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Umbertide

storia e memoria

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La storia del Bar Pazzi - Valinos

Marisa Pazzi ha raccontato nel 2002 sul periodico comunale "Umbertide cronache" la storia di uno dei bar più antichi di Umbertide, nella centrale allora piazza Umberto I, con i suoi ricordi da bambina

Marisa Pazzi ha raccontato nel 2002 sul periodico comunale "Umbertide cronache" la storia di uno dei bar più antichi di Umbertide, nella centrale allora piazza Umberto I, con i suoi ricordi da bambina

Francisco Valinos, originario della Spagna, si trasferì all’inizio del secolo a Città di Castello. Fine e brillante, qui conobbe Eugenio Pazzi, giovane intraprendente col quale decise di iniziare un’attività in proprio.

Quando Zerullo, il gestore del Bar di Piazza, entrò alla Posta, Francisco ed Eugenio si trasferirono ad Umbertide e subentrarono nel “Caffè L’Unione”: nacque così il mitico “Bar Pazzi e Valinos”. Era il 1928.

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Allora si doveva far tutto da soli, niente era pronto, utilizzando le materie prime locali. Mamma Armida preparava l'impasto per i bignè ed i cannoli, li disponeva nella "ramata" che portava a cuocere al forno di Bucitino. Intanto era arrivata la Nena - la lattarola - con la latta del latte (si perdoni il bisticcio di parole) in una mano ed il canestro delle uova nell'altra.

La crema era appena pronta quando le paste tornavano dal forno pervadendo i vicoli di un profumo irresistibile, pronte ad unirsi in un connubio dolcissimo. Ecco fatto: le "bombe" dell'Armida erano pronte ad immolarsi ai palati dei Frattigiani.

Ma le uova ed il latte si combinavano anche nel miracolo del gelato alla crema e, con l'aggiunta di cacao, al cioccolato: invece che nel caldo del forno, la crema trovava una morte altrettanto dolce al freddo. Il ghiaccio, a pani avvolti nella iuta, lo portava Pompeo che andava a ritirarlo dalla fabbrichetta della Peppa Santini, vicino alla stazione. Lo portava nel magazzino sul retro del bar, verso il Tevere, dove una macchina piena di cinghie riusciva ad amalgamare la crema in una deliziosa spuma fredda, senza un granello di gelo. I pani di ghiaccio erano messi anche nel cassettone rivestito di zinco, antenato del frigorifero, disposti a file parallele fra le quali venivano "messe al fresco" le bibite, in particolare i sifoni (acqua e seltz) e le gazzose che la stessa Peppa produceva.

Se uova e latte erano della nostra campagna, addirittura dal Brasile arrivavano le balle piene di bacche di una pianta tropicale di cui si diceva un gran bene. Per poter estrarne un liquido nero - il caffe - eccitante, dolceamaro, occorreva tostarle. Sull'orto verso il fiume si accendevano le stecche, si mettevano le bacche dentro lo sportelletto del cilindro annerito dalla fuliggine, che veniva lentamente girato a mano sopra le fiamme. Più passava il tempo e più il profumo intensissimo di caffè dilagava per il paese; quando l'intensità portava sull'orlo dello svenimento, la tostatura era perfetta. In paese non c'era anima che non avesse l'acquolina in bocca: pochi si potevano permettere il lusso di gustarlo al bar; altri lo venivano a prendere con una bottiglietta per rimettere in sesto qualche familiare deperito; la maggior parte purtroppo si doveva accontentare del profumo.

La vita del bar era intensissima e tutta la nostra famiglia era impegnata in un lavoro massacrante, nessun giorno di riposo, si mangiava a turno; solo Pasqua, Natale e i1 Primo dell'anno potevamo sederci insieme a tavola. Ma i1 risultato era davvero importante: si rendeva più piacevole la vita della gente.

Si cominciava la mattina all'alba a riscaldare le viscere dei primi avventori con il punch alla livornese. A mezzogiorno "l'Americano", l'aperitivo della casa, offriva una parentesi di riposo in più, soprattutto a quelli che al riposo erano predisposti.

I pomeriggi delle feste la gente bene riempiva i tavolini in Piazza tra i lampioni; si divagava in lunghe conversazioni sorseggiando le bibite che Menotti, giacca bianca e farfallino, porgeva dal vassoio. Intanto il suono della tromba del giradischi si diffondeva dalle finestre del secondo piano dove Sciuscino girava la manovella e sceglieva i brani, progenitore dei D.J., tenendo conto dei gusti di nonno Valinos, appassionato di lirica ed innamorato di Caruso.

Arrivò la guerra a turbare quel paradiso ed a sconvolgere la vita di tutti, compresa quella del babbo Eugenio che già in quella del '15/'18 aveva avuto modo di essere ferito, guadagnandosi la croce a1 merito e la carica, per trent'anni, di presidente della Sottosezione dei mutilati invalidi di guerra.

L'entrata del bar fu schermata da grosse tende per il coprifuoco, ma gli avventori non si scoraggiarono del tutto, potendo scappare da una porticina sul retro che non esiste più. In questo modo diversi si salvarono dai rastrellamenti.

Dopo il bombardamento sembrava che fosse finito tutto. Invece la voglia di rinascere riportò la vita di prima. Ma l'arrivo della televisione e di "Lascia o Raddoppia" rivoluzionò tutto: la sala del bigliardo, dopo cena, si trasformava in teatro, dove si riversava tutto il paese; c'era anche chi portava la sedia da casa.

Ma oramai questa è storia d’oggi (N.d.r. 2002): quella del vecchio bar – pasticceria – biliardo Pazzi e Valinos è finita ed irripetibile. Cosa ricorderanno fra cent’anni, dei bar di oggi dove tutto è pronto e tutto è fatto?


Pubblicato sul periodico comunale “Umbertide cronache” – n.2 2002 nella rubrica “Storia Cittadina – Fatti e personaggi” a cura di Fabio Mariotti

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28/11/25

La storia del Bar Pazzi - Valinos
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