storia e memoria
di Massimo Pascolini
Sessant'anni dopo l'umbertidese Feliciano Pascolini, uno dei primi soccorritori, racconta la drammatica esperienza vissuta sul luogo di uno dei più terribili disastri della storia del nostro Paese.
Sono passati 60 anni dal disastro del Vajont, uno degli episodi più tragici della storia italiana. Nella sera del 9 ottobre 1963 morirono 1.910 persone tra cui 487 minori in seguito alla frana che colpì la diga del Vajont, nel comune di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, Friuli Venezia Giulia. A distanza di sessant'anni, la tragedia rappresenta ancora una ferita aperta e il ricordo del disastro è rimasto indelebile.
Intorno alle 22.40 della sera del 9 ottobre 1963, una frana di oltre 270 milioni di metri cubi di roccia si infranse sul bacino artificiale del Vajont a una velocità di 110 chilometri orari. Nel bacino artificiale erano presenti circa 115 milioni di metri cubi d'acqua. L'impatto causò un'onda superiore ai 250 metri di altezza che si è poi abbattuta sui comuni limitrofi, come Erto e Casso, dove morirono 158 persone, per poi riversarsi nella valle del Piave. I paesi distrutti furono Longarone (dove morirono 1.450 persone), Codissago e Castellavazzo, dove si contarono 109 morti. Molti corpi non furono mai ritrovati.

A chi si adoperò per estrarre le salme dal fango e prestò il proprio aiuto per far ripartire la vita in quei luoghi, interrotta dall'onda del 9 ottobre 1963, a Longarone è stato intitolato il “Viale soccorritori del Vajont”. E' stato questo uno dei momenti più importanti del 60° anniversario del disastro che è stato ricordato lunedì 9 ottobre 2023 alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Feliciano Pascolini, accompagnato dalla moglie, dal figlio Simone e dalla nuora ha voluto essere presente alla manifestazione. Umbertidese di 82 anni, racconta la sua esperienza nel Vajont, dove fu mandato poche ore dopo la tragedia quando aveva 22 anni in qualità di militare, era sergente del 114° Reggimento Fanteria Mantova di stazza ad Artegna (UD). Un'esperienza terribile e toccante allo stesso tempo che lo ha segnato per tutta la vita. Feliciano, che adesso è padre e nonno, è tornato più volte in quei luoghi, anche durante il viaggio di nozze e non ha voluto mancare per il 60° della tragedia. Quei giorni passati lì da militare non se li dimentica più. “Ero di ronda, quando verso le 11, me lo ricordo benissimo - dice raccontando la tragedia del Vajont - venni rintracciato da una camionetta del mio reggimento con l'ordine di rientrare immediatamente. Quando arrivai in caserma trovai già tanti miei commilitoni pronti per partire. Non era un'esercitazione, ma ci dissero solo che ci dovevamo spostare. Chiedemmo cosa fosse accaduto e perché l'allarme avesse suonato. Poche parole, nessuna spiegazione alle nostre domande. Nessuno ci spiegò cosa avremmo dovuto fare. Ci fecero prendere le armi e poi si partì. Si pensò che fosse successo qualche cosa lungo il confine con la Jugoslavia. Lungo la strada venimmo a sapere che era accaduto qualche cosa ad una diga, ma niente di più. Impiegammo circa tre ore nel tratto di strada che facemmo sui camion dell'Esercito. Era ancora notte quando arrivammo al paese di Castellavazzo, da dove non si poteva proseguire oltre perché la strada non esisteva più. Ancora non riuscivamo a capire. Poi, mano a mano che si faceva giorno, iniziammo a renderci conto di quello che poteva esser successo”.
Immagini che Feliciano ha ancora davanti agli occhi e che lo fanno ancora commuovere.
“La prima scena che mi si parò davanti e che non è più andata via dalla mia mente furono í binari della ferrovia che si erano alzati di una cinquantina di metri a formare come un otto volante. con attaccati brandelli di ogni cosa. Quando arrivammo al Piave la situazione ci si presentò davanti in tutta la sua tragicità: il fiume portava giù di tutto. Quando arrivammo nei luoghi colpiti dall'onda anomala vedemmo cose che è difficile raccontare. Iniziai a notare delle mucche morte, qualche cervo. Le carcasse erano tutte gonfie. Arrivammo presso un bar, uno dei pochi edifici rimasti in piedi ove ci dissero quanto era successo. Per aiutare il proprietario tutti noi acquistammo delle cartoline del luogo, una delle poche cose che erano rimaste (io ne comperai 10 che più tardi inviai a casa, ma solo una arrivò). Sul posto già operavano gli alpini. Poi arrivò il tenente che ci consegnò pale e picconi e ci disse che il nostro compito era quello di trovare le persone decedute. Noi militari lavorammo senza sosta per tanti giorni tra macerie, acqua e pianti. Dormivamo poco. Per quattro giorni abbiamo mangiato le famose “Razioni Kappa”, ma non avevamo fame. L'acqua non esisteva e quella del Piave ci dissero che era inquinata dai liquami di una fabbrica chimica andata distrutta. Per andare avanti, ricordo ci davano grappa a volontà. Il fiume era pieno di cadaveri. Uno dei ricordi più brutti - confessa - è quando trovammo una bellissima ragazza nella fanghiglia, completamente nuda. Purtroppo, molti dei cadaveri erano completamente nudi. Dopo i primi giorni, venimmo spostati più a valle, presso il paese di Erto. Qui trovammo la solita distruzione. Ora non si trovavano più cadaveri interi, ma si andava alla ricerca, nel fango oramai indurito, di piccoli segnali come pezzi di stoffa, o altro che ci indicassero ove scavare per recuperare dei corpi. Si estraevano parti di persone, un arto, un piede, un busto, quasi tutti senza testa. Uno spettacolo impressionante. Poi arrivammo al cimitero. Le tombe erano state devastate, le casse e i morti, che riposavano lì, erano stati scaraventati nel fiume insieme a tutto il resto. L'unica cosa rimasta in piedi era una piccola statua di un angelo su cui una mano sconosciuta aveva posato un fazzoletto bianco. Qui trovammo pure una campana in bronzo. Sia l'angelo e la campana ho avuto il piacere di rivedere nel museo di Longarone, costruito in memoria della tragedia. Lavorammo lì per 15 giorni. La sera venivano messi in fila i morti mentre i poveri resti venivano nascosti per non farli vedere ai parenti che si aggiravano fra quel disastro alla ricerca dei loro cari. Continuavamo a scavare, a testa bassa e in silenzio: Eravamo giovani, lavoravamo più che pensare”.

Feliciano ha ricevuto per questa sua opera meritoria un attestato di Benemerenza che gli fu riconosciuto dal Ministero della Difesa assieme ad una medaglia che purtroppo non arrivò mai tra le sue mai, probabilmente trafugata durante la spedizione postale.
Pubblicato sul periodico “Informazione locale” – Ottobre 2023
