di legno, salvo le due testate di mattoni e nel 1770 la magistratura di Fratta deciderà di ingrandirlo.
Nel 1787 il comune sostiene una spesa per coprire il cimale della Rocca. Viene rifatto il tetto daccapo alla torre.
I borghi adiacenti il Castello
Il Borgo Superiore
Si trova a nord del castello dentro le mura e comprende il Castel Nuovo (formato dalle due vie del Boccaiolo e quella che dalla Piaggiola conduce alla porta del mercato), il "Mercatale di Sant'Erasmo" (odierna piazza Marconi), la zona delle fornaci e la chiesa di Santa Maria della Pietà.
Palazzo Ranieri
Di proprietà del conte Curtio Ranieri, figlio di Costantino, era nella strada della Piaggiola. Nel 1756 il conte lo ampliò. Davanti c'era un pozzo pubblico (lo slargo che si forma tra la fine della Piaggiola e la strada del Boccaiolo) chiamato il pozzo di Sant'Agostino, vicino all'omonima chiesa.
Molino dei Padri di San Bernardo
(Castel Nuovo)
E' situato lungo la stradetta (ora detta del Molinaccio) che dalla fine della Piaggiola conduce al Tevere. Era vicino alle mura castellane ed apparteneva ai Padri di San Bernardo o Barnabiti. Questi avevano due piccoli conventi, uno in Fratta e uno a Migianella.
Nel Borgo Superiore ci sono ancora due case-torri, una nella zona del Mercatale e un'altra alla porta del Boccaiolo. Sono formate da un fondo sotto e da una stanza sopra. Sono state costruite ad uso contadino.
Il Borgo Inferiore
E' detto anche "le Fabbrecce" perché ci sono le botteghe dei fabbri e nel mulino fuori del Borgo si eseguiva l'arrotatura delle falci (come nel Trecento! Non era cambiato niente). Comprendeva la zona della via che dal ponte della Reggia conduceva a piazza San Francesco, la via di Santa Croce (odierna via Soli) e la zona fuori della porta del Borgo.
La strada che iniziava fuori della porta di San Francesco e conduceva verso la Madonna del Moro si chiamava, agli inizi del secolo, strada della Caminella; poi strada del Piano (durante l'occupazione francese di fine secolo strada Consolare del Piano); agli inizi del Novecento via Secoli.
Lungo Santa Croce c'era l'osteria della Corona, di proprietà del Conte Ranieri. La piazza già si chiamava Piazza San Francesco. Cambiò nome più tardi per tornare poi a chiamarsi così.
Le strade
Nel 1790 vennero fatti dei lavori sulla strada per Montone, nel tratto sotto il convento dei Frati Osservanti di Santa Maria. La larghezza è di otto piedi, come tutte le altre strade che portano a Fratta, la cui imbrecciatura è rifatta ogni anno.
Le porte
Nel 1788 fu messo un braccio di ferro alla porta della Saracina (c'era ancora questa poderosa torre all'inizio del ponte). Altri lavori vennero fatti alla porta del mercato e a quella delle monache. Nel 1790 si accomoda la porta della Saracina. Nel 1792 tocca a quella del Ponte e si lavora per abbassare la porta del mercato.
Fonti:
- Renato Codovini - “Storia di Umbertide – Volume VI – Sec. XVIII” - Dattiloscritto inedito.
- Calendario di Umbertide 2001 – Ed. Comune di Umbertide – 2001 (Testi a cura di Adriano Bottaccioli - Walter Rondoni – Amedeo Massetti – Fabio Mariotti).

Baluardo sud-ovest di difesa


La lapide sulle mura dedicata al Papa Clemente XII
Le antiche case sul Tevere. Nel cerchietto rosso la lapide


- A sinistra, piantina catastale di Fratta della metà del '700
- Sopra, mappa della Fratta medioevale con le porte del Castello


La copertina del Calendario di Umbertide 2001
Lo storico Renato Codovini
L’AMMINISTRAZIONE E LA PUBBLICA SICUREZZA
L'Amministrazione comunale
Nel XVIII secolo la pubblica amministrazione di Fratta ha due sedi diverse. Dal 1700 al 1787 il palazzo situato nell'odierna piazza Fortebracci, già sede del convento femminile di Santa Maria di Castelvecchio (attuale sede del teatro dei Riuniti). Dal 1787 al 1799 nel palazzo di Castel Nuovo, già sede del convento femminile di Santa Maria Nuova , soppresso nel 1787. Gli organi amministrativi sono tre: la magistratura, il consiglio dei dodici ed il consiglio generale (o dei 42).
La magistratura è costituita dai quattro difensori, detti anche "priori" o semplicemente "i magistrati". Una volta eletti, si riunivano e nominavano il "capo di magistrato" o anche "primo priore". Persona di grande rilievo nella vita sociale, veniva dal "primo ceto". L'elezione del consiglio era fatta tra due soli ceti, le persone primarie del luogo, civili e possidenti e gli artisti (artigiani). Le prime sono destinate ad ottenere il grado di capo di magistrato, la carica di pubblico camerlengo e gli arringatori del consiglio. I secondi le altre tre parti della magistratura: il secondo, terzo e quarto priore che vengono distribuiti per anzianità.
Il consiglio dei dodici si adunava per le decisioni di maggiore importanza, quando si voleva essere sicuri che non ci sarebbero state opposizioni a ciò che si doveva stabilire. Era formato dai quattro difensori, i quattro consiglieri dei difensori, i tre conservatori della sanità e dal camerlengo. Non poteva imporre nuove tasse, variare i prezzi dell'abbondanza, discutere su litigi fra cittadini e l'amministrazione pubblica, prendere decisioni su guerre, invasioni, terremoti, pestilenze. Veniva convocato suonando la campana grossa con dodici tocchi.
Il consiglio dei 42 era il consiglio generale, cioè il consiglio dei dodici, aumentato dai rappresentanti dei ceti che avevano il diritto di farne parte e dagli esponenti delle maggiori ville (frazioni).
Organi:
- Consiglieri (comunali). Persone che componevano i due consigli comunali (dei 12 e dei 42). Erano rinnovabili parzialmente, un terzo alla volta, togliendo sempre quelli di più vecchia elezione. Appartenevano al primo e secondo ceto. Nel 1798, a seguito dell'occupazione francese, per 1a prima volta le donne vengono nominate consiglieri comunali. Tre in Fratta e una a Preggio.
- Difensori. Erano quattro e restavano in carica per quattro mesi. Venivano eletti a mezzo di votazione con "bussolo", ma non ricevevano alcuno stipendio essendo la loro una carica onorifica. Solo a fine mandato erano compensati con una piccola somma in regalo, non superiore a uno scudo e mezzo.
- Consiglieri dei difensori. Erano quattro e ognuno "a latere" di un difensore (o priore), cui dava consigli. quasi come un odierno segretario personale. Venivano scelti fra chi nel quadrimestre precedente era stato difensore, presumendosi che avesse acquisito una certa esperienza negli affari del governo comitativo.
- Gonfaloniere. Primo priore e capo della magistratura, si chiamò così solo al principio della restaurazione, dopo la fine della repubblica romana. nell'agosto 1799.
- Prefetto consolare di Fratta. Carica dell'amministrazione francese, alle dirette dipendenze del prefetto del cantone di Fratta. Era il capo della comune di Fratta ed anche "presidente della comune".
- Prefetto del cantone. Figura istituita nell'ultimo decennio del secolo, quando ci fu l'invasione francese. Il prefetto era responsabile di tutto ciò che avveniva nel nostro cantone comprendente oltre Fratta anche la comune di Preggio e Poggio Manente (San Paterniano).
Impiegati e funzionari:
- Archivista. Di solito un notaio. Redigeva atti per il comune ma anche per i cittadini.
- Balio. Era addetto al collegamento fra la magistratura e gli altri organi della comunità ed i privati cittadini. Prendeva quattro scudi a quadrimestre.
- Camerlengo. Addetto alla riscossione ed ai pagamenti. Non prendeva alcun aggio sul riscosso in quanto percepiva un normale salario.
- Cancelliere. Aveva pressappoco le funzioni dell'odierno segretario comunale. Il suo ufficio si chiamava "cancelleria" o "segreteria priorale".
- Commissario e giudice. Pubblico ufficiale nominato da Perugia. Il suo compito principale era di far osservare la legge e punire i colpevoli, però nei casi più difficili, delicati e controversi aveva l'ordine di inviare i colpevoli a Perugia sottoponendoli all'esame del tribunale superiore.
- Conservatori della sanità. Tre persone che restavano in carica per due anni e dovevano appartenere alla prima sfera, cioè al primo ceto. Intervenivano al consiglio comunale quando erano chiamati ed il loro compito era di dare un parere su ciò che si stava trattando nella riunione.
- Donzello. Addetto a tutti gli incarichi di minore importanza, aveva il salario più basso pagato dall'amministrazione a un dipendente.
- Maestro di scuola. Il suo stipendio era pagato una parte dall'amministrazione comunale, una parte dai genitori dei ragazzi e un'altra parte dalla confraternita di Santa Croce.
- Medico condotto. Era anch'esso stipendiato dal comune.
- Moderatore del pubblico orologio. Addetto alla sorveglianza, manutenzione, caricamento e controlli vari dell'orologio pubblico.
- Portinari. Addetti alla sorveglianza delle porte del paese che aprivano ogni mattina e chiudevano la sera circa a "due ore di notte".
- Predicatore. Ecclesiastico, prete o frate, circa tre volte l'anno predicava nelle chiese del paese. Restava in Fratta qualche giorno, alloggiato in un convento.
- Pretore. Carica nata al tempo dell'invasione francese.
- Questore. Carica sorta al tempo dell'invasione francese. Teneva i libri dell'amministrazione del cantone.
- Scriba. Addetto alla copiatura di documenti, lettere, relazioni delle riunioni consiliari, ecc.
- Sindicatori. Troviamo questo impiego nella prima metà del secolo. I sindicatori controllavano la contabilità della comunità e restavano in carica un anno.
- Spacciatore delle lettere. Era il mastro di posta, anch'esso salariato dal comune.
- Stimatori pubblici. Li troviamo nella prima metà del secolo. Erano persone addette a stimare gli immobili o attività varie sia per interesse del comune sia per i privati cittadini. Restavano in carica un anno.
- Rappresentanti della comunità in Perugia e in Roma. Persone addette a sbrogliare gli affari della comunità in queste città. Essendo ben introdotti negli uffici statali, avevano pratica di amministrazione pubblica ed erano conosciuti dai vari impiegati.
Gestione del Comune
Entrate per tasse
C'erano la tassa camerale, la tassa comunale, la tassa privilegiata e delle fiere, il riparto del macinato. La comunità di Fratta le imponeva alla popolazione e sulla somma calcolava poi la sua percentuale; il rimanente lo inviava a Perugia. La tassa camerale era richiesta dalla reverenda Camera Apostolica di Perugia, che tratteneva una piccola somma e il resto lo mandava al governo centrale di Roma. La tassa privilegiata e delle fiere era relativa ai vari privilegi che la città di Perugia concedeva alle comunità sue dipendenti. La tassa sul macinato riguardava tutto ciò che si portava al mulino ed era la più detestata dai contadini. C'era poi la tassa sul focatico. Colpiva tutti i "fuochi", cioè i focolari, le famiglie. E' rimasta fino agli Anni Sessanta del Novecento, sotto il nome di "tassa famiglia". Nel 1706 la pagavano solo in undici famiglie; nel 1728, cinquantasette. La "tassa sugli immobili" colpiva i proprietari di case e terreni. Inoltre c'era la "tassa spogli e galere". Per "spogli" si intendeva il vestiario superfluo e per "galere" una tassa voluta per potenziare la marina dello stato. C'erano infine altre tasse occasionali, come la "tassa sul milione", introdotta nel 1713 dal governo pontificio che aveva bisogno di altrettanti scudi.
Entrate per appalti
Le preferite dai comuni in quanto, di semplice gestione, permettevano di incassare il massimo a date stabilite. Gli appalti erano resi noti mediante l'affissione di un bando fuori della porta del palazzo comunale: il giorno stabilito, il "tubatore" si appostava in determinati punti del paese, suonava la tromba e faceva sapere l'ora e il luogo della gara. Che si svolgeva col metodo della "candela vergine" ogni tre anni.
Appalto del forno. Concesso nel 1710 ad Ercolano Fanfani. Assicurava la produzione del pane per tutto il paese.
Appalto della salara. La prerogativa di distribuire il sale apparteneva a Perugia, la quale la dava in appalto alle varie comunità. Fratta, per procurarsi il necessario, doveva andarlo a prendere a Perugia oppure, quando in magazzino non ce n'era, in qualche città sulla via del mare: Fossombrone, Fabriano, Jesi, Ancona.
Appalto della olieria e pizzicheria. Consisteva nel concedere ad un appaltatore il sevizio di vendere olio commestibile e generi di pizzicheria nella bottega comunale, ai prezzi stabiliti dal comune e scritti bene in vista su un cartello.
Appalto del bollo del suolo. Coloro che volevano occupare una parte del suolo pubblico (ad esempio gli ambulanti) dovevano pagare un certo diritto.
Appalto del bollo della carne. I "macellari" di Fratta dovevano "scorticare" le bestie nel macello pubblico. Dopo aver tolto la pelle (che veniva usata per la suola delle scarpe) tagliavano l’animale ed i pezzi erano bollati dal "bollatore delle carni". L'operazione serviva a far capire a chi acquistava quale fosse bue e vacca, vitello, pecora o castrato. Il "bollatore delle carni" faceva pagare la bollatura ai macellai, quindi versava al comune, in due o tre rate, quanto stabilito.
Appalto del pubblico macello. Chi vinceva la gara vendeva la carne in questa bottega per due o tre anni pagando la somma pattuita, a rate semestrali al comune che otteneva lo scopo di tenere calmierati i prezzi per favorire la popolazione più povera. Appalto del danno dato e depositeria pegni. II depositario del "danno dato" era addetto alla sorveglianza dei beni pubblici, mobili o immobili, rilevava, nel suo interesse, i danni causati dai cittadini ai beni pubblici, portava tali fatti davanti al giudice e commissario. A questo era unito anche l'appalto della "depositeria dei pegni", cioè l'ufficio che anticipava denaro a chi depositasse un pegno. Appalto delle misure. La possibilità di far pesare grandi quantità di merci era prerogativa del Nobile collegio del cambio di Perugia. L'operazione avveniva con una grossa bilancia, di proprietà pubblica, detta "la stadera grossa".
Appalto della legna. Coloro che intendevano far entrare legna da ardere in paese dovevano pagare un diritto in denaro al comune. Il quale ne appaltava la riscossione ad un privato cittadino.
Appalto della foietta. Il diritto di tassare la vendita del vino "al menuto", cioè venduto a bicchieri o a foiette, era anch'esso appaltato dal comune a terzi.
Appalto della cenciarìa. Tassava la raccolta degli stracci. L'appaltatore riscuoteva un diritto da coloro che raccoglievano gli stracci ed era anche lui un raccoglitore.
Appalto dello stabbio. Raccolta degli escrementi delle bestie che transitavano per il paese, assegnata a mezzo di appalto a colui che offriva il prezzo più alto.
Appalto della legna del Tevere. Sfruttava tronchi e rami che si depositavano sotto il ponte dopo le piene.
Appalto della pesca sul Tevere. Colpiva chi voleva pescare nel tratto di fiume di giurisdizione del comune, cioè a monte del ponte.
Spese
L'amministrazione comunale di Fratta divideva le spese in "uscite ricorrenti",
“uscite e spese occasionali”, "gratificazioni varie". Le “uscite ricorrenti” si
distinguevano in uscite per il raggiungimento dei fini dell'ente e per elemosine.
Tra le prime la voce principale è il pagamento dei salariati e degli impiegati di
ogni grado. Uscita ricorrente era la sistemazione stagionale delle strade che,
sia del paese sia fuori, dovevano essere imbrecciate ogni novembre.
Altra spesa era la ripulitura annuale di chiaviche, pozzi e fontane.
Non sembri strano considerare tra le spese ricorrenti anche quelle "per elemosine",
perché al tempo il comune era solito dare denaro ad alcune confraternite per
le feste patronali di Sant'Erasmo, San Bernardino e S.S.ma Annunziata.
Inoltre comperava cera (candele), "polvere" (per i botti), olio per l'illuminazione
e altre cose utili nelle processioni.
A Natale e a Pasqua il comune era anche solito fare dei regali: ai rappresentanti della
comunità a Roma regalava due capponi; ai quattro difensori, alla fine del mandato
quadrimestrale, due scudi. Le "spese occasionali" servivano ad esempio per riparare
case e poderi di proprietà comunale, strade, ponti, porte del paese, per pagare interessi
passivi su debiti, spese di soggiorno degli sbirri. Tutte quelle gratificazioni, infine, che il
comune soleva fare sotto forma di regali e mance a visitatori di riguardo, i rinfreschi offerti
agli ospiti (ad esempio per l’arrivo del vescovo), regali ai comandanti delle truppe estere di
passaggio affinché non facessero troppi danni, elargizioni ai conventi.
La pubblica sicurezza
Mentre la pubblica amministrazione era demandata, in Fratta, alla magistratura ed ai consigli comunali, la pubblica sicurezza era, nel XVIII secolo, di stretta pertinenza del commissario, di nomina decenvirale (cioè della magistratura perugina). Il commissario e giudice ordinario, in' questa duplice veste, aveva nel suo primo ruolo la competenza sulla pubblica sicurezza di tutto il territorio ed il potere inquirente datogli dall'esecutivo perugino. In base a tale potere dirimeva tutte le questioni inerenti l'ordine pubblico che sorgevano in un territorio di circa cinque o seimila abitanti (Fratta e frazioni), fino ad arrivare all'arresto dei responsabili. Per certi reati inviava i colpevoli a Perugia, al suo superiore organo giudiziario o ufficio criminale, come si diceva allora. In caso di controversie di lieve importanza (quelle che oggi ad esempio sono di pertinenza del giudice di pace) invitava le parti a recarsi da un notaio e in sua presenza formulare tra di loro un "atto di pace". In caso di reati di maggiore gravità (di solito atti di brigantaggio), dove i poteri e le possibilità del commissario si dimostravano impotenti, richiedeva a Perugia l'invio di una o più squadre di sbirri. Costoro, con la forza delle armi, riuscivano a mettere fine a quelle situazioni di emergenza e a ristabilire la normalità di vita, portando a Perugia i rei. In paese il comportamento degli sbirri era alquanto pesante e selvaggio e ne faceva le spese la popolazione, ma ciò era ben tollerato dal "buon governo" per il quale era evidentemente comodo il timore che costoro sapevano incutere alla gente, in quanto ne facilitava il modo di agire.
Gli sbirri venivano anche in tempi di malattie epidemiche e se c'era da combattere le bande di briganti. In questi casi andavano a presidiare anche i luoghi di confine e sbarravano la strada con grossi cancelli di ferro per impedire il transito nei due sensi. Durante i loro passaggi alloggiavano all'osteria della Corona dove potevano restare anche parecchi giorni, ma erano sempre malvisti dalla popolazione in quanto commettevano soprusi d'ogni genere e molestavano pure gli osti e i loro familiari. Il conte di Civitella, che ne era proprietario, decide per questi motivi di chiudere al pubblico non solo questa osteria ma anche quella posta nella strada di San Giovanni. E' il primo caso di "serrata" di un esercizio. Il comune allora acquistò una casa da destinare all'alloggiamento degli sbirri quando venivano in Fratta. Fu comprata nel 1770, nella via di San Giovanni e se ne fece l'ufficio ed abitazione del commissario-giudice. In questo modo fu possibile liberare le due stanze del palazzo comunale già destinate a tale scopo da diversi anni.
Problemi di sicurezza si ebbero anche al tempo della dominazione francese, a causa delle vessazioni compiute da quelle truppe. II commissario-giudice non poteva in questi frangenti muoversi come voleva: l'occupazione militare aveva di fatto annullato molte sue possibilità. Nel maggio 1798, ad esempio, i soldati francesi del generale La Vallette, provenienti da Città di Castello, commisero vari soprusi, fra i quali la distruzione di mobili e libri del convento di San Francesco. Si deve a tali azioni vandaliche se niente è rimasto sulla vita del nostri conventi i cui frati erano venuti in Fratta nell'ultimo decennio del XIII secolo. Nel dicembre 1785 il governo centrale di Roma proibisce ogni gioco nelle osterie e bettole.
Nel 1788 vennero mandati in Fratta soldati per contrastare una banda di malviventi. Nel 1791 fu necessario armare altri soldati, a fronte di nuove scorrerie da parte di briganti fuggiti, a luglio, dal carcere di Macerata e considerati molto pericolosi dal governo che aveva messo a disposizione di chi li avesse catturati dei premi. Grossa piaga del tempo era quella dell'incetta delle granaglie, vendute poi fuori del regno. Per porre termine a questo commercio illecito il comune emette una notifica contro gli "incettatori di generi frumentari". Il 13 agosto 1795 un decreto tende a limitare la malavita della nostra provincia vietando di portare armi a chi va alla fiera di Monteluce. Nel 1788 si emette un'ordinanza contro "i feritori e quelli che insultano per le strade, con arme o senza".
Il 26 marzo 1797 passano per Fratta due compagnie del reggimento Colonna, la compagnia Vespiccini e la compagnia Colonnello. Il 26 giugno passano dei soldati corsi "fuggiti da Faenza per l'invasione dei francesi, che si raccomandano alla pietà di questo pubblico". Gli si dà da mangiare. Il 2 febbraio 1798 passano carriaggi di cisalpini.
Fonti:
- Renato Codovini - “Storia di Umbertide – Volume VI – Sec. XVIII” - Dattiloscritto inedito.
- Calendario di Umbertide 2001 – Ed. Comune di Umbertide – 2001 (Testi a cura di Adriano Bottaccioli - Walter Rondoni – Amedeo Massetti – Fabio Mariotti).

Oggi Teatro dei Riuniti, dal 1700 al 1787 sede del Comune di Umbertide

Il palazzo comunale ai primi del '900

Vecchia foto della chiesa di S. Bernardino

Antica immagine del Castello di Civitella di Civitella Ranieri
IL MODO DI VIVERE, DI MORIRE,
LA SOLIDARIETA’ E GLI SVAGHI
Il modo di vivere
Agli inizi del XVIII secolo gran parte della gente di Fratta si dibatteva nella miseria. I pochi proprietari (e questo in tutto lo Stato Pontificio) avevano buon gioco a tener bassi i salari, data la grande offerta di manodopera, alimentata da tantissimi poveri in cerca di lavoro. C'erano poi altri elementi ad appesantire questo quadro: le frequenti carestie, le tasse straordinarie per compensare le varie falle nell'amministrazione centrale, le svalutazioni della moneta per colmare gli improvvisi vuoti di cassa. Il popolo era totalmente soggetto alle imposizioni superiori. Non sentiva il bisogno di ribellarsi, ma di certo ne sentiva il peso.
Gli svaghi
Le possibilità di svago e distrazioni dei frattegiani non erano molte e tutte più o meno orchestrate dall'alto. Il teatro, in quanto la locale società degli accademici aveva una certa attività; le feste patronali e religiose in genere; la pubblica gioia nei casi dei matrimoni più sontuosi e nel passaggio per Fratta del cardinale protettore; le feste negli immediati dintorni del paese. Potevano rinchiudersi a giocare nell'osteria della Corona o in quella della Staffa ma, soprattutto, il maggiore insieme di distrazioni e divertimenti lo avevano nel periodo di carnevale. Aveva inizio nel giorno di Sant'Antonio e terminava nel "sabato grasso" con la cena di mezzanotte, detta "la sabatina", fatta a base di cibi grassi.
I matrimoni
Erano caratterizzati da tre momenti: la polizza privata, l'atto notarile, la cerimonia in chiesa. Con la polizza privata le famiglie stabilivano le condizioni economiche alle quali avrebbero permesso il matrimonio dei figli. Le parti andavano poi dal "notaro", insieme ai testimoni, per ratificare l'accordo. Seguiva infine la cerimonia, celebrata "secondo il rito di Santa Romana Chiesa", preceduta da pubblica "denunzia". Il matrimonio veniva registrato dal prete nell'apposito libro che, nel 1741, aveva il bollo da cinque baiocchi della reverenda Camera Apostolica.
Le processioni
Avevano tutte carattere religioso e non esistevano le processioni civili, i cortei.
Il loro svolgimento era legato alle molte feste del tempo; ce n'erano poi altre che trovavano origine da fatti contingenti (pioggia, terremoto, malattie, ecc.). Nel Seicento si chiamavano ancora con il vecchio nome medievale di "lumi", per cui andare in processione si diceva "andare al lume" (svolgendosi quasi sempre di sera, si faceva un grande sfoggio di luci, con candele, "fàcole" di pece, lumi ad olio). Erano programmate alcuni giorni prima da una certa confraternita la quale incaricava un gruppo di cinque o sei fratelli cui spettava l'onore dell'organizzazione. Questi erano detti "soprastanti" e avevano il compito di cercare il denaro occorrente nelle "questue" fatte in campagna o per le vie e le piazze del paese, specie nei giorni di mercato o di fiera. Elementi comuni a tutte le processioni erano la presenza delle compagnie (laiche) e delle congregazioni (religiose) con i relativi fratelli, chiusi nelle loro cappe di colore e foggia diversi. I rappresentanti della comunità per l'occasione indossavano l'abito da cerimonia (il rubbone paonazzo), mentre i soldati, spesso mercenari corsi, venivano appositamente da Perugia. Altro elemento era "la macchina", cioè la grande impalcatura di legno munita di due grosse e lunghe stanghe che serviva a sostenere la statua del santo per il quale si faceva la processione e che era portata a spalla. Infine i gonfaloni delle associazioni religiose e laiche fra i quali spuntavano bastoni di legno muniti di panno e frange, portati dai sagrestani delle chiese, in mezzo a una nube di fumo, odori e sfrigolìi di pece ardente sprigionatisi dalle tante "fàcole", candele, lumi ed uno scoppiar di botti che facevano da cornice a quell'insieme. Alla fine, a coloro che erano intervenuti indossando la “cappa”, venivano date cibarie consistenti in pane, torte, torcoli, vino, la cui distribuzione originava spesso "abusi e scostumatezze" e più volte i vescovi di Gubbio sospesero "il magnare dei fratelli che vanno in processione", e lo sostituirono con distribuzione di candele. Ma vista una certa rarefazione di popolo al seguito, tutto tornò come prima.
Le feste e i dolci
Nel XVIII secolo le feste erano una ventina l’anno ed avevano tutte la componente comune e principale della religiosità. Intervenivano i gonfaloni delle corporazioni d'arte, delle fraternite religiose (o compagnie), delle congregazioni (solo preti) unitamente a quello della comunità di Fratta. Queste associazioni, insieme al comune, pensavano agli addobbi, sia del paese che delle chiese. Erano fatti con grande sfarzo, del tipo a drappeggio (i "drapoloni"), di seta o damasco, come pure potevano consistere in leggere armature (strutture) di legno o di metallo leggero, di vario disegno, ricoperte di stoffe o di fiori (anche finti), nastri e trine a volontà. Si poteva arrivare poi, ma solo nelle maggiori occasioni, alla costruzione di veri archi trionfali per le vie e le porte del paese. Fra le feste caratteristiche c'era la "infiorata del maggio", promossa dalla compagnia di Sant'Antonio. In tali occasioni, nella chiesa organizzatrice, era sempre presente un "coro di musici" e cantanti. L'8 settembre 1795, per la festa, arrivò nella chiesa di San Francesco il famoso cantante frattegiano Domenico Bruni, di passaggio da una delle sue numerose tournées artistiche che cantò fra i dilettanti del paese, senza alcun compenso.
La sera, le case venivano illuminate con ceri alle finestre e tutti restavano in attesa del momento culminante dei "botti e raggi".
Il costume
Nel Settecento erano in vigore nel regno ecclesiastico romano le "leggi suntuarie" del Seicento sul modo di vestire, che vietavano ai cittadini (non ai ricchi) certi modi lussuosi, discriminando e allontanando ancor più i vari ceti sociali.
Nel 1703 papa Clemente XI emanò un editto con cui intimò alle donne di bassa condizione la rinunzia a qualsiasi ornamento, imponendo l'uso di stoffe ordinarie e di colori non violenti. Fu poi proibito a quelle del popolo e piccolo borghesi (editto di Clemente XII nel 1730) di mettere guarnizioni d'oro e d'argento sui copricapi, sui tessuti e sugli ornamenti.
Il modo di morire
Nei libri parrocchiali troviamo vari "sistemi" per passare a miglior vita. Nel 1715, con un tocco di romanticismo,- "... morto alle ore 22 sul far della luna...". Ci sono poi descrizioni di morti violente, come ad esempio "... assalito da due fratelli uno dei quali toltoli la pistola gle la sparò in petto e così ferito passò fuggendo il Tevere sopra la barca d'Ascagnano".
Nel 1740, per una donna che si getta nel Tevere ". . . altre volte aveva fatto altre scienaggine". Una donna muore "per una grave caduta fatta per le scale precipitose di casa sua". Un'altra, certa "Francesca di Brizio ritrovata in casa tutta brugiata ad eccezione della testa".
Ci sono poi registrazioni di morte e disposizioni testamentarie dalle quali risulta il sentimento religioso della gente. Sant'Antonio da Padova godeva di un certo culto nel nostro paese, tanto da avere un proprio altare nella chiesa della Compagnia del Soccorso, nel monastero di Santa Maria Nuova.
Nel 1722 una frattegiana dice al notaio "voglio essere sepolta all'altare di S. Antonio da Padova mio avvocato e protettore vestita con 1'abito di S. Antonio... ".
In un altro testamento del 1794 troviamo invece l'estrema volontà di un peccatore (o presunto tale). Spiega come deve svolgersi il suo funerale: "... dalla casa dove abito il mio corpo sia direttamente portato alla chiesa senza alcun giro di strade e ciò per non ricordare al pubblico li scandali dati in vita mia. Giunto in chiesa sia subito sepolto senza esporre alla vista del pubblico il cadavere di un peccatore sì grande, senza cera, né musica, né altre simili cose che la vanità ha saputo inventare".
Funerali e sepolture
La persona morta, dopo aver ricevuto, prima o dopo, la visita del proprio parroco per l'assoluzione e la registrazione del decesso nei libri parrocchiali, resta affidato ai parenti e viene denudato, lavato, quindi avvolto in un lenzuolo, pronto per il funerale (o fùnere, come si diceva allora). Che competeva al parroco della parrocchia di appartenenza del morto e, se questi era in una compagnia o in una congregazione, l'associazione inviava la propria rappresentanza di fratelli vestiti "di cappa". Il morto veniva messo sopra il cataletto, con lo strato sopra che lo ricopriva, quindi portato, a spalla, in chiesa. Spesso il testatore, fra le altre cose, indicava il luogo della sepoltura. Si usava infatti inumare i morti nella parte retrostante (cimitero) della chiesa, ma alcuni venivano messi nei tumuli esistenti sotto il pavimento. C'era una distinzione quindi tra fuori, ove si interravano i più poveri, e dentro, ove venivano messi i fratelli delle compagnie laicali e gli abbienti (sepolcri gentilizi), mentre i veri ricchi avevano la loro cappella. I sepolcri gentilizi, per i ricchi, si ricavavano davanti agli altari (anche il maggiore) o ai lati degli stessi. Nella tumulazione si procedeva al semplice interramento del cadavere avvolto in un lenzuolo.
La cassa era usata solo eccezionalmente, quando si trattava di una persona che aveva acquistato in vita un grande valore umano, oppure per i ricchi o per coloro che morivano fuori del paese ed il cui corpo doveva essere quindi ricondotto in Fratta, trasportato sul carro a cavalli.
La sepoltura in terra consacrata era condizionata alla circostanza che il moribondo si fosse prima confessato e comunicato, ad eccezione di coloro che erano morti all'improvviso.
In quest'ultimo caso era il sacerdote ad accertarsi se il defunto si fosse confessato qualche tempo prima e, comunque, fosse sempre vissuto da buon cristiano.
Il terreno non consacrato era vicino ai cimiteri delle chiese.
La solidarieta'
Monte frumentario
Fu voluto da don Giuliano Bovicelli di Fratta, sacerdote a Roma dove svolgeva l'incarico di segretario del cardinale Sacripante. Il Bovicelli, nell'anno 1715, donò la somma di cento scudi alla confraternita di San Bernardino, della quale era fratello, con cui "... voleva e bramava che si originasse un monte frumentano allo scopo di acquistare grano per la popolazione più povera". La confraternita comperò subito duecento "stare" di grano e dette inizio a questa istituzione. Il monte frumentario immagazzinava il grano al raccolto per poi darlo gratuitamente ai più poveri durante l'inverno e la primavera, quando era difficile trovarlo. Dopo la legale istituzione del 17191a confraternita si dette alla ricerca di una sede apposita dove sistemare sia il grano, sia l'ufficio di amministrazione del monte. Ci riuscì solo molti anni dopo, nel 1764, quando acquistò una piccola casa di proprietà della compagnia del S.S.mo Sacramento nella piazzetta centrale, detta "del Marchese" (piazza Matteotti).
Il monte dei pegni
Vi si rivolgevano i poveri che avevano bisogno di piccoli prestiti di denaro e come garanzia portavano le loro piccole cose, cioè beni mobili di ogni genere. Per tale servizio il comune richiedeva una somma da calcolarsi a percentuale. Questa era veramente irrisoria, cioè ben minore di quanto si sarebbe dovuto pagare facendo ricorso al prestito degli ebrei, allora presenti in Fratta, i cui tassi di interesse erano molto più alti.
La comunità di Fratta era autorizzata a gestire tale istituzione dal comune di Perugia, dal quale l'aveva appaltata ed al quale doveva pagare una somma
annuale. Il comune poteva quindi gestirla in proprio ma poteva anche subappaltarla, come fece nell'anno 1748 quando il Monte venne ceduto in appalto ad Ubaldo Moretti di Fratta.
Studio gratuito
La comunità di Fratta poteva inviare ogni anno "due giovani al Seminario vescovile di Gubbio, da ivi mantenersi gratis, purché abbiano necessari requisiti e sieno idonei a incamminarsi per la via Ecclesiastica".
Assistenza agli "esposti"
Gli "esposti" erano neonati abbandonati alla porta delle chiese o degli ospedali, inviati dalla comunità all'ospedale di Santa Maria della Misericordia di Perugia. Qui molti trovatelli muoiono perché le balie non si possono pagare. Quelle che prendono i bambini per allattarli ". . . ne hanno anche cinque o sei al petto", quindi il nutrimento è scarso ed i decessi sono parecchi. Prima del 1739 le balie esterne ricevevano una mina di grano "sconcio" all'anno, troppo poco per il cardinale Martino Enrico Caracciolo, visitatore apostolico in quell'anno a Perugia, che assegna a ciascuna sei paoli il mese, più uno scudo, una tantum, dopo il diciottesimo mese. Questi bambini giravano con un cartellino attaccato al collo ad indicare la data di battesimo ed il nome.
Doti alle zitelle
Nel XVIII secolo alcune confraternite locali, compresa quella di Santa Croce che era la più ricca, elargivano una dote ad una zitella. Fin dal 1612 si aiutavano così le ragazze che dovevano sposarsi ma che non potevano fronteggiare le spese occorrenti. La dote, una all'anno, veniva concessa dietro domanda scritta a zitelle nate in paese (come i genitori), allegando un attestato del parroco che faceva fede sia della nascita, per l'età, sia delfonestà di tali ragazze. La confraternita sceglieva poi un certo e ristretto numero di ragazze e le sottoponeva ad un esame. La vinciti-ice poteva avere la dote solo se e quando si sposava. C'era anche un termine ultimo, che era di 35 anni; se la ragazza non si sposava entro questa età, la confraternita riprendeva la dote. Altro motivo per cui la dote veniva negata era quello che la ragazza, prima di sposare, non vivesse onestamente.
Gli svaghi
Teatro
Già nel Seicento era operante in Fratta un'associazione di amanti dell'arte teatrale che si chiamava "Accademia degli Inestabili". Nel 1746 dovette procedere alla sua riorganizzazione, il che fa pensare che fosse in fase fortemente negativa.
Era molto attivo, invece, l'insegnamento musicale, pubblico e privato. In particolare negli oratori, dove si ritrovava la gioventù per le rappresentazioni a carattere religioso, con scuola di canto e strumentale legate alle varie funzioni religiose dei giorni di festa.
Il teatro di Fratta era situato fin dal 1746 nel palazzo comunale, nell'odierna piazza Fortebracci. Al primo piano si trovavano alcuni uffici e la sala delle riunioni consiliari che veniva concessa agli "accademici inestabili" per le loro rappresentazioni. Aveva due "loggie" che probabilmente servivano per i consiglieri comunali, ma erano aperte al pubblico per il teatro. Si entrava tramite una scala di pietra posta all'esterno.
Nel 1770 è sempre nella sala al primo piano del palazzo comunale ma questo locale era ormai insufficiente per l'attività degli accademici. Costoro decisero quindi di ampliarlo e chiesero due camere adiacenti che servivano per ufficio del commissario e giudice come pure per gli sbirri di passaggio.
Nel 1746 sappiamo che si volle ricostituire un'associazione teatrale su basi differenti dalla vecchia: forse gli "accademici inestabili" si erano sciolti, in tutto o in parte, verso la fine del XVII secolo. A metà del Settecento i membri dell"'Accademia degli Inestabili" erano undici, delle principali famiglie del paese, come i Fabbri, i Francesconi, i Burelli, ma poi il numero crebbe e vi fecero parte altri illustri personaggi quali il dottor Prospero Mariotti, suo figlio Annibale e il dottor Giulio Fracassini. L'accademia aveva uno stemma formato da uno scudo nobiliare ove era disegnata una mano. Stringeva tre cordoni d'oro intrecciati insieme che terminavano con piombi a guisa di piccolo nappo e, all'intorno, il motto "Difficile solvitur" (difficilmente si scioglierà).
Al di fuori della stagione teatrale (cioè fuori del carnevale), agivano invece i dilettanti filodrammatici del paese che erano per lo più gli stessi accademici e i componenti delle loro famiglie.
Le rappresentazioni venivano eseguite per addestrare i giovani nelle discipline di scena più che per dare svago alla popolazione.
Nella metà del Settecento le compagnie drammatiche di natura nomade erano una rarità e la prima venne a recitare in Fratta nel 1748. Era la compagnia di Giovanni Gazzola, di professione "artista istrione" che dopo molte difficoltà per ottenere l'autorizzazione poté deliziare i frattegiani con le leziose parti del Pulcinella, del Brighella e del dottor Belanza.
Il nostro teatro chiuse, come tutti nel regno romano, dal 1791 al 1795 per ordine del papa Pio IV, a causa delle vicende politiche del tempo, incentrate sull'invasione dell'Italia da parte dell'esercito francese. Fu poi riaperto con le opere "La donna colpevole" e "Il corsaro di Marsiglia", dove quel "corsaro" doveva essere un chiaro riferimento all'operato di Napoleone, il personaggio di maggiore interesse nella scena politica del tempo.
Il teatro veniva concesso su richiesta per feste da ballo, lavori della scolaresca elementare, occasioni in cui si premiavano i ragazzi più bravi. A volte veniva poi concesso per il gioco della tombola, introdotto nel Perugino nel 1796.
Nei primi mesi del 1798 sorse il movimento del "Viva Maria". A metà febbraio Fratta fu invasa da tali rivoltosi i quali fecero diversi danni- alle proprietà comunali e private, manomisero il teatro e dispersero la documentazione dell'amministrazione.
Tempo libero
Nel 1730, la "caccia al bove", o "gioco dello steccato", sorta di corrida fra buoi e cani in una piazza del paese, in genere San Francesco.
Nel 1760 abbiamo notizia che si praticava la caccia nei mesi di settembre e ottobre, la cosiddetta "uccellatura" (con la rete).
Nel 1794 compare il gioco della "palla" o del "pallone", in piazza San Francesco.
Fonti:
- Renato Codovini - “Storia di Umbertide – Volume VI – Sec. XVIII” - Dattiloscritto inedito.
- Calendario di Umbertide 2001 – Ed. Comune di Umbertide – 2001 (Testi a cura di Adriano Bottaccioli - Walter Rondoni – Amedeo Massetti – Fabio Mariotti).

Processione della Madonna - fine anni '50. (Archivio fotografico Corradi)


La facciata della chiesa di San Francesco Il cantante lirico Domenico Bruni

Piazza Umberto I (ora Matteotti) nei primi anni del '900. (Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide). Nel 1700 era più piccola ed era detta piazza del Marchese.


Annibale Mariotti
Giuliano Bovicelli
AGRICOLTURA, COMMERCIO, MESTIERI E ISTRUZIONE
L'Agricoltura
Nel 1700 l'insediamento permanente in campagna è molto più sicuro che nei secoli precedenti e la costruzione delle case coloniche non è basata più sul sistema della casa-torre, la casa di minima superficie ma sviluppata in altezza, atta ad abitazione e anche a difesa del contadino e dei suoi beni domestici. Ora si adotta il tipo di casa sviluppata in piano, con maggiore base, minore altezza, in complesso superiore cubatura. Ha un piano terra che serve per la conduzione agricola e un primo piano ad abitazione del contadino.
I terreni potevano essere "arativo", "canapinato", "cerquato", "gineprato", "gengato", "lavorativo", "olivato", "ortivo", "pergolato", "prativo", "sodivo", "scopato", "Vlneat0", "silvato", "boschivo" (o "buscato"). Il terreno "cerquato" era tenuto in grande considerazione perché la quercia era considerata addirittura pianta da frutto per il gran bisogno di ghiande che servivano per i porci ma, a volte, nei casi di grandi carestie, venivano ridotte in farina come ausilio dell'alimentazione umana. C'era un predominio del pergolato sulla vigna, una discreta estensione dell'oliveto e la presenza del "canapinato" nei luoghi più ricchi d'acqua. L'estensione dei terreni si misurava in capacità (rubbia, mina, stara, coppa) di semente necessaria a coprire il terreno. I proprietari sono molto pochi. Troviamo le famiglie nobili quali Ranieri, Degli Oddi, Bourbon di Sorbello, Florenzi, Antinori, Crescenzi, Zeccadoro che avevano terre in Fratta ma risiedevano altrove, per cui non pagavano tasse. C'erano famiglie residenti, anche queste molto ricche: Alberti, Albanesi, Bertanzi, Bruni, Agostini, Burelli, Gnoni, Fracassini, Guardabassi, Magnanini, Paolucci, Petrogalli, Reggiani, Vibi, Cambiotti, Cibo, Mavarelli, Ramaccioni, Montanucci, Falici, Bartoccini.
I contratti d'affitto erano di due specie: un tipo temporaneo, stipulato per tre, sei e nove anni ed il tipo detto "enfiteusi" che di solito abbracciava un periodo di tre generazioni. Questi erano i più usati ma ce n'erano alcuni validi per una sola "ricoltura", cioè per un solo raccolto o per un solo anno agrario.
Le parti in causa sono tre, anche se solo due stipulanti, cioè il padrone del terreno e l'affittuario che fa lavorare le terre ai contadini, esclusi dalla trattativa.
Il proprietario doveva permettere all'affittuario di fare abitare i familiari del contadino nella casa colonica; doveva dare viti e olivi da piantare nell'anno. Qualora non le avesse fornite, l'affittuario era sciolto dall'obbligo di "piantamento" e il proprietario non poteva obbligarlo l'anno seguente. L'affittuario era tenuto a mantenere le piante trovate nell'inventario di consegna, poteva mandare via i contadini a suo arbitrio e piacimento. Gli spettava di pagare, oltre al canone d'affitto, i dazi, le gabelle, le tasse camerali. Doveva lasciare i terreni seminati come l'aveva trovati al suo ingresso; doveva rendere le botti ma fare attenzione "che sieno di buon odore e senza vizio alcuno, come le riceve". A fine affitto i maiali ed il bestiame grosso si restituivano a stima; i bestiami pecorini e caprini si rendevano a capo.
Il contadino doveva seminare grano e biade col proprio seme, potare e scalzare gli alberi giovani e vecchi, piantare un certo numero di viti e ulivi ogni anno col sistema dei formoni e quello delle buche singole. Non tagliare alberi da frutto, ma solo legname morto per il fuoco. Doveva portare a casa del padrone la parte del prodotto dominicale e per questo veniva pagato in natura o in cibarie. Il mosto si divideva a metà. A Pasqua doveva dare una certa quantità di uova e "pancasciato"; doveva dare regalie ed obblighi in polli ed uova.
Nel XVIII secolo non esisteva un "patto colonico" specificato ed imposto dalla legge come avverrà poi, ma solo accordi non scritti. Dei prodotti dei campi metà andava al padrone (parte dominicale) e metà al contadino. Nei casi di rapporti a tre (padrone, affittuario e contadino) la divisione avveniva fra affittuario e contadino; il padrone prendeva l'affitto.
Erano a carico del padrone le spese di potatura e scalzatura delle viti, i formoni e le fosse, i compensi al contadino quando veniva chiamato a dare al propria "assistenza" ai lavori di vendemmia, a vagliare il grano e a spalarlo, a fare lavori vari di cantina, quando portava a vendere i prodotti al mercato, le stime e la domatura del bestiame, la costruzione e l'accomodatura degli immobili agresti. Si producevano cecio, cecio rosso, canapa, cicerchie, ciliegie, fagioli, fave, foglie del gelso, foglie degli oppi, fichi, formaggio, grano, granturco, ghiande, lenti, lenticchie, lana, lino, lupini, miele, noccole, noci, orzo, olive, panico, pere, pesche, piselli, uva, veccia, vena, vino.
Il contadino doveva pagare una tassa detta "collara" quando adoperava, per lavorare la terra, i buoi che appartenevano al padrone.
Il dare e l'avere del contadino risultava dal "libretto dei lavoratori".
Nei poderi di collina si tenevano pecore e capre, ma anche molti suini.
Il Commercio
L'aspetto che caratterizza l'economia è la staticità dei valori. Non esiste l'inflazione e le diversità nei prezzi di alcune merci sono provocate da momentanei fattori straordinari. Un'altra componente è la penosità del lavoro, dei salari fermi al limite di una sopravvivenza faticosa. L'economia è molto povera, sia a livello territoriale (comune di Fratta), sia nello Stato Pontificio. Ulteriore aspetto è la concentrazione quasi totale delle attività produttive quali l'agraria, ad esempio, in mano a pochi nobili impossessatisi anche di una certa attività industriale (lanifici). Esisteva inoltre una piccola industria artigianale (il ferro e la figulina [terracotta]), ma era compressa da una limitata disponibilità di capitali, sempre insufficienti in quanto reperibili in famiglia. I grossi pagamenti si eseguivano con le "cedole bancarie", attestazioni generiche di quietanza rilasciate dalle banche (i "Monti").
Gli atti si stipulavano dal notaio il quale attestava che il compratore metteva il denaro sopra il tavolo.
Venditori
- Bocci (bachi da seta): Mavarelli, donna Caterina Igi.
- Canapa: Alessio Moriconi.
- Calcina: Mariangelo di Paolo, Domenico Stoppa.
- Materiale da costruzione: Giovanni Maria Diamanti, Menco di Natale, Andrea Fanfani, Molinari, Domenico Salvatori, Fortunato Agostini, Ludovico Cristiani.
- Fronda dei mori (gelsi): Antonio detto "il Regnicolo", lo "Stinco".
- Legname: Andrea Bellagamba, Raffaele Scapicchi, Antonio di Giovan Battista, Paolo di Giorgio, Gio. Tomasso da Monte Castelli, Giuseppe Jotti,
- Paglia: Girolimo di Rondino.
- Pellami: Pietro Baldoni è venditore (e raccoglitore) di pelli di capretto e "bassette bianche".
- Stabbio: donna Carolina Gratini (1712) alla confraternita di San Bernardino; Costantino di Vincentio, Angelino Mavarelli, Giulio Rovinati. Mattio Massi, Filippo Leonetti, Filippo Carocci.
- Vino: ricevevano un compenso in denaro per ogni barile di vino. Santi di Cristoforo (1700), Francesco Franceschini, Federico Palazzari (1701), Pietro Martinelli (1715/1749), Francesco Mercante (1722), Antonio Jotti (1726), Costanza Martinelli (1727/1738), donna Elisabetta Jotti, detta "la Padella" (1733/1735), Bernardino Cantelli (1741), Elisabetta Falcioli (1741/1747), Fabrizio Brugnoli (1749), donna Francesca d'Andrea (1751), donna Margherita Massi detta "la Margarita" (1756/1759), Giovanni del quondam Andrea (1759/1760), donna Virginia Ciangottini (1767), Tommaso e Clemente Ciangottini (1768), Antonio detto "il Regnicolo" (1780), donna Maria Antonia Mercanti (1782/1784). Gambattista Fanfani (1787), Gian Maria Bartolini (1789).
Botteghe e bottegai
1702 - Gregorio Molinari: vetri. 1706 - Francesco Luminati: cera. 1718 - bottega di "fabbreccia", in piazza San Francesco, dalla parte del Tevere. 1722/1730 - Sante Mavarelli: pane, lardo, strutto, cera, fàcole e polvere da sparo. 1724 - bottega da calzolaio. Vi si trovavano martello, tenaglie, ligiatore, trincetto, stecca. 1732 - Pietro Spaccini: vetri, trafile per finestre (da mettere tra i vetri). 1732 - Gaspare Martinelli: piombo per le trafile.
1741/1749 - Domenico Cerbonelli: cera, spago, chiodi, incenso. 1745 - Borgo di Sopra, zona del mercato, vasaro Giovan Maria Martinelli. 1745 - Borgo di Sopra, mastro Antonio Vibi, archibugiere. 1745 - Borgo Inferiore, tre botteghe di fabbri. 1748 - Agostino Bettelli: cera. 1753 - Gaspare Martinelli: piombo per i vetri. 1765 - Ercolano Roni: uova. 1767/ 1797- Vibi: pizzi, cera, ecc.. 1770 - Silvestro Jlartinelli ha una bottega di "cossi". 1770/1776 - Domenico Mavarelli: cera, piombo per le vernici, tela.bombage.1779/1795 - Donino Passalbuoni: calzoleria. 1776 - Burelli: "spetie", cera e gommalacca. 1781 - Vincenzo Mavarelli: cera. 1788 - Guerrini: cera. 1788 - Ubaldo Perugini: olio. 1791 - Alessio Vioriconi: panno per sacchi. 1792 - Girolamo Ciangottini: cera. 1794 - piazza San Francesco, bottega da vasaro con annessa fornace. 1794 - Piaggiola, bottega di calzolaro. 1794/1797 - “fra le porte”. piazzetta al baluardo di sud ovest (Tevere), la bottega del macello, rivendita comunale di carne. 1795 - 1799 - Vincenzo Mavarelh: bollette salderine, chiodi, spilli, centarole, bocci da seta.
Osterie e alberghi
-Osteria della Corona" con alloggio. Era situata in piazza San Francesco, davanti alla chiesa di Santa Croce. Era di proprietà dei conti di Civitella Ranieri. Nel 1738 vi muore uno sbirro di Perugia, colpito da una archibugiata. "Osteria della Staffa", con alloggio, nella strada di San Giovanni, dentro le mura castellane. Era probabilmente proprietà del conte Ranieri. C'erano anche le osterie di Antonia Mercanti, con alloggio, di Giuseppe Carocci, di Sebastiano Cesaretti.
Nel 1721 c'è "1'osteria di Pier Antonio", gestita da un certo Bruscatelli. Accanto sorgeva un "palombaro", la classica casa contadina. La villa (frazione) era costituita soltanto da queste due o tre case. Vicino si trovava la cappella dello Spirito Santo.
"L'osteria della Mita" era di proprietà dei marchesi Florenzi di Reschio, che abitavano a Perugia. Verso Città di Castello c'era "1'osteria di Montalto", sul piano del Tevere, lungo la strada consolare da Fratta a Niccone. Apparteneva ai conti Degli Oddi di Perugia, proprietari pure del castello di Montalto. C'era infine "1'osteria della Nese", sul fiume omonimo, al confine fra Perugia e Fratta.
Fiere e mercati
Si tenevano fiere nella prima settimana di giugno e si svolgevano nella piazza della chiesa di Sant'Erasmo, detta anche "il Mercatale". Solo il bestiame per tali occasioni trovava luogo in un'altra sede, di solito il grande prato comunale situato oltre il ponte del Tevere.
A Civitella Ranieri la fiera si svolgeva tra il 20 ed il 25 luglio. A Montalto, il 28 maggio.
Le poste
Nel XVIII secolo l’Alta Valle del Tevere era percorsa da due servizi con diligenza (due "corsi di posta", come si diceva allora). Uno veniva da Città di Castello ed era diretto a Perugia, l'altro partiva da Montone ed era anch'esso diretto a Perugia: si fermavano in Fratta per il cambio dei cavalli, per prendere la posta ed eventuali passeggeri. Questi "corsi di posta" arrivavano in Fratta la mattina presto, prima quello di Montone, poi quello di Città di Castello, con un ritardo che poteva essere di una mezz'ora rispetto all'orario fissato. Giungevano a Perugia circa quattro ore dopo. Oltre il servizio "di linea" c'era anche un "corso" speciale, per posta urgente delle comunità, detto "lo spedito" o "celerifero" (una specie di "posta prioritaria). Fornito da un uomo a cavallo che portava nella "bolzetta" (borsa di cuoio) solo i plichi del comune per i quali non si poteva aspettare la partenza della diligenza del giorno dopo.
Mestieri
Molini a olio
Ce n'era uno vicino al fosso di Lazzaro, a confine fra il "Mercatale di Sant' Erasmo" e la zona di Santa Maria. Probabilmente aveva anche la macina da grano. Nel 1794 apparteneva ai fratelli Mazzaforti che lo affittarono per quattro anni ad Ubaldo Cambiotti. Nel territorio c'erano molini a olio a Cicaleto, Migianella, Monte Acuto ("Molino con suo torchio e vite, nel cui ceppo sonovi tre cerchi di ferro, la macina con suo cavalletto e sopra un paletto di ferro ma con zeppa di legno"), Racchiusole, San Patrignano.
Molini a grano
Nella "villa" di Cicaleto, in parrocchia San Giuliano, proprietà dei frati Camaldolesi di Montecorona. Era posto a un chilometro dal fiume Tevere, a sud di Fratta ed è rimasto attivo fino ai primi decenni del Novecento. Aveva una propria diga di sbarramento, la mola, il "cialandro", la tramoggia, le pale di ferro. E la "gualchiera", il meccanismo per sbattere i panni di lana a mezzo di grossi martelli di legno che erano mossi dall'acqua. Altri molini a grano sorgevano a Molino Vitelli, a Monte Migiano, a Serra "di Partuccio", a San Patrignano e all'abbazia di San Salvatore (all'interno, era detto "molino della clausura" e prendeva acqua da un fossato).
Calcinai
A Santa Giuliana, proprietà di Mariangelo di Paolo. Faceva calcina che vendeva a quattro baiocchi la soma. Un altro alla costa di Monte Acuto, della famiglia Fracassini.
Fornaci
Ne avevano una Angelo di Roso e Fortunato Agostini, che nel 1751 vende mattoni per la facciata di Santa Croce. A Carpini e a Montalto, dei Degli Oddi di Perugia, proprietari del castello omonimo. Fu demolita da una piena del Tevere nel 1760.
Di tutto un po'..
Archibugieri: mastro Giulio Castellani, mastro Giuseppe e mastro Antonio.
Indoratori: Antonio Gabriotti, nel 1717 dà l'oro ai candelieri e alle carteglorie di Santa Croce; Giuseppe Ferranti, di Gubbio.
Argentieri: Silvestro Angelini, di Perugia; nel 1743 vende un calice e una patena d'argento alla confraternita di Santa Croce.
Bastari: Pietro Profili, Tommaso Mischianti, Giacomo Botti e Fabio Urbani.
Bottari e bigonzari: Alessandro Jotti, Angelo Ciangottini, Francesco Puletti.
Calzolari: erano riuniti nella congregazione dell'arte dei calzolari (che aveva la propria cappella nella chiesa di Santa Croce, all'altare dei santi Crispino e Crispiniano, protettori della categoria): Pietro di Angelo, Ubaldo Moretti, Carlo Guerrini, Donino Passalboni, Antonio Mariani.
Cappellai: Passalbuoni, Giuseppe Benedetti di Città di Castello. C'era anche una bottega in Castel Nuovo.
Canapari: Giovan Carlo Montanucci. Conciatori: Giulio e Panfilio. Disegnatori: Brischi, Giuseppe Notari e Giovan Pietro Gigli.
Fabbri: Lorenzo e Pietro Martinelli, Carlo Francesconi, Domenico Paganelli, Raimondo Rotelli, Pier Giovanni Lestini, Francesco d'Agostino, detto "Ferraccio". Alla fine del Settecento due botteghe da fabbro erano nel piccolo spiazzo all'inizio della strada che conduce al Borgo Inferiore, subito dopo il ponticello sulla Reggia. Nel 1798 Silvestro Martinelli e Vincenzo Jotti sono gli "offiziali" dell'arte e università dei fabbri.
Falegnami: Carlo Bolisi (1720), Ludovico Franceschini (1724), Alessandro Jotto (1753), Giovan Lorenzo Gigli (1750), Francesco Moscatelli (1745) a Pierantonio, Giuseppe Jotti (1749).
Fonditori: Gregorio Righi, da Perugia, fonde ed accomoda le campane di Santa Croce nel 1717.
Fornari: Bartolomeo di Lorenzo, Domenico Lauri, Giovan Battista di Giulio, Bernardino Tassi, Olimpia Tassi.
Intagliatori: Marco Batazzi, Alessandro Igi.
Macellatori: Santino, Andrea, Giuseppe Schiavini; Angelino Mavarelli, Marino Farneti.
Magnani: Michele Aragoni (1698/1710).
Manovali e facchini: Tommaso di Francesco, Santi Paoletti. Giulio di Goro, Domenico Salvatori.
Marescalchi: Antonio Mazzanti.
Misuratori, stimatori: Fabrizio Mazzaforti (misuratore di botti), Lodovico Franceschini (misuratore di grano), Alessandro Jotti (stimatore di legname), Antonio Brischi (misuratore di vino), Vincenzo Mavarelli (stimatore di vino).
Molinari: Tommaso Mancini, Giuseppe di Antonio.
Muratori: Giovanni, detto "Miracolo", Costanzo di Cesare, Antonio di Giovan Maria, Ventura Bartoccini (capomastro muratore), Ercolano Corsini, Domenico Farneti (capo mastro muratore). Attrezzi da muratore erano il martello, la cucchiara, la zappa per fare la calcina, la martellina, il piombo, l'archipendolo, la paletta da scornigiare.
Organari: Carlo Balducci, Pietro Forti, Orazio Fedeli.
Pirotecnici: 1786, Francesco Natali; 1787, Bernardino Brischi
Pittori: Antonio Gabriotti, Francesco Leonardi, Ubaldo Vitaliani, Giuseppe Ferranti, Francesco Cocchi, Giuseppe Bertanzi.
Pollaroli: Pietro detto "1'Anitraro", Giambattista. Potatori: Antonio detto Sciuga, Francesco di Antonio; Francesco Scalseggia.
Ricamatrici: Colomba Vespucci.
Sarti: Guerrini, donna Crestina Francesconi, Francesco Moriconi, Mauritio Pucci, donna Margherita Massi.
Scalpellini: Francesco di Vincenzo, Lorenzo Brischi, Francesco detto il "Borzicchio", Domenico Mavarelli, "il Riccio".
Segatori: Giuseppe Moretti, Tommaso di Pascuccio, Belardino detto "il Regnicolo", Paolo Pieroni, Panfilio di Francesco, Paolo Ercoli.
Sellaio: Fabio Urbani
Stucchi: Giuseppe Notari (1753, lavora a Santa Croce), Giovanni Cherubini.
Tessitori: Maria Cristina Francesconi, Aurora Roni, donna Elisabetta Cantelli, donna Margherita Massi. Non esistono opifici, lanifici e fabbriche di teleria. La lavorazione si fa nelle case dei privati cittadini in quanto molti hanno i telai.
Tintore: Gerolamo Martinelli.
Vasari: Francesco Fussai (1709), Giammatteo Martinelli (1742), Silvestro Martinelli, Gaetano Martinelli.
Verniciatori: Giuseppe Ferranti
Vetturali e corrieri: Paolo Cangelotti, Marino Rotelli, Tommaso di Marco, Andrea di Ercolano, Giovanni detto "Spaterna", Pietro Simone Cicutella.
L'Istruzione
Nel Settecento esisteva una scuola dove si insegnavano i primi elementi del leggere, dello scrivere e far di conto, tenuta da un ecclesiastico. Veniva pagato dalla comunità con uno stipendio che era, all'inizio del secolo di circa dodici, quattordici scudi l'anno. A questi si aggiungevano tre scudi dalla confraternita di Santa Croce come maestro di scuola ed altri venticinque che la stessa gli corrispondeva "per la cappellanìa", il compito di dire messe nella cappella della confraternita. Il contratto dell'assunzione veniva stipulato fra comune e maestro davanti al notaio. In caso di posto vacante, i genitori dei ragazzi sottoscrivevano una polizza con la quale si impegnavano a pagare una piccola somma al comune, a favore del maestro.
La scuola era situata nel Borgo Inferiore, in locali della confraternita di Santa Croce.
Alla fine del secolo il maestro prendeva trentadue scudi l'anno dalla comunità. Oltre a ciò riceveva otto scudi dalla confraternita di Santa Croce sempre per la scuola e la "cappellanìa", cui si aggiungevano le somme da altre confraternite per vari servizi religiosi o occasionali come esecuzioni musicali in occasione di feste. L'entrata annuale era comunque sufficiente per un discreto tenore di vita.
Un maestro insegnava grammatica e retorica per uno stipendio di settanta scudi l'anno. A fine secolo questa scuola si trovava in Castel Nuovo, nei locali dell'ex monastero di Santa Maria Nuova, acquistato dalla comunità di Fratta.
Nel 1700 il maestro di scuola era don Pietro Cardoni, di Nocera. Abitava nelle due stanze sopra l'ospedale di Santa Croce che la confraternita gli aveva riservato. Questa tratteneva per l'affitto quindici paoli l'anno dallo stipendio che gli pagava: in tutto trenta paoli, cioè tre scudi. Il maestro faceva, come era in uso al tempo, anche il "servizio di musica" per la compagnia di Santa Croce. Ai primi di agosto 1719 Cardoni si licenziò. Gli subentrò don Matteo Silvestrini e la confraternita affitta anche a lui le camere sopra l'ospedale.
Nel 1725 il maestro è don Pietro Burli. Nei primi mesi del 1730 maestro di scuola è un certo Fabbri, ma ad aprile lo sostituisce don Innocenzo Diamanti, per quattro anni. Poi l'abate Giovan Battista Orlandini e don Lorenzo Meuccio. Dal 1741 al 1750 maestri sono don Ubaldo Balducci, don Gerolamo Passi, don Francesco Tosoni, don Gaspare Mazzaforti, don Lorenzo Pellegrini, don Modesto Spinetti.
Dal 1750 troviamo don Arcangelo Mischianti (maestro di sacra teologia è fra' Francesco Maria Calindri, guardiano del convento di San Francesco), don Alessandro Dini nato ad Urbania, don Matteo Tosciliani, don Paolo Costantini, don Ubaldo Menghini, don Stefano Loretti, don Angelo Mavarelli, don Antonio Giuseppe Gnagneri, don Cristiani, don Giuseppe Angelini, il canonico don Paolucci. Nel 1787 maestro di scuola è don Ercolano Mavarelli. Prendeva quattro scudi a quadrimestre. E' un canonico della collegiata di San Giovanni. Nel 1789 è maestro padre Fulgenzio Maria, minore degli osservanti del convento di Santa Maria, nato a Città di Castello. Nel 1790 c'è il canonico Pecchioli cui segue don Luca Brami. Troviamo poi don Sebastiano Riccardi e 1'abate Paolo Padoni.
L'insegnamento della musica
Poteva essere pubblico e privato. Il primo era affidato ai maestri di cappella e questi, diplomatisi in musica in qualche scuola, erano chiamati e stipendiati dalle varie confraternite e congregazioni religiose. La loro dipendenza ci spiega il termine "di cappella", in quanto le confraternite avevano la sede in una chiesa ove possedevano una cappella con altare dedicata al loro protettore. Le confraternite maggiori, di Santa Croce e di San Bernardino, avevano un proprio maestro ma questi non prendeva uno stipendio tale da garantirgli una sicurezza economica; per questo svolgeva opera saltuaria anche presso le altre confraternite e chiese riuscendo, fra tutto, a guadagnare quanto bastava per vivere.
Oltre all'insegnamento pubblico, esisteva quello privato. C'era l'uso di affidare un giovane, fin dalla prima adolescenza, ad un maestro che si impegnava, dietro un compenso annuale, ad insegnargli la musica strumentale e il canto e, a volte, anche a leggere e scrivere. Il ragazzo però doveva lasciare la famiglia e trasferirsi a casa del maestro, che diventava padre-padrone, restando qui per il tempo stabilito, una decina d'anni. Tutto ciò veniva concordato tramite un atto notarile comprendente molte clausole.
Fonti:
- Renato Codovini - “Storia di Umbertide – Volume VI – Sec. XVIII” - Dattiloscritto inedito.
- Calendario di Umbertide 2001 – Ed. Comune di Umbertide – 2001 (Testi a cura di Adriano Bottaccioli - Walter Rondoni – Amedeo Massetti – Fabio Mariotti).
Illustrazioni di Adriano Bottaccioli.


La raccolta del grano a mano (Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)
Famigliola contadina (Archivio fotografico storico
del Comune di Umbertide)


Sul paiaio (Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)
Sul carro dei buoi (Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)

Calesse (Archivio fotografico storico del Comune di Umbertide)


1977. La Fornace (Archivio Giuseppe Severi)
1975. Traccia di un forno di vasaio in via Bovicelli (Archivio Giuseppe Severi)

Scorcio di Santa Croce
Chiesa di Sant’Andrea di Castelvecchio
L’antico tempio si trovava all’altezza dell’attuale laboratorio analisi nel vecchio ospedale di Umbertide
La chiesa, di antichissime origini che risalivano addirittura agli inizi del XII secolo, sorgeva nel Borgo Superiore di Fratta, detto Castelvecchio, proprio nel punto dove fu costruito, nel 1870, il vecchio ospedale. Disponeva di un campanile con due campane e di più altari al suo interno. Uno di questi, dedicato a Santa Barbara, fu costruito nel 1735(1).
Nonostante la lunga vita ed il prestigio che essa aveva ricoperto nel cuore dei fedeli della Fratta, poco sappiamo delle sue caratteristiche. Non conosciamo la sua forma e non siamo in grado di sapere se custodisse opere di un certo valore al suo interno, cosa possibile in considerazione della lunga storia del tempio.
Se ci mancano sicure notizie sulle sue origini e la sua struttura, abbiamo, in compenso, dettagliate informazioni sulla sua fine che coincise con quella del secolo XVIII. Il collasso, per la verità, incominciò molto prima, nell'anno 1751, quando il parroco, arciprete Petrogalli, informò il Vescovo di Gubbio che una parte del tetto stava crollando e anche il muraglione attorno al campanile stava per fare la stessa fine. Arrivò l'autorizzazione alla “riduzione” della chiesa e siccome i crolli continuavano, fu ulteriormente ridotta fino a diventare una piccola cappella. In tale veste fu officiata in modo saltuario ancora per qualche tempo e più tardi scomparve come sede dei servizi del culto. I lavori di “riduzione” furono finanziati con il ricavato della vendita della campana maggiore(2) che consentì anche di abbellire l'altare della chiesa di San Giovanni Battista, dove il 15 dicembre del 1752 fu trasportato il quadro rappresentante Sant'Andrea, dipinto da Benedetto Cavallucci di Perugia.
Note:
1. Cfr. Umberto Pesci, Storia di Umbertide, Tipografia R. Fruttini di Gualdo Tadino, anno 1932, pag. 133 e segg.
2. L’arciprete Petrogalli, con il permesso del Vescovo accordato il 10 novembre 1751, aveva venduto la campana maggiore, del peso di 220 libbre, ai Padri Filippini di Montefalco per 38 scudi.
Fonti:
“Umbertide nel Secolo XVIII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide – Settembre 2003


LE CHIESE MINORI DI FRATTA E I PROIETTI
Le chiese minori
La chiesina della Madonna del Moro si trovava poco fuori dal Borgo Inferiore, al centro di un podere di proprietà della famiglia Savelli, accanto alla casa del contadino e ad un pozzo. Nel 1746 il podere venne venduto a Bernardino Dell'Uomo con tutti gli annessi e la piccola cappella seguì la sorte della casa e dei campi.
Il tempietto della Madonna del Giglio si trovava, invece, vicino al Borgo Superiore, in una proprietà di donna Pellegrini Stella, vedova di Giovan Francesco Paolucci. La signora contribuiva al mantenimento della cappella con la somma di cinque scudi l'anno. Il 16 settembre del 1730 essa fece testamento e dispose che, dopo la sua morte, l'erede, che era il nipote, capitan Giovan Tommaso Paolucci, avrebbe dovuto continuare a corrispondere il contributo.
Nella zona del mercato sorgeva una piccola cappella, detta anche Chiesina del Boccaiolo, dedicata alla Beatissima Vergine. La notizia si ricava da pochissime righe di un atto notarile (1). La chiesina, che non sappiamo con precisione dove si trovasse, fu ampliata da Marcantonio Stella che non ne disponeva a titolo di proprietà, ma aveva l'obbligo del suo mantenimento oltre a quello di far dire una messa al mese e sei messe il giorno 10 dicembre di ogni anno.
Davanti alla chiesa di Sant'Agostino, prima di entrare nella piazza del Mercatale, sulla sinistra, sorgeva il Monastero di Santa Maria Nuova con annessa la cappella di Santa Lucia. Quando fu soppresso il Monastero, i1 21 luglio 1787, essa continuò ad essere aperta al culto. Era detta anche la “chiesa dei fabbri” perché quella corporazione l'aveva ottenuta in uso dal Comune, che nel 1787 era diventato il proprietario di tutto l'ex Monastero. Verso la fine del secolo, nel 1790, fu sottoposta a consistenti lavori di manutenzione per un importo di 140 scudi anticipati da Lorenzo Vibi. L’intervento lascia supporre che la cappella fosse ancora officiata.
Sulla chiesina di Calatola si hanno poche notizie. Si trovava nel vocabolo poderale omonimo, sopra la collina dove sorge la casa Bertanzi (Villa Pace). Quasi sicuramente la cappella apparteneva alla stessa famiglia.
Chiesa di Sant' Agostino
Poco prima di entrare nella Piazza del Mercatale (piazza Marconi), a destra di chi scende dalla Piaggiola, sorgeva il convento di Sant'Agostino e la chiesa omonima, proprio al centro del Castelnuovo. Il tempio era regolarmente officiato dai Padri Agostiniani che ne avevano la responsabilità e la cura; ospitava al suo interno più altari, tra cui uno dedicato a Sant'Antonio, e comunicava con i locali del convento nella zona ovest. Sopra il soffitto della chiesa si aprivano due ampie stanze e sul lato nord, tra la strada per Montone e l'abside, si estendeva un orto coltivato dai frati.
La chiesa fu un centro fiorente di vita religiosa e di fede finché vi rimasero gli Agostiniani che ne erano l'anima, ma quando costoro lasciarono la Fratta, anche la chiesa passò in secondo ordine. Il convento, infatti, venne soppresso e nel 1738 la sua proprietà, che comprendeva anche quella della chiesa, passò al Comune.
La Magistratura della Fratta, in quello stesso anno, chiese al Vescovo di Gubbio l'autorizzazione a vendere gli immobili adiacenti alla chiesa. Il permesso fu accordato tanto più che il trasferimento era destinato a rimanere “in parrocchia” perché il compratore fu un prete, don Silvestro Fanfani, che offrì 110 scudi. Si trattò di una scelta obbligata poiché gli amministratori avevano necessità di liquidi per pagare lo stipendio del maestro della scuola, visto che ormai da diversi anni e dopo numerosi tentativi, non erano riusciti ad affittare quei locali.
La chiesa, che presentava cenni di cedimento nella parete lungo la strada, fu oggetto di un accurato intervento di restauro con la costruzione di un robusto sperone di sostegno. Verso la metà del secolo, perciò, essa era ancora officiata ed era affidata alla Compagnia della Morte.
Note:
1) L’atto recita: "Ricordo della facoltà data dal Signor Giambattista Bartolelli da Città di Castello al fu Marcantonio Stella di questa Terra di ingrandire ed ampliare la chiesina della Madonna SS.ma di Loreto nel Mercato. Rogito del notaio Michelangelo Cenni di Gubbio, in data 15 settembre 1690, senza riserva di patronato”.
I proietti (trovatelli)
Uno dei tanti problemi dolorosi del secolo, di quelli precedenti e anche di quello successivo, fu la piaga dei proietti (o trovatelli, o esposti). Ce ne furono tanti, più di quanto si possa immaginare, e in alcuni casi, oltre alle porte dei conventi, delle chiese e degli ospedali, dove i neonati solitamente venivano abbandonati, furono messi in funzione anche tamburi girevoli, comunicanti con qualche convento, per depositare i bambini indifesi, avvolti alla meglio in poveri panni. Anche alla Fratta ce n'era uno(1), vicino allo “scortico”, nella piazzetta inter portas che immetteva sul ponte del Tevere. Veniva detto “La ruota degli esposti”.
Il fenomeno doloroso aveva radici sociali profonde e non portava i segni della scarsità del senso materno. Il solo pensiero ad un'ipotesi del genere sarebbe un'offesa ai sentimenti e alla storia. La madre era sicuramente la prima persona a provare lo strazio per il drammatico distacco e ad ingoiare stille di amarezza quotidiana al pensiero che il frutto del suo seno sarebbe cresciuto senza affetti e senza carezze. Ma in una società come quella settecentesca, in cui la mortalità infantile raggiungeva livelli altissimi anche nelle famiglie più agiate, e la miseria più nera attanagliava gran parte della popolazione, l'abbandono della propria creatura ad un destino che si sperava prodigo di migliore assistenza, paradossalmente poteva rappresentare un atto d'amore o, come minimo, una speranza in più di sopravvivenza. La storia nasconde, pietosa e discreta, una serie di sofferenze e di drammi che non hanno sfiorato i palazzi del potere, gli unici archivi che un'antica e diffusa teoria storiografica ha consultato con cura nella sua parziale ricerca.
I proietti della Fratta venivano portati a Perugia, all'ospedale della Misericordia, che poi provvedeva ad inviarli ad Assisi, dove Mons. Caracciolo, fin dal 1739, aveva creato un apposito ospizio. Il trasporto a Perugia, per il debole neonato, già rappresentava un cumulo di stenti, soprattutto nel periodo invernale, ma per gli addetti ai lavori si trattava di una normale pratica da sbrigare, regolata da una serie di disposizioni rigorose, di comportamenti e di compensi (25 baiocchi a viaggio, per il vetturino). A Perugia ne dovevano arrivare parecchi se il Priore di quella città, il 14 maggio 1741, inviò una raccomandazione alla Confraternita di Santa Croce che aveva chiesto lumi in proposito. La lettera era lunga, ma noi riportiamo la parte più gradevole, per attenuare le tinte del dramma: “In risposta della stimatissima delle Signorie Loro intorno al ricevimento e trasferimento delli Proietti di costì a questo Ospidale di Perugia, non vi è difficoltà di recarci quelli che sono nati in cotesto loro Territorio della Fratta per essere questo del Territorio di Perugia, solo resta il far diligenza che non siano d'altro Territorio convicino, o di Città di Castello, o di Gubbio, che questi hanno i loro Spedali e vi è l'ordine di Monsignor Caracciolo, come vedran alla notificazione inviatali, com'anche stiano attenti che non si prendano legitimi ed in tutto attendino a quegl'ordini, a quali sono ingiunte le dovute pene”.
Con tutta la buona volontà era difficile stabilire la provenienza e l'appartenenza territoriale dei proietti, e se si fosse avuta qualche certezza in merito, non sarebbero più stati tali.
I responsabili di questo settore facevano del tutto per affidarli a qualche balia locale che li allattasse nei primissimi giorni di vita, prima di affrontare il viaggio per Perugia, ma i registri di morte sono impietosi. Nel 1753 uno di loro venne affidato alla famiglia Briganti di Polgeto: “Muore Luigi, di padre e madre incerti, di dieci giorni di età, consegnato i1 21 gennaio a Veronica Briganti”; “Il 18 febbraio 1753 muore Anna, di padre e madre incerti, consegnata a Veronica Martinelli per allattarla l’11 di febbraio”; “Il 9 di maggio muore Maria, di padre e madre incerti, consegnata a Veronica Martinelli per allattarla”. E l'elenco potrebbe continuare, ma preferiamo fermarci qui.
Tanto per fare un esempio, nella sola parrocchia di Sant'Erasmo, nel 1710, ne furono raccolti cinque davanti alla porta della chiesa e sei nel 1720, per riferirci solo a due annate di una comunità religiosa che contava 600 anime.
Note:
1. Ne esisteva anche un altro accanto al convento di Santa Maria Nuova. L’ortolano che coltiva l'orto adiacente testimonia che esso era visibile fino alla fine degli anni Cinquanta.
Fonti:
“Umbertide nel Secolo XVIII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2003





GLI APPALTI E LE PROPRIETA’ PUBBLICHE
Gli appalti
La quasi totalità delle tasse veniva data in appalto ad un esattore tramite un regolare concorso. L'obbligo era stato introdotto nel 1729 da un Editto del Papa Benedetto XIII che rimase in vigore anche per larga parte del secolo successivo. Il metodo usato per l'aggiudicazione era quello della “candela vergine” dettagliatamente descritto in altro volume(1).
Alcuni appalti erano straordinari e rimanevano in vita per la durata della tassa, come abbiamo visto per la tassa di passaggio; altri erano fissi perché permanente era il settore di attività sottoposto al balzello, come quello delle forniture e di alcuni servizi, e si rinnovavano a scadenze triennali. Essi costituivano gli introiti di maggior affidamento e di più sostanziosa mole per il Comune.
Allo svolgimento della gara potevano partecipare tutti i cittadini opportunamente informati dall'avviso del bando affisso alla porta del Comune e dal Balio tubatore che, dopo aver raschiato qualche squillo di tuba, dava lettura dei principali capi del bando per le vie del castello e nelle piazzette inter portas.
In una seduta consiliare del 27 maggio 1747 vennero discussi gli appalti e grazie ad essa siamo riusciti a sapere non solo quali e quanti fossero, ma anche l'importo che se ne voleva ricavare.
Li riportiamo nello stesso ordine in cui furono esposti in quella riunione:
1. Appalto del Pubblico Forno
2. Appalto del Bollo del Suolo
3. Appalto del Bollo della Carne
4. Appalto del Pubblico Macello
5. Appalto del Danno Dato
6. Appalto della Salara
7. Appalto della Olieria
8. Appalto delle Misure
9. Appalto della Legna
10. Appalto dello Stabbio
11. Appalto della Foietta
12. Appalto della Cenciaria
13. Appalto della Legna del Tevere.
Appalto del forno
Il forno pubblico apparteneva al Comune che non lo gestiva direttamente, ma lo dava in appalto. Per la verità in alcuni brevi periodi del secolo, per motivi che ci sfuggono, si adottò il sistema della gestione diretta. Possiamo solo escludere che essi fossero di ordine economico, poiché il guadagno medio annuale che si otteneva con la gestione in proprio era di circa 40 scudi, mentre l'appalto ne rendeva 90. La gestione in proprio faceva perdere 50 scudi netti, cui si dovevano aggiungere tutti i fastidi e le preoccupazioni di gestione.
L'appaltatore, infatti, oltre alla panificazione era costretto a provvedere all'acquisto del grano, alla sua macinazione; alla legna per il forno, tutto a sue spese, e infine al commercio del pane. Si trattava di un lavoro che impegnava non poco, specie in un'epoca in cui non c'erano ancora i forni elettrici, i lieviti speciali e i vari tipi di farina già impacchettati.
Il frequente cambio di gestione del forno, del resto, sta ad indicare che i margini di guadagno non erano lusinghieri.
Nel 1710 l'appalto, sempre triennale, era nelle mani di un certo Pietro Antonio Marcellini che lo aveva ereditato da Ercolano Fanfani e Giovanni Antonio Agostini. La gestione più duratura fu quella che va dal 1770 al 1781 tenuta da Giovanni Antonio Agostini, forse un discendente del gestore che abbiamo incontrato all'inizio del secolo.
Nel quinquennio 1787/1791 quasi sicuramente il Comune lo gestì in proprio con i risultati che abbiamo illustrato. Nell'anno successivo l'appalto fu vinto da Ubaldo Perugini.
Verso la fine del secolo, nel 1793, ci fu un tentativo di concorrenza da parte del Conte di Civitella che era deciso ad aprire un forno al confine della sua contea con il territorio del Comune di Fratta, proprio nel punto dove oggi Viale Unità d'Italia si incrocia con Via Roma, nella località allora chiamata Case Nuove. Lo doveva gestire Giuseppe Palchetti. Il nuovo esercizio avrebbe rappresentato un serio colpo per il Forno Pubblico perché Civitella non applicava dazi alle attività interne al proprio territorio. La cosa fu risolta alla buona in un incontro tra il Conte e il Primo Priore, al termine del quale fu deciso che le cose restassero come prima.
Appalto del bollo del suolo
Anche a quei tempi chi occupava temporaneamente il pubblico suolo doveva pagare una tassa al Comune. Il caso più tipico e ricorrente era quello del commercio ambulante. Come al solito il Camerlengo non provvedeva direttamente a ritirare la somma e l'intero settore veniva dato in appalto triennale al miglior offerente.
A metà del secolo l'appalto rendeva 38 scudi annui.
Appalto del bollo della carne e del macello
Tutte le bestie dovevano essere “scorticate” al macello. Le pelli venivano poi messe ad asciugare al sole e la carne, tagliata in pezzi, era sottoposta al bollo da parte del “Bollatore delle Carni”.
La bollatura era una garanzia di sicurezza per il consumatore ed anche di qualità tra i vari tipi di carne (bue, vacca, vitello, pecora, castrato, maiale, ecc), ma soprattutto un espediente tributario.
Il Bollatore era colui che aveva vinto la gara triennale d'appalto e non un veterinario. Il suo unico ruolo era quello di ritirare i diritti di bollo dai macellai e di versare al Comune una quota annuale che si attestava tra i 30 e 140 scudi all'anno.
Anche il macello era sottoposto allo stesso regime. Si tratta ovviamente del macello pubblico che il Comune teneva aperto con finalità calmieratrici, mentre il macellaio privato aveva assolto il suo obbligo con il pagamento del bollo sulla carne.
La gestione del macello pubblico era sottoposta alla normale procedura d'appalto e il vincitore si impegnava a versare una quota che in media si aggirava sui 35 scudi all'anno(2). Oltre che come appalto, il rapporto poteva essere configurato come “affitto del Macello”, ma le regole e le procedure seguite erano quelle degli appalti e non quelle delle locazioni.
Dovendo svolgere la funzione calmieratrice i prezzi erano concordati con il Comune. Il castrato, ad esempio, si doveva vendere a 4 baiocchi (venti quattrini) la libbra, ma dalla prima domenica di Quaresima e fino alla festa di San Giovanni (24 giugno) lo si doveva vendere a 21 quattrini la libbra. Le carni di vacca, pecora e capra si vendevano a 12 quattrini la libbra.
La regolamentazione dell'appalto del 1782 imponeva che sotto le feste natalizie tutta la carne dovesse subire un ribasso, in coerenza con la funzione “sociale” che il pubblico macello svolgeva.
Appalto del danno dato e della depositeria dei pegni
L'appaltatore era addetto alla sorveglianza e alla tutela dei beni pubblici, mobili e immobili. Quando essi venivano danneggiati (“danno dato”), il suo compito era quello di denunciare il responsabile al Commissario Giudice e di riscuotere il risarcimento stabilito, se non si fosse arrivati alla composizione della controversia per vie bonarie. Una parte della somma (di solito un terzo) spettava a lui e l'altra parte veniva versata nelle casse del Comune.
Si trattava di un tipo di appalto le cui entrate erano imprevedibili e per questo motivo esso era affidato allo stesso appaltatore della Depositeria dei Pegni, o Monte dei Pegni, come più comunemente veniva detto. I debitori che non riuscivano a far fronte ai propri impegni economici vi ricorrevano spesso, in assenza delle banche, per depositare un oggetto di valore e ricevere una somma in contanti. Alla scadenza fissata, il depositario ritirava il pegno versando la cifra ricevuta con gli interessi e i diritti di deposito. Se questo non avveniva, come spesso accadeva, il pegno restava di proprietà dell'appaltatore che provvedeva alla vendita e si tratteneva il ricavo.
L’appaltatore doveva possedere una discreta liquidità di denaro per assicurare i prestiti e doveva essere un abile commerciante per effettuare la stima dei beni depositati.
L’appalto rendeva al Comune 6 scudi l'anno circa.
Appalto della salara, dell'olieria e della pizzicheria
Il sale era un genere di monopolio nello Stato Pontificio e il regime di vendita era sottoposto alle disposizioni governative. L'acquisto doveva avvenire nella “Salara” ufficiale, che per la Comunità della Fratta era quella di Perugia, oppure di Fossombrone, Iesi, Fabriano o Ancona, qualora essa ne fosse sprovvista. La quantità del prelievo era fissata in 36.000 libbre all'anno, e la salara locale doveva servire anche le comuni di Preggio, “Castelrigone”, la Badia di Monte Corona, “Pier Antonio” e Pian di Ronzano.
Per lo spaccio al minuto si ricorreva al solito sistema dell'appalto, che in questo caso specifico aveva una durata biennale, e il “Ministro della Salara”, come veniva anche detto l'appaltatore(3), aveva il rigoroso obbligo di coprire l'intero fabbisogno del territorio di sua competenza, essendo il sale un elemento indispensabile di larghissimo consumo.
Con la “Salara”, ma in gare separate, venivano date in appalto anche la olieria e la pizzicheria. Nella prima si vendeva l'olio commestibile e nella seconda i salumi, il lardo e lo strutto, le carni salate e il formaggio. I prezzi dei prodotti erano stabiliti dai Difensori e dovevano essere ben visibili in un cartello affisso nella bottega.
Mentre non sappiamo quanto incassasse la Comunità con l'appalto del sale, 1'olieria e la pizzicheria rendevano 20 scudi all'anno (8 scudi l'olio e 12 gli altri prodotti).
Appalto delle misure di peso
La possibilità di pesare quantità di merci oltre le 50 libbre era una prerogativa esclusiva che spettava al Nobile Collegio del Cambio di Perugia, che deteneva il diritto di monopolio in questo settore. Non potendo esercitarlo direttamente, il Nobile Collegio lo appaltava alle varie comunità e queste, a loro volta, ad un appaltatore locale mediante la solita procedura di gara.
“La stadera grossa”, come veniva chiamata la bilancia, era considerata una “pubblica pesa” e lo scontrino rilasciato attestava non solo l'avvenuto pagamento dei diritti, ma anche l'esatto peso della merce, da far valere in giudizio in caso di controversie. La stadera grossa apparteneva al Comune che doveva adeguarsi a tutte le disposizioni impartite dal Collegio del Cambio e dalla Congregazione del Buon Governo (C.B.G.) di Perugia.
Anche i privati potevano dotarsi di uno strumento simile, che doveva essere “bollato” dall'appaltatore, cioè sottoposto al controllo e al pagamento di una tassa, e non faceva fede in caso di contenzioso, né poteva essere prestato ad altri, pena il sequestro della “stadera”.
I pesi sotto le 50 libbre venivano eseguiti in tutte le botteghe del tempo e presso i privati, ma le bilance, oltre che al bollo, erano sottoposte a controlli bimestrali.
Gli altri appalti
Chi voleva introdurre in paese legna da ardere doveva pagare una tassa all'appaltatore come “diritto di entrata”. Le parcelle erano diverse in relazione al tipo di trasporto che poteva avvenire “a some”, cioè a dorso d'asino o di mulo, oppure a carri in maggiore quantità. Era previsto anche il pagamento in natura con il deposito di un pezzo di legna a fianco della porta d'ingresso al castello. In genere la legna proveniva dal taglio dei boschi, ma c'era - anche quella “del Ponte”, ossia tutti i tronchi che le piene del Tevere accatastavano a ridosso dei piloni del ponte. Tutto questo materiale che formava una specie di diga, con molto senso pratico e accortezza, veniva rimosso e venduto con sistematica periodicità. Il più delle volte l'appaltatore era unico, ma la “legna del Ponte” poteva averne uno distinto da quello ufficiale.
Le vie del paese erano infestate dal passaggio delle bestie che, non essendo angeli, depositavano i loro escrementi lungo il percorso, senza tanti pudori. In un sistema economico in cui non si gettava via niente e si riciclava tutto, anche “lo stabbio” era un materiale utile. Il Comune ne appaltava la raccolta e la vendita al miglior offerente che, oltre a ricavarne un profitto, provvedeva a mantenere pulite le vie del paese.
La stessa cosa avveniva con gli stracci la cui raccolta era data in appalto (appalto della cenciaria). Gli stracci finivano poi a Fabriano, dove fin d'allora esisteva una fiorente industria di trasformazione.
Il piacere del “goccetto” di vino sembra che abbia origini antiche e risalga addirittura a Noè. Per il fisco non ci poteva essere un'occasione migliore. Così gli osti e i locandieri che vendevano il vino al minuto, dovevano pagare la tassa della “foietta”.
Anche la pesca, nel tratto di fiume lungo le mura, non sfuggiva al balzello tributario e i pescatori dovevano pagare una specie di “licenza” all'appaltatore di turno.
Questi ultimi appalti non rappresentavano grossi introiti per la Comunità. La tassa sulla licenza da pesca, ad esempio, rendeva al Comune uno scudo all'anno. Degli altri non sappiamo, ma siamo propensi a credere che con gli stracci, lo stabbio e la legna non si risollevassero le finanze municipali.
Entrate varie
Qualche altro scudo entrava nelle anemiche casse comunali tramite l'affitto dei terreni, degli scioiti, delle case e delle botteghe di proprietà pubblica, ma si trattava di ben poca cosa. Rendeva qualche scudo anche la vendita del pietrisco del Tevere, del fogliame dei pioppi (albaroni), dei salici, degli olmi e soprattutto dei morigelsi, piantati lungo le strade e le sponde dei corsi d'acqua. L’allevamento dei bachi da seta era largamente praticato, anche in piccole quantità nelle comuni case di abitazione, senza parlare delle produzioni massicce delle bigattiere che si trovavano nella zona.
Si vendevano anche i materiali di recupero delle proprietà pubbliche ristrutturate, come i mattoni, le travi, le tegole e i coppi. La Rocca godeva di un finanziamento diretto da Perugia di 45 scudi all'anno, destinati alle spese di manutenzione dell'edificio e di tutto il complesso delle mura castellane.
Esistevano anche in quel tempo i diritti di cancelleria e coloro che avevano bisogno di dichiarazioni, di certificazioni o di copie di atti, erano sottoposti al pagamento della tariffa prevista.
In ogni caso, gli incassi derivanti dalle varie voci di entrata molto spesso non erano sufficienti a coprire le spese della Comunità ed il ricorso al prestito era una prassi costante anche a quei tempi. Non esistendo istituti di credito pubblici si ricorreva ai privati che, per lo più, erano comunità religiose. Il prestito veniva sempre garantito con la stipula di un atto scritto, spesso con l'avallo di un garante e qualche volta anche con il deposito di un pegno da parte del garante stesso.
Capitava che il Comune avesse dei crediti da riscuotere, ma essi non costituivano un'entrata aggiuntiva, bensì il recupero di tasse non versate a suo tempo dal contribuente moroso.
Le proprietà pubbliche
Nel secolo in esame non esisteva il concetto di “inventario” e non disponiamo, pertanto, di un elenco dettagliato dei beni di proprietà comunale. Dai vari documenti esaminati si può desumere, però, che la situazione patrimoniale della Municipalità fosse all'incirca la seguente:
l. Fin dal 1725 esisteva una Comunanza di Monte Acuto con terreni sulla costa di San Giovanni. Non sappiamo con certezza quale fosse il rapporto tra la Comunanza e la Municipalità della Fratta, ma è possibile che si trattasse un bene comunale ceduto in uso agli agricoltori della zona.
2. Nel 1738 il Comune diventa proprietario della chiesa, dell'edificio, degli orti e del podere dell'ex convento di Sant'Agostino. Il podere vocabolo “Sant'Agostino” aveva una superficie di 18 mine e tre tavole; casa colonica, cantina, stalla e forno. L’affitto rendeva al Comune 10 scudi all'anno corrisposti in “due paghe”, cioè in due rate semestrali.
3. Nel 1766 la Municipalità era proprietaria della “bottega del ponte” che si trovava nel bastione di sud ovest, ossia nella piazzetta inter portas vicino al ponte sul Tevere. Fu affittata a Silvestro Somigli con un terreno sotto il pubblico forno.
4. Tutti gli scioiti sotto le mura castellane erano di proprietà comunale ed anche gli ambienti in cui venivano svolte attività commerciali di pubblica utilità: forno, salara, scortico.
5. Apparteneva al Comune la sede della residenza municipale, ossia il Palazzo nella piazzetta della Rocca e, successivamente, l'ex Convento di Santa Maria Nuova.
6. Una casa sita in via San Giovanni di Bartolomeo Petrogalli fu acquistata dal Comune nel 1780.
7. Alcune registrazioni del 1798 certificano che per il Comune sono fonti di reddito, e quindi di sua proprietà, i seguenti beni:
• un orto annesso alla casa municipale;
• una cantina sotto la casa municipale;
• un orto sopra le mura castellane e sotto la casa Bruni;
• un orto in vocabolo Porta Nova;
• due pezzetti di terreno sotto la Rocca;
• due pezzetti di terreno al Boccaiolo, sotto le mura castellane;
• una bottega detta del “macello vecchio”;
• un gran numero di mori-gelsi sugli scioiti comunali.
Note:
1. Per lo stesso motivo, Montone dovette pagare 2.500 scudi (Ascani A., Storia di Montone). La notizia è interessante perché da essa si deduce che in quel tempo il territorio della Fratta era più piccolo di quello di Montone.
2. Per maggiore completezza, riportiamo i nomi degli appaltatori che risultano dagli atti in Archivio: 1774/76 Angelo Mavarelli, 1776 Angelo Nardi oriundo di Fiesole, 1779 Gismondo Contadini.
3. Nel 1745 l'appaltatore era Mattia Degli Arrighi. Dopo di lui l'incarico fu assunto da Bernardino Dell'Uomo.
Fonti:
“Umbertide nel Secolo XVIII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide, 2003








IL TEVERE, I PONTI, LE MURA DEL CASTELLO
I lavori sulla zona dopo il ponte
Il Tevere, silenzioso e pigro, in alcune circostanze sapeva essere anche rumoroso e violento tanto che, nel corso del secolo, provocò danni notevoli alle sponde e alle mura castellane.
Le sponde lungo la zona di Montalto erano le più colpite, in particolare quella destra dove passava la strada per Città di Castello. I danni più grossi si verificarono nel 1760 quando fu trascinata via dalla corrente una fornace di laterizi del conte Degli Oddi, allora proprietario del castello di Montalto, e un bel pezzo di strada. “La città di Perugia, con l'assistenza del signor Domenico Biglietti, fattore del castellano Degli Oddi, fece nuova strada e costruì nel luogo della corrosione un doppio pennello...”
Ma i danni più pericolosi si verificavano a nord e a sud del ponte della Fratta, proprio lungo le mura castellane.
L’alveo del fiume allora seguiva un percorso leggermente diverso, e a monte del ponte, a causa delle erosioni accumulatesi nel tempo, il Tevere descriveva un'ampia ansa tra i campi, allontanandosi dal tracciato primitivo parallelo alla strada che corrisponde a quello attuale. La corrente delle acque provenienti dalla direzione nord investiva con impeto l'area del ponte e minacciava di scavare un percorso autonomo, tagliando la strada e bypassandolo nella riva destra del fiume. Nel 1758 l'erosione arrivò a soli quindici metri dal tracciato della via tifernate e il rischio sembrava concretizzarsi con lo sfondamento a valle. Fortunatamente il fenomeno si arrestò, altrimenti si sarebbero prodotti seri guai: le difese del castello indebolite, il ponte in secca, la pescaia compromessa e grosse spese per l'adattamento delle infrastrutture urbane al nuovo percorso (molini, pubblico lavatoio, orti e impianto fognario).
Urgeva, pertanto, un serio riordino delle sponde e i primi interventi sistematici ebbero inizio nel 1753. In quell'anno, la Sacra Congregazione delle Acque di Perugia inviò l'ingegnere Antonio Felice Facci in Val di Chiana, allora zona paludosa, per eseguire non meglio precisati rilievi. E dal momento che la Fratta si trovava lungo il percorso, il tecnico ebbe l'incarico di esaminare anche lo stato delle sponde del Tevere intorno al castello. Nel viaggio di andata si fermò per due giorni, prendendo alloggio all'osteria della Staffa (1) a spese del Comune; in quello di ritorno, il 17 febbraio del 1753, si fermò di nuovo per tre giorni, sempre nella stessa locanda e sempre a spese del Comune. Non conosciamo la relazione che l'ingegnere presentò alle Autorità competenti, ma qualcosa di concreto suggerì di sicuro, se agli inizi del 1754 compaiono le prime note di spesa per lavori di una certa consistenza che riguardavano la sponda destra del Tevere, a nord del ponte.
L’accorgimento usato fu quello di rinforzare la sponda con una palizzata di grosse travi conficcate nel terreno e collegate da spessi tavoloni dietro i quali erano stivate pietre e fascine di vetriche. Fu ingegnosamente costruita anche “la mazza” per conficcare le travi nel terreno. Essa consisteva in un castello di assi di legno da cui veniva fatto calare un pesante tronco di quercia, ferrato ai bordi, che andava a colpire la testa del palo. Dopo ogni battuta il tronco veniva issato di nuovo in alto da sei operai che tiravano un robusto canapo avvolto in una carrucola e i colpi si ripetevano fino a quando non erano raggiunte le profondità desiderate. Tutto il legname veniva fornito dai Camaldolesi di Monte Corona.
I costi dei lavori, compresi gli onorari dei tecnici, i viaggi ed i rimborsi spese, raggiunsero livelli elevati e nel 1755 furono imposti dei pedaggi provvisori su ogni essere animato che attraversava il ponte. La tabella dei balzelli fiscali ci è pervenuta e la riportiamo a titolo informativo per i nostri lettori. Sorprende il fatto che pagassero anche le persone con una tariffa equiparata ai maiali, per motivi di peso e non per altro.
Persone, quattrini 3 a testa al giorno
Bestia scarica, quattrini 6
Bestia carica, quattrini 12
Calesse o carro, baiocchi 4
Maiali, quattrini 3 a capo
Pecore, castrati e capre, quattrini 2 a capo
Vaccine, quattrini 6 a capo
Nello stesso anno ci furono visite importanti. Vennero a “riconoscere lo stato dell'erosione, fare la pianta del luogo e controllare i lavori” l'ingegnere del Comune di Perugia, Pietro Carattoli, l'ingegnere della Sacra Congregazione delle Acque, Antonio Felice Facci e un gesuita, certo padre Ippolito Siriani.
I lavori continuarono ininterrottamente per tutto l'anno ed oltre, tanto che il 22 giugno del 1756 arrivò un altro controllo, quello di don Pietro Tassinari. Partito il monsignore, il 10 luglio il Tevere organizzò un'altra rovinosa piena che, oltre a danneggiare le sponde riparate, portò via una buona quantità di tavoloni stivati nel cantiere, recuperati poi a Ponte Felcino.
La piena di luglio fece chiaramente capire che la sola
difesa delle sponde non era sufficiente a prevenire i danni
e intorno alla zona malata si intensificò l'impegno
dell'amministrazione e dei tecnici per soluzioni più radicali,
con una tempestività sorprendente. Nel mese di marzo
del 1758 venne di nuovo alla Fratta l'ingegnere del Comune
di Perugia, Pietro Carattoli, che disegnò una nuova pianta
della zona in cui si prevedeva la costruzione di un canale
artificiale per riportare il corso del fiume nel suo tracciato
primitivo, parallelo alla strada, in modo che a ridosso delle
mura urbane effettuasse un'ansa di 90° sufficiente per
imbrigliare la violenza delle piene. I lavori iniziarono subito
nel mese di maggio e alla fine di giugno erano quasi finiti (2).
L'opera dette l'effetto sperato: non solo alleggerì i luoghi dai danni dell'erosione, ma il fiume cominciò subito a scorrere in maniera stabile e definitiva in quell'alveo che è anche oggi il suo letto naturale. Si verificarono altre piene nel 1773 e nel 1778 che minacciarono la strada tifernate e il molino dei Cistercensi, ma i lavori effettuati limitarono notevolmente i danni.
L'impiego di manodopera fu imponente e coinvolse anche le donne. Il loro compito era quello di reperire le pietre da collocare dentro le “cestelle”, una specie di contenitori di vimini, che venivano usate dagli operai addetti al riparo delle sponde per stabilizzare le scarpate del fiume. Le carte ci dicono che esse erano 19 e percepivano sei baiocchi al giorno, quasi quanto gli uomini. Inoltre era presente un folto gruppo di boscaioli per segare le travi e le tavole, una squadra di funai per lavorare la canapa e intrecciare le funi e le bindelle (robuste fasce di tela), un manipolo di uomini che si occupavano delle stanghe e costoro, con molta probabilità, dovevano essere gli addetti ai pali del castello della mazza, e una serie di altre figure di operai e artigiani come i carrettieri, i muratori, gli spalatori, ecc.
I lavori più urgenti e imponenti per la sistemazione delle sponde e per evitare danni al castello erano sicuramente quelli a nord del ponte, ma anche l'intervento a sud era necessario ed in tal senso, fin dal 1752 (3), furono avanzate reiterate richieste che non sortirono alcun effetto. Nel 1758, ultimati i lavori a nord, ripresero di nuovo le spinte per sistemare il tratto di fiume dal ponte alle Schioppe, la scogliera che allora era detta anche “Punta della Genga” (4). La pratica andò avanti molto a rilento per evidenti contrasti tra il Comune, i frontisti e le Autorità perugine che dovevano concedere l'autorizzazione a procedere, oltre ad un contributo economico. Fin dal 1757 i tre frontisti - i frati del convento di San Francesco, la famiglia Paolucci ed il conte Ranieri di Civitella - avevano provveduto per proprio conto ad arginare le sponde lungo le loro proprietà. Addirittura essi erano disposti ad intervenire in proprio anche nel punto più critico della situazione, cioè allo sbocco della Reggia nel Tevere, con la costruzione di uno “sperone” o “guardiano” in muratura. Il Comune, pur non essendo molto convinto della soluzione, acconsentì perché “a caval donato non si guarda in bocca”, ma Perugia respinse la proposta poiché avrebbe peggiorato la situazione. Anzi la Sacra Congregazione delle Acque contestò anche i lavori di sistemazione delle sponde già effettuati, invitando i frontisti a demolirli. Ne nacque una controversia tecnico-giuridica che durò anni e che ebbe il solo risultato di paralizzare ogni iniziativa fino al 1789, quando ripresero le ostilità. Questa volta si mandarono avanti i periti. Il Comune di Fratta, la città di Perugia ed i frati Camaldolesi (proprietari dei terreni sulla sponda destra del Tevere) scelsero come perito Pietro Casimiro Fagliuoli; il convento di San Francesco, Paolucci e il conte Ranieri incaricarono l'arciprete don Bartolomeo Borghi, grande esperto in materia. Ma anche i periti non trovarono un accordo e decisero di ricorrere all'arbitrato di un professionista di chiara fama, un certo Virgilio Bracci, architetto e ingegnere della Sacra Congregazione del Buon Governo di Roma, che in quei giorni si trovava a Perugia. L’incontro “alla faccia del luogo” avvenne il 25 ottobre del 1789, alla presenza dell'arciprete Borghi e dell'abate Luigi Pacini in rappresentanza del Fagliuoli. Dopo due giorni di discussioni, la disputa si concluse a tavola con il pranzo offerto dai Camaldolesi e fu sottoscritta una transazione. Si trattò di un accordo solo platonico perché gli impegni previsti non vennero mai onorati. Solo due anni dopo, i patti sottoscritti furono ripresi in esame con la decisione di costruire alla foce del Reggia quello sperone di forma triangolare che i saggi frontisti avevano già progettato nel 1757. Ma all'atto di cominciare i lavori, la Congregazione delle Acque di Perugia, ancora allergica agli speroni, fece sapere che non intendeva partecipare alle spese in quanto spettanti solo ai frontisti. Una cosa finalmente si chiarì: se si volevano fare i lavori concordati, i tre proprietari dovevano accollarsi tutte le spese e fu inviato sollecitamente da Perugia l'ingegnere Cristoforo Bartoli per stabilire i confini dei terreni e ripartire le quote.
I ponti
La Fratta era una fortezza completamente circondata dalle acque e i ponti costituivano gli unici strumenti di collegamento e di comunicazione con il territorio circostante. Non solo, ma essendo la campagna d'intorno solcata dal Tevere, dal Reggia e dal Carpina, altri sistemi di attraversamento si rendevano necessari per unire le sponde dei corsi d'acqua e consentire maggiore comodità di spostamento e di traffico nella fertile pianura che percorreva la valle. In alcuni casi, considerati i costi di un ponte, ci si affidava ai barconi traghetto, ma la Fratta era abbastanza fortunata e, nelle sue vicinanze immediate, disponeva di pedaggi sicuri e stabili in muratura o in legno.
Il ponte sul Tevere era un capolavoro di ingegneria, di tecnica e di gusto estetico. Esso poggiava su tre arcate, che costituiscono lo stemma del Comune di Umbertide e, anche dopo l'abbattimento del ponte levatoio della porta Saracina, non aveva perso la sua bellezza e imponenza. Due robuste porte presidiavano i suoi imbocchi e la piccola chiesa del Carmelo, posta sopra il pilone centrale di valle, invitava alla pace e alla preghiera quando sulla strada si andava tutti più piano. L'anno della sua costruzione è da ricercarsi fra il 1571 ed il 1588, dietro volontà della “Compagnia della Madonna della Reggia e Madonna del Ponte”, imprenditrice dei due suddetti cantieri (5).
Un altro ponte, quello sul torrente Reggia
davanti alla Collegiata, ha svolto un ruolo
importante nell'economia del paese. Esso
congiungeva Montone, tutta la piana sottostante
e il Borgo Superiore con il centro della Fratta ed
era aperto anche al traffico pesante degli animali
e dei carri. Le sue condizioni strutturali erano
precarie perché era tutto di legno ad eccezione
delle due testate in muratura su cui poggiavano
le travi. Il passaggio presentava qualche difficoltà
perché il ponticello era stretto e senza sponde
e a più riprese il Reggia aveva il pessimo gusto
di regalarne qualche pezzo al Tevere. Le delibere
di spesa per i lavori di restauro erano
ricorrenti tanto che i1 4 aprile del 1770 il Consiglio Comunale decise di costruirlo ex novo. I lavori furono affidati a Giovanni Tomassini,
uno svizzero di Lugano che abitava a Gubbio, per cento baiocchi.
L’imprenditore era noto alla Fratta perché l'anno precedente aveva ristrutturato la facciata e l'interno della chiesa di San Bernardino con buona soddisfazione di chi aveva commissionato i lavori. Il nuovo ponte, più largo, disponeva di robuste sponde ed era idoneo a sostenere carichi maggiori. Offriva tutti i presupposti di comodità, stabilità e di sicurezza.
Negli ultimi anni del secolo la Magistratura di Fratta varò il progetto per la costruzione di un secondo ponte sul Reggia, quello che doveva congiungere il centro del paese con la Collegiata attraverso una navata della chiesa di San Giovanni. Il ponte sarà costruito nel 1807, ma i primi progetti ed i piani di intervento risalgono al 1794.
Nei dintorni, poi, si trovavano ponticelli secondari, ma egualmente importanti, come il ponte sul fosso di Lazzaro e quello sulla Fonte Santa. Quest'ultimo, rifatto completamente nel 1799.
Più a nord, sulla strada montonese, si trovava un antico ponte sul Carpina costruito fin dal 1294.
A questi ponti esterni al castello vanno aggiunti quelli che univano direttamente la zona entro le mura con l'esterno, come il ponte della Piaggiola, che consentiva di superare il fossato e di accedere alla Porta della Campana, ed il ponte sul Reggia che consentiva l'accesso nel Borgo Inferiore (zona piazza San Francesco).
La Rocca aveva un ponte levatoio che calava sopra il Reggia e la metteva in comunicazione con il prato antistante. Nel 1787 ancora esisteva e veniva usato. Una nota del 3 settembre, firmata del Segretario Comunale Giambattista Burelli, stabiliva: “Si compiacerà il sig. dott. Giuseppe Paolucci Camerlengo di sborsare ad Angelo Gigli paoli quattro per riattamento fatto al ponte levatoio della Rocca, che con ricevuta sono baiocchi quaranta”.
Le mura del Castello
Il sistema di difesa più naturale e spontaneo presso gli antichi era quello di cingere il castello, il villaggio o la città di una robusta cinta di mura. A volte si ricorreva anche ai fossati pieni di acqua, alle palizzate o ad altri accorgimenti simili in modo da frenare l'impeto dei nemici e immobilizzarli davanti all'ostacolo per poterli colpire con maggiore agio e precisione dall'alto. Le mura perciò nacquero con i primi insediamenti urbani e si sono sviluppate e rafforzate con essi, seguendone l'evoluzione storica. In più di un'occasione, in particolare nelle grandi città, le loro cinte successive e concentriche costituiscono documenti evidenti della crescita della popolazione e dell'espansione urbana.
Il castello di Fratta disponeva di una sola cinta di mura, robusta e compatta e la natura
l'aveva, inoltre, dotato della difesa naturale dell'acqua del fiume Tevere e del torrente
Reggia nella zona della sua confluenza nel fratello maggiore. I suoi abitanti avevano
costruito un fossato artificiale nel breve tratto libero dall'acqua, facendo del castello
un isolotto fortificato, con i bordi di pietra, tra i più sicuri della zona per lunghissimi
secoli. La cura della manutenzione e della riparazione delle mura cittadine fu sempre un impegno meticoloso per gli abitanti e gli amministratori di ogni tempo, ben consapevoli che si trattava di un bene prioritario, essenziale per la sopravvivenza della comunità.
Per la Fratta la parte più esposta all'usura della spinta corrosiva delle acque era il tratto lungo il corso del Tevere. In più occasioni aveva subito danni e si era ricorsi ai ripari, ma la piena del 1736 fu particolarmente devastante. Trascinò via 1.600 piedi quadrati di mura e quattro case che vi sorgevano sopra. La perizia, subito predisposta per la riparazione del danno, stabiliva in 1.032 scudi l'ammontare totale delle spese. Si trattava di una cifra elevata cui la comunità locale, da sola, non avrebbe potuto far fronte e ci si rivolse al Papa per la concessione di un contributo straordinario. Clemente XII si dichiarò disposto ad erogare 500 scudi a condizione che agli altri 532 provvedessero gli abitanti. E così fu. Trovati i quattrini, la macchina della ricostruzione si mise in moto con l'acquisto del materiale occorrente e la predisposizione del cantiere. L’appalto dei lavoro toccò a Bartolomeo Ferrati di Roma (6) e la direzione fu affidata a Cesare Francesconi della Fratta. Il 15 settembre del 1739 ebbe inizio il lavoro di scavo delle fondamenta.
Si presentò subito qualche problema di finanziamento perché alla fine dell'anno il Papa non aveva ancora concesso il contributo promesso. I Difensori di Fratta si rivolsero al rappresentante della comunità in Roma, un certo Mariotti, perché facesse da tramite per il disbrigo della pratica. Non sappiamo se la scelta sia stata felice, fatto sta che il Mariotti fece sapere che “... il Papa era in pessimo stato e quasi spedito dai medici”, premurandosi di aggiungere che se fosse morto sarebbe stato più difficile avere il contributo e consigliava di darsi da fare alla svelta, come se presso la Curia romana non esistessero uffici preposti al disbrigo degli impegni assunti, indipendentemente dalla salute del Papa. Il Mariotti di certo non aveva quelle “entrature” che i suoi concittadini gli attribuivano e per cui lo pagavano e suggeriva di chiedere ad altri quello che essi, a buon diritto, avevano chiesto a lui. Capita spesso che quando si ha bisogno di un favore, la persona a cui ci si rivolge, invece di darci una mano, ci sommerge sotto un cumulo di premurosi consigli, per fortuna gratuiti. Una cosa, però, l'azzeccò: Clemente XII morì il 6 febbraio del 1740. Qualche anno dopo, il Mariotti fu sostituito da Giacomo Guadagni, un Abate più autorevole e introdotto che si muoveva con maggiore agilità negli uffici del Quirinale.
Le carte non ci dicono che fine abbia fatto il contributo del Papa che certamente arrivò, altrimenti avremmo trovato tracce di aggravio di imposte negli anni successivi ed inoltre sulle mura ricostruite fu apposta una lapide con la scritta "Clemente XII - Pontefice Massimo – MDCCXXXIX" (1739) che testimonia un intervento economico diretto del Papa.
L'intervento edilizio dette stabilità e sicurezza alle nostre mura proprio in quel tratto dove la spinta della corrente era maggiore, all'inizio della improvvisa sterzata di circa novanta gradi che il Tevere compie prima di passare sotto il ponte.
Il brusco cambio di direzione ci fa intuire la natura del suolo sottostante in quel punto. Il castello di Fratta sorge sopra un resistente zoccolo di conglomerato che costringe il Tevere a deviare in modo quasi innaturale il suo corso. La sua consistenza, oltre che assicurare stabilità al centro urbano e alle sue mura, salvaguarda le costruzioni ed i loro scantinati dalle infiltrazioni di umidità tipiche dei terreni più permeabili.
Gli atti notarili relativi alla vendita di immobili siti lungo le mura, descrivono in maniera precisa le loro caratteristiche e la fascia di terreno limitrofo. Tutte le case con il fronte in Via Diritta, nella parte posteriore confinavano con lo steccato, gli scioiti comunali e le mura. Lo steccato non era aderente alle case, ma discosto da esse per motivi logistici. Tra esso e il retro delle abitazioni correva una fascia di terreno che formava una via o un viottolo. In seguito, nella zona ovest del castello, il viottolo diventerà Via delle Petresche e poi Via Spunta. Lo spazio tra lo steccato e le mura costituiva, invece, lo “scioito comunale”, di proprietà pubblica che, nel lontano passato, venne adibito a scopi militari di difesa. All'inizio del secolo, però, già si incominciò a costruire su questa area, spingendosi fin sopra le mura. Le quattro case che la piena del 1736 demolì ne sono la prova evidente.
Nel grafico che segue sono ricostruite le caratteristiche delle mura castellane. Il disegno è stato eseguito sulla base di quanto afferma il notaio Filippo Maria Savelli, della Fratta, in data 12 marzo 1768 in suo atto notarile relativo alla vendita di una casa.
Note:
1. È l'unico riferimento che abbiamo sull'esistenza di questa locanda. Con molta probabilità si tratta di quella che poi, nel secolo successivo, verrà gestita da Romitelli.
2. In una lettera del 24 giugno 1758 si dice: “...l'opera del nuovo taglio è condotta quasi ad ottimo termine”.
3. Tra il 1752 ed il 1758 furono scritte cinque lettere di sollecito che si trovano alla Biblioteca Augusta di Perugia fra le “carte di Pietro Giacomo Mariotti”.
4. La genga è una roccia calcarea per cui l'espressione è scientificamente più corretta di altre per indicare una scogliera. Essa viene usata nella relazione dell'ingegnere Cristoforo Bartoli del 1791 e in un atto notarile del notaio Giovan Battista Burelli, sempre del 1791.
5. Nel 1571 il Depositario della “Compagnia della Madonna della Reggia (vedi libro Entrate e Spese 1565/1571) e della Madonna del Ponte”, paga alcuni materiali presi per accomodare (preparare) il pilone su cui l'erigenda chiesetta dovrà appoggiare. Nell'anno 1588, un'altra registrazione ci dice che si porta in detta Cappella, un quadro già esistente nella Maestà che era all'inizio del ponte. In quel giorno il Depositario ci ricorda che la Cappella non era stata ancora terminata. Essa non appare, difatti, neanche nel disegno del Piccolpasso, del 1565.
6. Il capomastro muratore romano venne con una squadra formata da due muratori e da due manovali (garzoni). Percepiva in tutto (giornalmente) paoli 14,50 (equivalenti a scudi 1,45, cioè baiocchi 145) da lui ripartiti come segue: baj 75 per lui, baj 25 a ciascun muratore e baj 10 a ciascun garzone, per un totale giornaliero di 145 baiocchi.
Fonti:
“Umbertide nel Secolo XVIII” di Renato Codovini e Roberto Sciurpa – Comune di Umbertide – Gesp, 2003













