storia e memoria
Memorie di Bellarosa Villarini Anna Maria
Memorie di Bellorosa, Villarini Anna Maria di anni 75

MARTEDÌ 25 APRILE 1944. BOMBARDAMENTO DI UMBERTIDE
Umbertide comprendeva allora la parte vecchia (quella che oggi si chiama il "centro storico"), più via Roma, detta anche "le case nove", dove io abitavo al n.16, e che dal paese portava alla Pineta, meta di lunghe passeggiate. Era una
strada costituita da due file di case parallele, una più corta che arrivava all'incrocio di via XX Settembre e conduceva alla stazione e l'altra più lunga, che terminava con la segheria che mio padre, Bellarosa Astorre falegname, aveva costruito con fatica insieme ad altri soci, ed infine con la "bettola" dei Gonfiacani.
Avevo 14 anni e questo era il mio mondo, dove ci conoscevamo tutti ma non più in serenità, perché la guerra, che aveva portato al fronte molti giovani, ci aveva costretto alla fame e alla miseria.
Frequentavo la terza media ma non più nell'edificio specifico, l'attuale scuola elementare di via Garibaldi, perché occupato da un comando tedesco, ma nella sede della Scuola di Avviamento Professionale (ora Centro socio-culturale San Francesco), facendo tempi alternati ed orario di lezioni ridotto. Avevo 14 anni e,
malgrado tutto, vivevo la mia adolescenza spensierata con le mie amiche.
Quella mattina ero andata da una di loro, che abitava all'inizio di via Roma, non mi ricordo per quale ragione, forse per un compito di scuola. Avevo suonato al portone e aspettavo che si affacciasse alla finestra, quando ho sentito e visto
proprio sopra la strada un aereo volare basso e poi un boato. Era iniziato il bombardamento del nostro paese da parte dell'aviazione inglese. Spaventata, sono corsa verso casa mia mentre gli aerei continuavano a bombardare e colpivano la casa degli" Schiopetini", che era subito dietro la strada dove stavo correndo terrorizzata. Arrivai al mio portone e li trovai tutta la mia famiglia che mi aspettava. Insieme andammo per un vicolo che era sul retro della casa e attraverso gli orti verso la “Regghia". Fu allora che io, dimostrando una forma di egoismo che non mi conoscevo, attraversai il torrente e incurante della presenza o meno dei miei familiari (sapevo che mia madre non poteva camminare in fretta), mi sono messa a correre in mezzo a tante altre persone che conoscevo, ma tutte preoccupate solo di essere veloci. Intanto gli aerei continuavano a girarci sopra e avevano cominciato a mitragliare, forse un accampamento tedesco collocato nel “campo boario",nella zona dell' attuale piattaforma Ad un certo punto mi sono sentita afferrare da dietro: era mio padre, che giustamente mi ha dato un calcio nel sedere e mi ha riportato con mia madre Tecla e mia sorella Felicina.

Fig. n. 2: Astorre Bellarosa, poi sindaco di Umbertide nel dopoguerra. Immagine da ASCU.
Ci disperdemmo tutti nei campi vicini al paese, accucciati nell'erba, guardandoci l'un l'altro spaventati, senza quasi dirci una parola. Non sapevamo ancora l'orrendo massacro che era avvenuto in paese, dove il popolare rione San Giovanni era stato distrutto come altre case nei dintorni, con tante vittime.
L'obiettivo del bombardamento era il ponte metallico della ferrovia sul fiume Tevere, che invece non era stato toccato e perciò, il pomeriggio dello stesso, giorno gli aerei sono tornati a compiere l'opera.
Voci filtravano di tanti morti, intere famiglie, tutte composte nella chiesa della Collegiata. Si cercava fra le macerie, ma io di questa parte della tragedia non conosco nulla, solo, dopo lo spavento, i nomi, tutti conosciuti, delle vittime.
E su tutto è caduto un velo nero.
Per la notte abbiamo trovato rifugio, insieme ad altre persone, nel fienile di Violini, un contadino che abitava in un “toppo" sopra al paese, nella zona della Pineta, ora trasformato in una ricca villa con viale.
MARTEDÌ 25 APRILE 1944. BOMBARDAMENTO DI UMBERTIDE
SABATO 24 GIUGNO 1944. RAPPRESAGLIA NAZISTA A SERRA PARTUCCI DI
UMBERTIDE.
Dopo il bombardamento Umbertide si è svuotato.Tutti gli abitanti hanno cercato rifugio presso i contadini delle zone circostanti che, con vero senso di solidarietà, li hanno accolti nelle loro case. Erano case coloniche povere, senza bagno, senza acqua, spesso senza strada se non un sentiero scosceso e sassoso, ma ogni famiglia vi ha trovato la sua sistemazione, anche se precaria. Comunque ci sentivamo più sicuri e riparati dalla guerra che incombeva e precipitava nei suoi ultimi terribili sussulti.
Mio padre Astorre, falegname, aveva come clienti molti contadini e fra questi si è messo d'accordo con uno che abitava alla Serra. Specificamente questa località si chiamava Serra Partucci ed era costituita da una collina con un vecchio castello medievale dove fu poi trasferito, in maniera molto disagevole, ma anche molto utile, l'Ospedale "Istituti Riuniti di Beneficenza", dove vennero ricoverati e curati anche i molti feriti del bombardamento. La famiglia dove noi ci sistemammo aveva per vocabolo, come si usava allora, “I Bianconi", (non ho mai conosciuto il loro cognome anagrafico) ed era composta dal contadino, la moglie, tre figli piccoli, la nonna, un fratello e una sorella, questi ultimi entrambi con problemi mentali che, per quanto loro possibile, aiutavano nel lavoro. In questa famiglia c'era un estraneo, un giovane slavo, un bel ragazzone robusto dal viso gioioso che si chiamava Cernic Domenico. Parlava bene lo slavo, che era la sua lingua, ma anche l'italiano e il tedesco.

Fig. n. 3: Domenico Cernic. Foto da Fabio Mariotti.
Era fuggito dall'esercito nel momento dell' armistizio ma, non potendo raggiungere la sua casa e la sua famiglia a Gorizia, si era ricordato di un amico commilitone che abitava in questa zona e vi aveva fatto riferimento. Mio padre si è ricordato poi che proprio a lui, che era fuori della sua segheria, quello stesso giovane aveva chiesto la strada per andare alla Serra, ed ora si erano fortunosamente rincontrati.
ll contadino ci ha dato come camera un ambiente in casa sua e un capannone che alla meglio sistemammo come cucina. Voglio ricordare che i letti, le sedie, il tavolo e le varie suppellettili necessarie per sopravvivere le abbiamo velocemente caricate su un carro tirato da buoi con il quale "Bianconi" ci era venuto a prendere.
Per me cominciò una vita tutta diversa: prima di tutto conobbi direttamente il valore dell'umanità e dell'amicizia, poi fui presa da quella vita e imparai a falciare, mietere, guidare la "treggia"con i buoi, (carro agricolo senza ruote idoneo a percorrere zone ripide e sassose anche con il fango profondo) con la quale andare a prendere l'acqua, che si trovava solo in una spianata sotto casa. Aiutavo anche la nonna in cucina perché spesso mangiavamo tutti assieme. Ma il centro della compagnia era sempre Domenico, divenuto indispensabile per il lavoro nei campi, ma anche per il lavoro di sarto, che era poi il suo mestiere.
A me piaceva osservare i vari personaggi, e notavo l'andatura in avanti a gambe leggermente divaricate e piegate del contadino Pietro, abituato a lavorare e camminare in zone ripide, la moglie Rosa dal viso sorridente che correva sempre (aveva tanto da fare), molto gradita quando arrivava nei campi dove lavoravano, con una grande cesta in testa con torta, erba, talvolta prosciutto, vino e acqua, Berto, il fratello molto rallentato, che si dedicava soprattutto alle stalle, e Lalla, la sorella, che non riusciva nemmeno a parlare e faceva, a modo suo, le pulizie di casa, mentre la nonna Natalina si arrangiava in cucina. Poi c'era sempre Domenico che, oltre a lavorare molto, trovava anche il tempo di giocare con me e i tre bambini piccoli: facevamo le corse in una stradina in discesa che portava al piccolo cimitero, facevamo a gara nel salire sugli alberi, coglievamo le ciliege che, poi, ci rubavamo l'un l'altro. Da alcuni giorni erano arrivati anche due fratelli di Domenico, Daniele e Luigi che, saputo il luogo dove si era rifugiato, erano venuti per aiutarlo. Anche loro trovarono ospitalità, Daniele in casa di “Biancone", Luigi da un contadino vicino, in cambio della loro volonterosa prestazione di lavoro, sempre in attesa di una situazione che permettesse loro di tornare tutti a casa.
Gli eventi poi precipitarono: ci furono due bombardamenti per colpire la ferrovia Appennino, il trenino che portava a Gubbio, durante i quali gli aerei facevano la "picchiata" partendo proprio dalla Serra (ne vedevamo i piloti dentro le cabine) per colpire anche la stazioncina, che noi dall'alto vedevamo come una piccola scatolina. Spaventati, costruimmo delle buche nelle greppate che ritenevamo più riparate, come rifugi. Cominciarono a transitare i tedeschi, che si appropriavano del bestiame (hanno costretto mio padre a scuoiare un vitello che loro avevano ammazzato) finché arrivò un comando che si insediò nel capannone da noi usato come cucina e noi fummo costretti a sloggiare. Ci trasferimmo nella casa del parroco Don Giuseppe Filippi, perché la chiesa era nello stesso spiazzo della casa dove noi stavamo. Qui ci ritrovammo in parecchie famiglie, forse una ventina di persone, perché i tedeschi stavano invadendo la zona. Eravamo tutti spaventati, ma riuscivamo a convivere nel ristretto spazio a disposizione.
Mi ricordo che un giorno vennero, nella casa del prete dove alloggiavamo, un drappello di tedeschi, e poiché si sapeva di violenze e di stupri noi donne ci chiudemmo in un locale superiore. Ascoltavamo attente l'evolversi della situazione. Quel parlare duro e gutturale mi dava un'angoscia tremenda che involontariamente tutt'oggi provo quando sento parlare questa lingua.
Poi sentimmo Natalino Villarini e Gaetano Fronduti, mariti e padri del nostro gruppo, che cantavano pezzi d'opera e i tedeschi che ridevano e applaudivano: cosi riuscirono a distrarli e rabbonirli.
Non ricordo bene dove fossi di preciso il giorno sabato 24 giugno, ma solo che ho sentito per prima i tedeschi che erano entrati nella casa del prete e detti l'allarme.
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Non portai alcun aiuto perché in pochi secondi passarono tutti gli ambienti e ci costrinsero ad uscire nello spiazzo antistante. Ci hanno ammucchiato a ridosso del pozzo che era (ed è tutt'ora) in un lato ed eravamo tutti li, uomini, donne, bambini, anziani. C'erano anche due giovani contadini che tornando a casa nella vallata si sono trovati li per caso. I tedeschi avevano lasciato in casa del prete solo Emma, la moglie di Natalino, che era in gravidanza molto avanzata, e Natalina nella casa del contadino, perché molto vecchia. C'erano quattro piccole strade, meglio dire sentieri, che portavano allo spiazzo dove eravamo raggruppati e in ognuna di queste c'era piazzato un soldato con il mitra. In quel momento io non ebbi la piena consapevolezza di ciò che stava accadendo, sentivo però che eravamo in un grave, oscuro pericolo.
Sul mezzo si mise un ufficiale con ai lati altri soldati con le armi in pugno. Aveva dei piccoli occhiali dorati, sguardo freddo, capelli biondi. Quel viso con la sua espressione gelida è incancellabile nella mia memoria fin nei minimi particolari.
Cominciò a parlare in un italiano stentato. Capivo solo alcune parole, ma non il filo del discorso fino a che disse, e questo lo capii, che uno di noi doveva andare con loro.
Passò con lo sguardo tutti noi quindi si fermò, alzò il braccio e con l'indice fece il cenno di richiamo. Io guardavo e ho visto mio padre, che era davanti a Domenico, fare un passo avanti chiedendo. "lo?". Domenico, che era intelligente e per di più conosceva bene i tedeschi e la loro lingua, gli mise una mano sulla spalla e con voce chiara che tutti abbiamo sentito, gli ha detto: " No Bellarosa, è per me". Certo che quelle SS naziste, la cui identità specifica a me era sconosciuta, (per me i tedeschi erano tutti ugualmente cattivi) avevano scelto nel mucchio il migliore come vittima privilegiata. Si sentiva un silenzio pesante composto dal terrore di ognuno di noi. Domenico era in maniche di camicia perché stava lavorando. Avanzò fino a giungere davanti all'ufficiale e gli chiese se poteva andare in casa a prendere la giacca. Gli fu consentito e sparì dalla nostra visuale perché la scala esterna era dall'altro lato. Dopo pochi secondi riapparve e con il braccio che infilava ancora la manica ci ha fatto un ampio gesto di saluto. Questa immagine è impressa nella mia memoria come l'istantanea di un fotogramma, precisa in ogni particolare e fissata per sempre.
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Spesso sono dovuta tornare sul posto e, malgrado la scena sia cambiata perché la casa colonica è in disfacimento e la chiesa chiusa e abbandonata, rivedo quel viso giovane e aperto che ci saluta. Lui sapeva quello che lo aspettava, perché quando è andato in casa a prendere la giacca, alla vecchia Natalina ha consegnato l'orologio da polso e il portafoglio dicendole di darli ai suoi fratelli Luigi e Daniele che erano rimasti insieme a noi nel gruppo. Alle rimostranze della donna che gli chiedeva il perché di quel gesto, rispose."Natalina addio. Mi ammazzano." Questo tragico particolare lo abbiamo saputo dopo che i tedeschi sono andati via, sparendo in una "greppata" proprio sotto il Castello e portandosi via Domenico.
Per alcuni secondi rimanemmo tutti in silenzio, immobili. Poi cominciammo a parlare sottovoce dicendo frasi inutili e sconnesse per la paura, mentre i due fratelli si disperavano. Passarono solo pochi minuti, poi sentimmo il fragore di una mitragliata e capimmo subito ciò che era avvenuto. L'incognita del cosa, del come, del dove fosse stato fatto si espresse nei visi che si guardavano attoniti.
Fig. n. 4: il video dei colpi della fucilazione impressi nel muro a Serra Partucci.
Fu mio padre che per primo prese l'iniziativa di “andare a vedere", e chiese aiuto al parroco che per la sua missione accettò, mentre gli altri, spaventati, non fiatarono. Solo Gaetano si fece avanti, ma disse che era pericoloso e propose di chiedere aiuto al comando tedesco installato nel capannone vicino (che però
durante l'operazione non si era visto per niente). Andarono e quando tornarono dissero che erano stati comprensivi e che avevano scritto un permesso di movimento, ma che avevano anche aggiunto fosse di poco valore di fronte a quel reparto speciale di SS, indipendente da ogni comando e libero di agire senza alcun condizionamento. Comunque andarono e dopo poco tempo tornarono inorriditi dicendo di aver trovato i corpi martoriati dai colpi di cinque giovani, fra cui Domenico, a ridosso di un piccolo capanno vicino alla casa colonica dei "Centovalle". Chiusi in casa, urlanti, avevano trovato tutta la famiglia, tra cui la moglie con due figlie piccole di uno degli uccisi. Mio padre ha detto che nel piccolo fossato che era proprio lungo quel muro maledetto scorreva copioso, come un piccolo ruscello, il sangue di quelle cinque giovani vittime innocenti.
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Particolare che dimostra la ferocia crudele e inumana di quei soldati è l'aver messo al muro due fratelli, di cui uno diciassettenne, della famiglia dei Radicchi, un giovane maestro del paese che conoscevo e che sfortunatamente si trovava per strada su un carro di buoi per trasferirsi dalla zona di Pierantonio, dove era sfollato con la sua famiglia, in una zona più sicura per salvarsi dai continui rastrellamenti, e due fratelli della famiglia dei"Centovalle". Secondo la loro macabra contabilità il conto era chiuso: cinque giovani italiani erano li pronti a pagare il ferimento di un soldato tedesco. Questa motivazione l'ho saputa dopo, ma l'ufficiale ce lo aveva già spiegato nel suo parlare iniziale ed era una regola applicata "normalmente" dalle SS: un morto tedesco valeva dieci vite italiane, un ferito valeva cinque vite italiane.
Infatti tanti ne avevano messi al muro per un loro ferito, ma poi si accorsero che uno di questi, Quinto dei fratelli Centovalle, era senza una mano perché invalido per un incidente avuto con il trincia-erba e perciò non lo ritennero"abile" a far parte dei cinque. Comunque lo lasciarono li in fila, in attesa insieme agli altri, come riserva se non avessero trovato di meglio, mentre un drappello di loro venne a cercare il quinto “sano" e lo trovarono da noi, intero e robusto: Domenico.
Quello che avvenne poi per me è solo un susseguirsi di fatti raccontati, non visti e poco ascoltati perché tutto di me, anima e corpo, rifiutava quella orribile realtà.
So che gli uomini della nostra spaurita comunità andarono con una "treggia” tirata dai buoi e che con questa trasportarono i corpi nella chiesetta del piccolo cimitero li vicino. So che fecero cinque fosse e con delle protezioni di assi di legno (non so dove le abbiano potute trovare) li seppellirono, uguali nel destino, distinti solo dai nomi scritti su dei cartoncini.
Era finita la mia innocente serenità di adolescente.
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Fig. n. 5: Anni '50 ad Umbertide. una "treggia" trainata dai buoi. Immagine da Fabio Mariotti "ASCU".


Fig: n. 6: I visi delle 5 vittime della Rappresaglia, da Mario Tosti, "Cinque cipressi. 24 giugno 1944: rappresaglia a Serra Partucci"., edito da Gruppo Editoriale Locale, 2014.
Desidero continuare per raccontare un ultimo episodio che segnò la mia famiglia.
Mio padre quasi ogni settimana andava, logicamente a piedi, in paese per vedere la situazione e controllare ciò che rappresentava tutto ciò che avevamo: la sua segheria e la nostra casa. Un mattino guardavamo il paese dall'alto dove eravamo, e notammo un grande fumo che si alzava verso il cielo. Mio padre disse subito:"Brucia la mia segheria!" lo non riuscii a capire come avesse localizzato l'incendio da cosi lontano, ma era vero. Solo quella struttura fu bruciata completamente, con tutte le macchine che c'erano dentro, frutto del duro lavoro di mio padre e del socio Riego Maccarelli.(Ricordo che mio padre, stanco e coperto di segatura, dopo pranzato si sdraiava in cucina sopra una coperta, per terra e cosi riposava qualche minuto prima di tornare al lavoro). Ora si trovava senza più niente, e non aveva più l'età per ricominciare. Cosi sono stati colpiti intenzionalmente due antifascisti che avevano sempre lottato per la libertà malgrado i pestaggi, gli inseguimenti con colpi di rivoltella, il carcere e le torture cui li sottoposero i fascisti.
… Continuarono fucilazioni di giovani, incendi di case con dentro intere famiglie, e violenze di ogni genere.
Poi tutto ebbe fine. Ci fu la liberazione e tornammo in un paese desolato, distrutto, ciascuno con la propria tragedia.
Noi lasciammo con amarezza i “Bianconi" e quel luogo cosi bello e cosi amico.
Mia sorella Felicina pianse. Ma dovevamo andare avanti, malgrado tutto. E cosi fu.
Raccontare questo tragico passato pensavo mi avrebbe dato angoscia, invece mi sono sentita sollevata perché le mie parole hanno fatto rivivere tante persone da non dimenticare. Alla mia età e con la mia esperienza credo fermamente che gli uomini, tutti gli uomini di ogni paese e di ogni razza, per progredire e distribuire
equamente giustizia debbano fermare ogni tipo di guerra, che sempre uccide e distrugge, per creare un'unica, grande Pace che comprenda tutto il mondo e tutta
I'umanità.
E' un sogno, ma un sogno possibile.
15 maggio 2005
Fonti:
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- Testo autobiografico della direttrice Anna Maria Bellarosa Villarini, pubblicata con il permesso del figlio, il prof. Carlo Villarini.
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- Immagine di Anna Maria Bellarosa Villarini sul tetto del suo terrazzo in Via Roma all'Archivio della famiglia Villarini.
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- Immagini da Fabio Mariotti e A.S.C.U. (Archivio storico comunale di Umbertide). Qui la contestualizzazione dell'eccidio fatta da Fabio Mariotti con lo scenario del fronte sul nostro sito: https://umbertidestoria.net/i-percorsi-della-memoria#larappresagliadiserrapartucci
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- Immagine delle cinque vittime di Serra Partucci da Mario Tosti, "Cinque cipressi. 24 giugno 1944: rappresaglia a Serra Partucci"., edito da Gruppo editoriale locae, 2014. Questa opera presenta una ricostruzione degli eventi accurata e, all'interno sono presenti anche i ricordi di Anna Maria Bellarosa Villarini.