storia e memoria

Le lavandaie umbertidesi
di Federico Ciarabelli
Una storia dalle immagini
La lavandaia è stata un'attività svolta comunemente anche a Umbertide. Essa ha riguardato una numerosa e significativa comunità di donne che l’hanno svolta per incrementare le entrate della famiglia. Il ricordo di questo faticoso lavoro ha lasciato nella memoria locale un'impronta marcata.
Quella attività era fondamentale per far fronte alle esigenze famigliari: si consideri che fino a non molti decenni fa la povertà e il bisogno erano molto diffusi e sovente il lavoro delle lavandaie (ma non solo quello) veniva compensato con prodotti da mangiare.
Le attività delle lavandaie sono documentate anche nell’ambito degli obblighi previsti nella mezzadria (1): nella tenuta del castello di Ascagnano, per esempio, questa regola era vigente e le donne delle famiglie contadine che lavoravano quei poderi, a turno, svolgevano questo compito (2). Il lavoro della lavandaia ovviamente si svolgeva durante tutto l'anno, anche in pieno inverno, purché le condizioni del corso d'acqua (o delle altre risorse idriche dedicate a questo scopo) lo consentisse. Mia nonna Maria, che viveva in una famiglia di umili condizioni, mi raccontava che spesso, in inverno, quando le commissionavano il lavaggio dei panni, era costretta a rompere il ghiaccio che si era formato sull’acqua. Nonostante questo lei in quelle occasioni era contenta, diceva, perché poteva così ricevere in cambio del lavoro qualche cosa da mangiare. Per tradizione l'attività del bucato non si svolgeva solo il Mercoledì delle Ceneri (3).
Fino a qualche decennio fa, lungo le sponde del Tevere in prossimità del ponte, si potevano vedere ancora le tracce materiali lasciate da queste donne: alcune delle pietre poste sulla sponda del fiume su cui venivano svolte alcune fasi del bucato erano ancora in situ, in ricordo delle fatiche consumatesi lì sopra (4). Quelle pietre erano dei relitti di un ben più vasto schieramento: come si vede nella Figura 1, molto nota a livello locale, le donne al lavoro sono molte, ma molte di più sono le pietre collocate sulla riva (Figura 1 Bis) . Era costume che ogni lavandaia avesse la propria pietra e lavasse i panni sempre su quella.


Il lavoro della lavandaia, come si descriverà più avanti con maggiore dettaglio, era organizzato e strutturato in processi sequenziali e cadenzati nel tempo e anche l'area di lavoro, sia per la parte che si svolgeva a casa sia per la parte sul fiume, era opportunamente organizzata. Le donne inoltre disponevano di strumenti di lavoro dedicati. Per esempio, sempre nella Figura 1 si può notare che l'area destinata alle operazioni di risciacquo del bucato lungo il fiume era ben congegnata: la donna, china sulla pietra, stava al livello della sponda e a ridosso dell’acqua, ma disponeva del sufficiente spazio per tenere vicino la cesta con i panni; altre ceste ricolme erano poste alle loro spalle, su un piano leggermente rialzato.
Sul pitriccio (5), in un punto pianeggiante, si stendevano i panni di grandi dimensioni ad asciugare. Come detto la Figura 1 è certamente un'immagine nota, va sottolineato che esse non è a atto l'unica. Nelle immagini destinate alla diffusione pubblica, o comunque non limitata alla sola fruizione personale o domestica, si trovano altri riferimenti alle lavandaie, a testimonianza della loro significativa attività nell'ambito della società locale.


Le più antiche illustrazioni di cui disponiamo (almeno fino a questo momento) sono costituite da due dettagli ben evidenti presenti nei quadri di Ernesto Freguglia (Sabbionello di Copparo, nel Comune di Ferrara, 20 dicembre 1825 - Umbertide, 31 dicembre 1899). Questi, trasferitosi a Umbertide nel 1874, realizzò alcune opere riproducenti scorci del paese e del territorio. In uno si vede il Tevere nei pressi della Badia di Montecorona (Figura 2) e in un altro il fiume presso Umbertide, (zona del Mulinaccio, Figura 3); in entrambi il pittore ha raffigurato le lavandaie all'opera, rappresentate per mostrare emblematicamente alcuni tra i lavori e funzioni che caratterizzavano, per l'autore, la vita locale.

Un'altra immagine è contenuta in una cartolina che riproduce il Tevere, il ponte della ferrovia Appennino e le prime case del paese ripresa prima del 1938 (Figura 4). Altre donne potevano contare, per il trasporto delle ceste e dei panni, su piccoli carretti che venivano condotti in prossimità della sponda del fiume (Figure 5 e 6).


Accesso al Tevere
Le lavandaie che abitavano nel borgo di Umbertide (già Fratta) avevano individuato le sponde immediatamente a valle del ponte ferroviario sul Tevere come luogo principale dove svolgere la loro attività.
Questa circostanza ha reso possibile la documentazione fotografica della loro attività e queste immagini sono giunta a noi sotto forma di cartoline illustrate. Grazie a queste è stato possibile documentare il percorso che le conduceva la fiume.
Le lavandaie che si posizionavano sulla sponda sinistra uscivano dal borgo da via Cibo (detto anche Corso) e attraversata la ferrovia passavano sul ponte della Reggia e quindi scendevano per le scalette ad esse addossate (Figura 7, in anni successivi ne è stata realizzata una diversa).

Le altre che usavano lavare sulla sponda destra (questa era la zona preferita, come si può vedere dalla numerosità delle pietra inquadrate nella Figura 1) accedevano percorrendo tutto il ponte stradale o ferroviario (Figura 8) e quindi scendevano per un breve sentiero (Figura 9) e raggiungevano il corso d'acqua. Se avevano carretti con carichi consistenti, percorso il ponte sul Tevere, continuavano fino all'incrocio con la strada che porta a Montecorona e, presa questa, dopo pochi metri imboccavano il sentiero che costeggiava il terrapieno ferroviario fino a raggiungere la sponda fluviale.


Lungo questo commino era consuetudine mettere ad asciugare i panni lavati, come si può vedere nella Figura 10 e 10 Bis.


Il lavoro è descritto in una pubblicazione realizzata da Edda Corgnolini nel 2004 (6). Le famiglie benestanti umbertidesi avevano delle lavandaie di fiducia che, periodicamente, passavano nelle case a ritirare la biancheria sporca e a riconsegnare quella pulita e asciutta.
Le operazioni di lavaggio prevedevano varie fasi. Si iniziava disponendo accuratamente i tessuti asciutti ancora da lavare in un'ascina (detta anche scina), recipiente di coccio dotato di un foro con beccuccio posto in basso. Completata la disposizione dei panni da lavare, si collocava sopra di essi un telo pulito (tipicamente se ne utilizzava uno ricavato dai sacchi) che veniva detto ceneraccio, a sua volta ricoperto da un abbondante strato di cenere di legno. Su tutto questo veniva quindi versata acqua bollente, continuando fino a che non si vedeva uscire dal beccuccio in basso il ranno. A questo punto tutta la biancheria era imbevuta e si lasciava a raffreddare.
Una volta raffreddata, la biancheria veniva estratta dall'ascina e torta, cioè strizzata per far uscire il liquido trattenuto dalle fibre. Quindi si disponeva nelle canestre pronta per essere portata al risciacquo al Tevere. Qui ogni capo veniva ripassato in acqua corrente (insaponandolo prima, per chi disponeva del sapone), battuto e premuto su una pietra liscia fino alla completa pulizia.
In inverno la fase del risciacquo era particolarmente dolorosa. Le mani, tenute a lungo nell'acqua gelida, erano intirizzite, con conseguenti dolori. Le donne dovevano sopportare una tale condizione per così lungo tempo che spesso i polpastrelli diventavano cianotici. Per cercare di riscaldarle le lavandaie portavano con sé degli scaldini, ma i risultati erano sempre davvero modesti.
Chi utilizzava il sapone lo produceva i proprio. In un caldaio (caldero o caldaro in dialetto) si mettevano questi ingredienti: 1 chilogrammo di pece greca, 1 di soda caustica, 1 di soda comune, 150 grammi di allume di rocca, 150 grammi di talco, 3 chilogrammi di grasso animale (sego, avanzi di lardo o strutto) e inoltre 18 litri di ranno raccolti quando si faceva il bucato. Al temine della bollitura, se si voleva profumare il sapone, veniva aggiunto un composto fatto di acqua e lavanda o qualche altra essenza.
Tutto veniva fatto bollire per tre ore, facendo attenzione che niente uscisse e girando periodicamente il liquido per favorirne l'amalgama. Dopo questo tempo si toglieva il caldaio dal fuoco e si lasciava raffreddare per un po', quindi il contenuto veniva versato in un recipiente largo e basso, solitamente di metallo dove restava almeno un giorno. Una volta freddo si procedeva a tagliare i pani di sapone.

I gesti delle lavandaie
Il lavoro della lavandaia comportava l'esecuzione di azioni specifiche. Durante la fase del lavaggio e del risciacquo in acqua corrente i panni venivano battuti e strisciati sulle pietra e sottoposti a torsioni per far uscire il liquido in eccesso (Figura 11).

Per la fase del risciacquo finale le lavandaie entravano nel letto del fiume e, tenendo il tessuto per un angolo, lo muovevano nell'acqua per eliminare de definitivamente tutti i residui (Figura 12).

Per trasportare a mano le canestre del bucato venivano adottate due diverse modalità: tenendole al fianco (Figura 13) o in equilibrio sulla testa frapponendo un cercine, come si può notare nelle Figure 2 e 14.

Le lavandaie che provvedevano anche alla fase di stiratura del bucato avevano molta cura a non danneggiare i tessuti, dato che utilizzavano dei ferri da stiro scaldati sul fuoco o contenenti all'interno carboni roventi. Prima di passare il ferro si doveva controllare che lo strumento fosse caldo al punto giusto e quindi la lavandaia faceva un gesto consueto: bagnava con la saliva il polpastrello e toccava la superficie inferiore del ferro per saggiarne il calore.
Note:
1) Nel contratto di mezzadria, oltre a quanto disposto in relazione alla suddivisione dei prodotti agricoli e del bestiame, venivano imposte delle attività accessorie a favore dei proprietari dei terreni (che assumevano la denominazione di obblighi) che le famiglie contadine dovevano svolgere durante l'anno; spesso tali attività erano disciplinate dalle consuetudini e non erano riportate nel contratto.
2) Si veda Maria Cecilia Moretti, Lorena Beneduce Filippini, Fausto Minciarelli - “Il Tevere a Umbertide”, a cura di Sestilio Polimanti, Città di Castello, Petruzzi, 1995, p. 31.
3) Si veda Edda Corgnolini, “Ve lo dico, ve l'ho detto, ve lo torno a dir di nuovo” - Trestina (Città di Castello), Gra che Sabbioni, 2004, p. 105.
4) I lavori per la realizzazione del campo di gara per la pesca sportiva e i vari interventi di sistemazione delle sponde ne hanno definitivamente cancellato ogni presenza.
5) Zone sassose e ghiaiose adiacenti al fiume.
6) Edda Corgnolini, op. cit., pp. 32-34.
Le foto sono tratte direttamente dal testo originale di Federico Ciarabelli
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