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1915 – ARRIVA L’ELETTRICITA’ AD UMBERTIDE

Dalla candela alla lampadina

di Amedeo Massetti e Mario Tosti


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

 

 

 

Al lume di fiamma

Nel XIX secolo il girar di notte alla Fratta non era per niente semplice, specialmente quando non c’era la luna. I nostri avi si preoccuparono di stabilirne le regole nello Statuto di Fratta.

“Stabiliamo e ordiniamo che nessuna persona debba andare di notte tempo per il castello da dopo il terzo cenno della campana suonata dal banditore del Comune, ad un ora dopo il tramonto per il tempo in cui si recita un miserere, a pena di 10 soldi per ciascuna persona e ciascuna volta.

Sono esclusi dalla pena quelli che portassero lumi o tizzoni accesi nelle vicinanze di casa o di bottega; oppure i medici o altri che portassero farmaci per infermi o che andassero a cercare l’ostetrica; o anche i fornai o chi portasse o riportasse il pane dal forno; o per altre cause legittime approvate dal podestà.

È escluso dalla pena anche chi fosse trovato dal podestà o dalle guardie segrete con il lume o il tizzone che si fosse spento contro la propria volontà, per il vento o per altro accidente, purché sotto giuramento.”

Siccome non era molto comodo per ciascuno portare a spasso la propria torcia, dopo qualche secolo si convenne di istallare dei lampioni notturni fissi nei luoghi più frequentati del centro storico di Fratta.

Solo quattro o cinque fanali ad olio rischiaravano le tenebre dei vicoli nei primi anni del XIX secolo, come guardiani scrupolosi e attenti che sorvegliavano l'intimità familiare ed ammantavano di morbida e soffusa luce i profili delle case. Ma anche loro si spegnevano presto e rimanevano accesi i flebili lumi delle poche icone, incassate nei muri, che la pietà dei fedeli ogni tanto accendeva.

Nell'anno 1845 le notti frattigiane erano illuminate da soli sette lampioni ad olio. Uno di essi, quello della piazza dell'Orologio, era più grande degli altri, con un tubo di cristallo "più moderno"; faceva più luce e consumava più olio. Secondo l'addetto all'illuminazione, richiedeva più lavoro di tutti gli altri messi insieme... L'alone di flebile luce diffuso dalle fiammelle dovrebbe aver creato un'atmosfera serena e romantica. Meno romantico era il lavoro di manutenzione, poiché l'Appaltatore doveva “preparare i lampioni, accenderli e smorzarli col mezzo di salirvi mediante una scala la qual cosa, essendo contraria alle sane leggi di Polizia, riusciva di peso allo stesso Appaltatore … Il tutto per 62 scudi all'anno.”


 

 


 


 


 


 


 


 


 


 

 

 

 

 

 

 

Alla fine del secolo si contavano 28 lampioni, però anche il paese era cresciuto e la luminosità era rimasta molto fioca. Rimanevano accesi tutta la notte solo nei giorni di festa o di pericolo; alle prime luci dell'alba, l'addetto ai lampioni faceva il giro per spegnerli in modo da risparmiare l'olio, che era a suo carico.

L’arrivo dell’elettricità

Con Perugia, Sansepolcro e Città di Castello gaudenti da qualche anno alla luce delle lampadine, Umbertide non poteva permettersi di rimanere al buio. Si incominciò a parlare di questa necessità nell'anno 1912: anima dell’iniziativa fu Francesco Andreani, avvocato di grande valore, eletto sindaco di Umbertide dopo le elezioni del 30 gennaio 1910, che determinarono una svolta epocale nel Comune.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era stato fatto uno studio preliminare, verosimilmente ispirato ai 39 lampioni a petrolio al momento esistenti: forse per la preoccupazione dei costi della nuova fonte di luce, si era cercato di non fare un passo più lungo della gamba, ipotizzando l’installazione di 35 lampade.

Cammin facendo l’appetito aumentò: le lampade originalmente previste salirono al triplo, come risulta dalla seduta del Consiglio Comunale del 24 luglio 1912, che rappresentò il primo atto formale verso l’obiettivo dell’illuminazione elettrica. Pertanto l’intero canone a carico del Comune si gonfiò fino a £ 4.000, considerato dagli amministratori non troppo gravoso, in confronto ai grandi benefici per il paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo tre anni di peripezie, il 21 dicembre 1915, con la prima guerra mondiale in corso, la Società Anonima Elettricità Umbra fece arrivare l’energia elettrica ad Umbertide. Il prezzo della corrente per i privati era quello praticato nella città di Perugia dalla stessa Concessionaria: 60 centesimi al kWh, quando il guadagno medio orario di un operaio era di 25 centesimi. Alla fine, furono 104 i punti luce chiamati a rischiarare le notti dei nostri nonni e bisnonni.

Se, all’inizio, la nuova forma di energia fu accolta con stupore ed eccitazione, presto le carenze del rivoluzionario servizio intiepidirono gli entusiasmi , che si trasformarono ovunque in vivaci proteste del pubblico e l’ironia della stampa. Anche gli umbertidesi sfoderarono forti lagnanze, cosicché il 9 agosto 1916 il sindaco fu costretto a prendere carta e penna per battere i pugni sul tavolo del gestore, con toni quasi poetici: “Si è rilevato, e il pubblico ne esprime lagnanze, che da qualche tempo l’accensione della pubblica illuminazione si effettua la sera ad oscurità inoltrata e lo spegnimento innanzi che il chiarore dell’alba siasi manifestato. Per quanto l’espressione del contratto sull’ora di accensione e spegnimento sia un po’ vaga, prego tuttavia la S.V. Ill. di disporre che tale espressione non sia interpretata in modo restrittivamente unilaterale dai dipendenti della Società ma con criterio di equa larghezza. Confidando, La ringrazio ed ossequio.”.

La Società, dopo una settimana, rispose sbrigativamente che l’orario era uguale per tutti gli altri Comuni, compreso quello di Perugia, e che nessuno si era lamentato. Lasciò comunque uno spiraglio aperto, proponendo un abboccamento del Direttore. E il Sindaco dovette abboccare, senza risultati.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


 


 


 


 


 


 

L’ energia elettrica in ogni casa

Nel 1931 la Società Anonima Elettricità Umbra fu assorbita dall’U.N.E.S, che subentrò nel servizio a Umbertide, con il cabinista Armando Settembre, aiutato da Romeo Guasticchi e Mariano Manuali.

Con le crescenti possibilità offerte dall'elettricità, il Comune sviluppò le capacità per costruire e gestire nuovi impianti. In questo compito l'ingegner Egino Villarini svolse un ruolo fondamentale. Infatti, per aver fatto parte, come segretario, del Comitato di liberazione Nazionale, era ben noto ed apprezzato in Comune; quindi fu naturale che nei primi anni del dopoguerra fosse richiesta ed ottenuta la sua collaborazione. L'occasione nacque quando l'allora responsabile del settore manutenzione, Mario Tacconi, gli chiese di esaminare alcuni preventivi per l'ammodernamento degli impianti di illuminazione pubblica di Via Roma e di via Garibaldi. Risultò subito evidente quanto i prezzi fossero esagerati ; dunque sarebbe stato molto più vantaggioso realizzare i lavori in economia, con i mezzi e il personale dell'ente, evitando gli appalti.


 


 


 


 


 


 


 


 

 


 


Nacque da allora un rapporto di collaborazione che sarebbe durato fino alla fine del secolo ed oltre. L'ingegnere, eseguiti i calcoli, si occupò dell’ approvvigionamento dei materiali, ottenendo prezzi di favore grazie ai contatti che già aveva con i fornitori. Ma per realizzare i collegamenti era necessario un collaboratore che si occupasse dei lavori manuali. La scelta cadde su Giuseppe Tarragoni, ex sarto, allora in organico nel Comune di Umbertide come stradino. Da quel momento la coppia divenne inseparabile. Sistemate via Roma e via Garibaldi, furono ammodernate anche via Cibo, via Soli, piazza Marconi, parte del centro storico e altro ancora. Giuseppe imparò in fretta e bene, arrivando ad essere inserito in organico come elettricista.

L’elettricità accelerò il passaggio dal vecchio al nuovo: il simbolo della transizione può essere ben rappresentato dalle elettropompe che l’ingegner Villarini montò sulle tregge di un possidente terriero, insieme alle cabine di legno per i quadri elettrici, in modo da poter fare la spola da un punto all’altro del Tevere per irrigare i campi.

La collaborazione dell'ingegner Villarini con il Comune, durata più di trent’anni anni, si è conclusa con il sollevamento delle acque a Monte Acuto. Raggiunta la massima vetta, è arrivato il tempo del meritato riposo.


CAINO, il traghettatore dai lampioni a petrolio ai fanali elettrici

Giuseppe Bettoni, detto Caino,faceva l’arrotino. Per arrotondare aveva accettato l'incarico dal Comune di accendere e spegnere i lampioni. Per svolgere la sua funzione Caino la mattina a buon'ora girava per le vie e, vuoi per quello spirito canzonatorio che l'animava, vuoi per non sentirsi solo del tutto, amava chiamare i conoscenti che abitavano nelle vie in cui passava. Così gridava: "Gigia! Sta a letto che nengue!" oppure "Gente, alzative ‘ché c'è 'l sole", anche se non era vero. Insomma, era precursore del servizio meteorologico, ma con sorpresa.


 


 


 


 


 


 


 


 


 

 

 

 

 

 

 

Con l’arrivo dell’elettricità, il ruolo di dispensatore di luce tramite una leva, gli ha consentito di guadagnarsi notorietà imperitura in paese. Infatti, quando andava via la luce, simultaneamente il pensiero di tutti andava a lui, il solo in grado di fare il miracolo: fiat lux! Bastava qualche minuto di buio perché dentro ogni casa si intonasse la comune implorazione: “Caino, ardà la luce!”. E se il tempo si prolungava, i commenti si propagavano da finestra a finestra: “Che fa stasera Caino! Dorme?”, “Sta a vedé, che se trastulla con la Martina (la moglie)!”.

Il frequente miracolo del buio sconfitto, grazie al suo intervento sull’interruttore generale posto sulla parete esterna del Municipio in Via Grilli, gli aveva fatto meritare un refrain popolare che lo immaginava vagante fra gli astri del firmamento in gara con i suoi lampioni a rischiarar la notte: “Vedo la luna / vedo le stelle / vedo Caino / che fa le frittelle”.

‘L CUCCO

Raffaele Bracalenti, noto solo come ‘l Cucco, si è realizzato fra la forgia e l’incudine nell’antro oscuro dell’officina comunale di Via Soli. Particolarmente devoto all’autarchia, forse per inconsapevole plagio subito durante la dittatura, aveva perfino costruito, rifiutandosi di comprarlo in negozio, un ombrello con un cappello di lamiera formato a cono con il martello e fissato sul vertice ad un tubo per l’acqua da tre quarti di pollice. E guai a chi lo giudicava scomodo!

Ma che c’entra un fabbro con l’elettricità? La verità è che il Cucco aveva una particolare passione per le lampadine, soprattutto per quelle fulminate, che considerava miniera preziosa di ottone, a chilometri zero. Per sfruttarla, aveva messo in piedi una procedura rigorosa, basata su un patto d’ottone con l’addetto alla manutenzione: non buttar via le lampadine rotte, ma riconsegnarle in officina, condizione imprescindibile per averne in cambio altrettante nuove. Non si sa che fine facesse il vetro; ma immancabilmente ogni culo delle lampade vecchie finiva in un cesto che, raggiunto il lotto ottimale per la fusione, era svuotato nel crogiuolo sopra la forgia. La massa fusa era colata in uno stampo di gesso in modo da raffreddarsi in forma di tubo, da cui Raffaele, dopo una giornata di lavoro, sfornava un rubinetto per l’acqua delle fontanelle pubbliche. Due piccioni con una fava: crematore di lampadine e produttore di rubinetti!


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

 


ZUMBOLA

La riscossione delle bollette non poteva non essere affidata a Gino Sonaglia, detto Zumbola, che aveva tutti i requisiti ideali. Infatti, con il suo curriculum di raccoglitore di pelli di coniglio ed agnello conosceva tutti i capifamiglia della periferia e della campagna; con la gente del capoluogo, essendo amico di tutti, ne conosceva storie e residenze; per di più non mancava a nessuna festa da ballo, occasione preziosa per conoscere la gioventù. Nel 1953, l’UNES colse al volo la sua candidatura come public relation ideale. Alla conoscenza della clientela e alla capacità di prenderla per il verso del pelo, aggiungeva la dote naturale di uno sguardo sorridente, rafforzato da baffetti intriganti: avanguardia di un carattere gioviale e espansivo che catturava amicizia. Zumbola era quanto di meglio per affrontare con leggerezza l’ingrata incombenza di chiedere soldi per una cosa che non si mangia, come la luce, anche a chi non aveva il becco di un quattrino. Gino contraccambiò la fiducia con il massimo impegno. La procedura di riscossione iniziava in famiglia, dove la moglie Elvira ed i figli Luciana e Zumbolino jr provvedevano a smazzare le bollette sopra la tavola della cucina, per raggrupparle in ordine di via, frazione, vocaboli di campagna. Con la borsa in spalla Gino affrontava il giro, ogni mese per le aziende, ogni due per le famiglie. Per prendere con cautela i debitori, preparandoli al salasso, non suonava il campanello o al battente della porta, ma si annunciava da lontano con la sua voce possente, intercalata da fischi che rompevano i timpani, cantandone con metrica allegra il nome.

 

 

 

Dal "Calendario di Umbertide 2015"

Ed. Comune di Umbertide – 2015

Ideazione e progetto editoriale: Adriano Bottaccioli

Testi: Adriano Bottaccioli, Mario Tosti,

Amedeo Massetti, Fabio Mariotti.

I testi di questa pagina sono estratti dal libro:

“Dalla candela alla lampadina” di Amedeo Massetti e Mario Tosti,

Gruppo Editoriale Locale - Digital Editor srl - Umbertide (Pg),

contenente anche spunti tratti dal libro “Umbertide nel secolo XIX”

di Renato Codovini e Roberto Sciurpa - Gesp Editrice, Città di Castello, 2001.

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